sabato 22 gennaio 2011

Le mie parole...

Il vestito bagnato che odora di gomme sull’asfalto dei pensieri che schivano ruote e corrono come insetti impazziti o si bloccano nel decifrare i rumori, nel sentire come un indiano che poggia l’orecchio alla terra, nel sentire la guerra, scandita dal tamburo che scandisce un ritmo fuori luogo nascosto dallo sterno, finestra a sbarre con un vetro rotto, e da lì fuoriescono farfalle. Una è priva di vita sulla strada di casa, ha ali gialle di uova sbattute e zabaione di cui avverto il sapore guardandola, ha disegni così perfetti, che non possono, diresti, appartenere a un corpo  a cui non appartenga anche il volo, poi passi oltre, perché il suo volo mancato fa male, perché mi sento lacerata la schiena dove prima schiudevi parole, sangue, mi cola sangue dalle scapole tese per avere scoccato una freccia per nessuna traiettoria. Il mio vestito verde-marcio riflette il marcio-verde dei miei occhi dove nuotano papere su sentieri inquinati e dalle piume lucenti. Si chiamano, si amano. I miei occhi hanno assorbito il sangue di un cuore gonfiato a stenti che pompa strategie per non finire tra i denti o sminuzzato d’artigli… il mio cuore è un pipistrello che a testa in giù prende coscienza della notte, del cibo, e lo sciame di cazzate che ogni giorno gli si presenta. Il mio cuore danza alla luce di un lampione con le ali nere e sete di sangue ma senza ipocrisia mi lecca acqua e zucchero da sopra le palpebre. Vorrei essere più pratica, e fare uscire parole pratiche e vorrei essere più burocratica e scaltra e  vorrei essere all’occorrenza e vorrei essere l’esigenza e vorrei essere spessa e avere una muta a difendermi dal freddo, invece che questa pelle sottile come pozzanghere a coprirmi le viscere. Vorrei fare la cosa giusta, vorrei spesso bloccare la vista del mio corpo come polpo sbattuto ma delicato al palato, vorrei bastasse il mio inchiostro nero per fuggirvi in un angolo di oceano che non posso raccontare in apnea. Invece, l’ho detto, le mie parole sono latte e le vostre orecchie bocche attaccate alle mie tette, le mie parole sono in mezzo alle mie gambe, esattamente dove ritraggo le mie tele e che si voglia guardarle o sentirle a voi la scelta di nascere o godere. Le mie parole vorrei fossero miele e le mani sulla carta a cercarle, come quelle sulla pancia, e i sospiri condivisi e la mia lingua che le esprime un modo per raggiungervi le labbra, la gola, scavalcare i denti, come muri bianchi e correre stanchi verso altri cancelli, le parole che sento sono morsi che non lasciano segni, sono colore del fango a volte, sono pesci e tartarughe, sono quello che non puoi cambiare, sono annotazioni, sono capelli raccolti, raccolta disperazione, fermenti lattici, gomme all’aspartame perché di qualcosa ci tocca morire. Sono, come dire, l’inevitabile. Sono le lancette di un tempo relativo in un orologio giocattolo, sono gli occhi aperti a forza perché non riesco più a fargli scorrere sopra palpebre come saracinesche rumorose e improvvise quando è finita l’ora delle visite. Le mie parole la chiave dietro la schiena, le mie parole vapore acqueo, le mie parole anelli che segnano l’età di un albero morto, vi scorro sopra le dita. Le mie parole a torto, le mie parole che sono antistaminici, sonniferi, antidepressivi, le mie parole ingoiate, le mie parole succhiate, le mie parole partorite, le mie parole sverginate, le mie parole godute, le mie parole mancate. La firma del mio nome, parole mai scelte, che ripeto in eterno, che mi chiamano da altre bocche, le mie parole che non dico e quelle che sospiro, le mie parole a mangiarsi dentro, quando mi sono cadute le ali, le mie parole a decompormi i pensieri, a setacciarne i pezzi migliori, come avvoltoi che non scaccio ma amo, a cui parlo,  a cui tendo la mano. Le mie parole come acqua e sabbia, le mie parole ad aprirmi la gabbia, le mie parole contraccettive quando sono prudenti abbastanza e quelle abortite e quelle appena nate, quelle che mi portano lavate per vedere dove mi rassomigliano. E quelle che non riconosco, quelle per cui sono perduta, quelle per cui darò la mia stessa vita. Quelle per cui ho ferito, quelle con cui ho tradito, quelle per salvarti, quelle per lavarci, quelle che portavano fianchi, quelle prostituite, quelle in attesa della tua esecuzione, quelle cadute ai piedi in un’opinione, quelle sferrate all’improvviso, quelle uscite senza preavviso. Quelle che ti ho fatto stuprare e quelle di denuncia che ti ho fatto scorrere occhi negli occhi senza nemmeno fiatare. Sono stanca, stremata, ho il fioretto che mi pesa, il mio sesso è scarabocchiato a penna, il mio seno è condito col sale, il mio sguardo frutti di mare che si gonfiano alla corrente, la bassa marea mi fa avvertire granchi che mi circondano  i piedi e lascio che salga per galleggiare su altre idee, mi sospendono, vi poggio la testa, la luce della luna crea un occhio di bue, le quinte rosse sono imbrattate di sangue e gli attori hanno parole di sperma e spermatozoi come girini ingoiati da rane ad applaudire l’idea. Sono stanca di muovermi aspettando la traccia a matita schiacciata, non vedo la tridimensionalità del pensiero, percepisco fumetti nelle bocche sbagliate, in disegni perfetti. Sono stanca della sottile differenza concessa alla mente sana, della pazzia sublimata, sospesa tra una tapparella e il balcone, dove se tiro velocemente posso schiacciarla e guardando il sole fingere che non sia mai esistito niente. Ora termino di scrivere ho le cosce aperte da troppo tempo e devo cambiare posizione, ora termino che le ho masticate troppo, ora termino perché le parole cominciano ad avere un odore e i miei occhi sono lettere a caso.

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