Eloisa Guidarelli - 12 anni
Il branco
Sono la scimmia che dondola su questo taglio di luna,
sono occhi neri e scaltri come i miei salti, una coda che scivola via
dall’inquadratura della tua fotografia e muso capovolto sul tuo obiettivo
deriso, sono rami gettati dal vento al palmo prensile che lancio, per essere
fatta di volo e foglie, fruscio di foresta sul tuo sguardo ampio che resta
fermo. Sono la terra che beve acqua, una risata tragica, rubo la frutta al
mercato delle anime esposte, e mi posiziono sull’albero più alto e mangio sopra
tutte le vostre teste.
12 anni e uno zaino carico più
pesante di me, esile, longilinea, gambe lunghe adatte alla fuga, troppe domande
e nessuna risposta, un’adolescenza muta e oscillante come tante, capelli biondo
cenere sottili come ragnatele, occhi chicchi d’uva verde, pensieri ubriachi pestati e ripestati in
sguardi di mosto, traditi nelle stagioni sbagliate. Scarpe adatte alla
montagna, una coda di cavallo e occhi al finestrino, mio fratello accanto, 11
mesi più grande, c’è un lasso di tempo che attendo in cui ci è concesso di
avere lo stesso numero di anni, una sorta di riscatto, prima che lui parta di
nuovo con quell’anno in distacco, una staffetta stabilita dal tempo, che mi
vede eterna seconda, mio fratello ha capelli neri, ma neri come il petrolio,
occhi marroni grandi, sopracciglia lunghe e nere che portiamo entrambi, anni di
nuoto obbligato e ripetuto, testati allo scatto e a lunghezze lunghe, al mare e
alla piscina, al sale e al cloro, al phon e al sole, al catrame, alle
verruche ai piedi delle piscine, alle cabine chiuse degli spogliatoi, al
chiasso delle vasche, all’inquinamento acustico, alle onde d’acqua
all’orecchio, al flusso di pensieri di adolescenti prigionieri dei 25 o dei 50
metri, e ora qui, con le facce al finestrino di un pullman che per la prima
volta ci porterà distanti dalla famiglia per una vacanza da soli verso due
località di montagna, un campeggio per ragazzi scaltri organizzato dal Comune
di Bologna a garanzia di fiducia, serietà e stabilità. Emotivamente tutto e
niente, sguardi incollati al finestrino per scorgere paesaggi non scelti e
tentare di farsi piacere prigioni nostrane delle valli montane, due tappe,
Madonna dell’Acero, così mi pare di ricordare, una settimana? Quindici giorni?
Non lo ricordo perché era un tempo immoto e remoto e dilatato al punto che non
era neppure più tempo ma un fluido, e poi seconda destinazione Sega Vecchia più
che una località una promessa. Sapevamo io e mio fratello di essere catapultati
in questo spazio tempo con zaini in spalla perché nostro padre e nostra madre
potessero finalmente separarsi con calma, persino insultarsi o accordarsi o
vedere i propri rispettivi avvocati o pensare senza sguardi sorpresi tra i
piedi, senza testimoni ai quali quei proiettili vaganti sarebbero potuti
arrivare nei discorsi gestiti male, era una cosa giusta, non c’era altro da
fare, se non che noi, entrambi, alla montagna, abbiamo sempre preferito il
mare, e qui erano licheni a destra e a
sinistra dello sguardo. E non era neppure colpa di licheni e fragole di bosco
se mi mancavano conchiglie e tutto il resto.
Erano gli anni 80 e paradossalmente anche se il divorzio
non era certo una novità, sembrava però un “marchio” a tutti gli effetti,
personalmente è chiaro che ero sofferente, sconvolta e che in parte ci capivo e
non ci capivo, ma in realtà, assistere a liti e urla che non sapevi come
potessero finire, ti faceva semplicemente pregare che tutto potesse finire al
più presto e un divorzio anche per noi era di gran lunga preferibile a un
omicidio, i ragazzi ci arrivano a questo, lo capiscono perfettamente, non
significa che se lo facciano piacere, ma istintivamente cercano le vie di fuga
migliori. Sono gli adulti a fare casini nelle menti adolescenti, solo e sempre
quelli, infatti da parte di padre, tutta la mia famiglia cattolica paterna, ci
faceva sentire consciamente o inconsciamente tutto questo uno scandalo enorme,
caduto su una famiglia “per bene” e io e mio fratello i poveretti marchiati,
che non hanno colpa, certo, ma insomma sono pur sempre “diversi” ora. Da parte
della famiglia materna la situazione era diversa, una sorta di tiro alla fune
con i nostri fragili nervi adolescenti, gli ormoni a quell’età non ti aiutano
poi a capire. Terza media, il professore di italiano chiede a tutti i figli di
separati di alzare la mano, una sua personale statistica, forse fatta con buoni
propositi, penso volesse dimostrare che ormai il divorzio era cosa usuale,
avevo appena cambiato casa, scuola, e vita e ho alzato la mia mano, ma
statisticamente non andò così bene perché la mia era l’unica mano del cazzo
alzata, poi disse “alzino la mano quelli con i capelli rossi” e un altro
reietto alzò la mano, non mi ricordo dove si andasse a parare con questo,
quindi i figli dei divorziati e i figli con i capelli rossi erano i “diversi”,
in fondo figli del diavolo entrambi, non ero sola, ecco. Lui era un buon
professore, mi chiamava Guido, il che mi confondeva molto sulla mia sessualità,
il mio cognome “Guidarelli” e il mio nome, avevo un nome, “Eloisa”, non li
utilizzava. Mi vedeva sempre muta e silenziosa, stavo isolata e lui mi si
avvicinava “Guido, so che non stai passando un buon periodo, qualsiasi cosa io
sono qui e mi puoi parlare” “ Va bene,
se mi vuole aiutare eviti le statistiche”… lo pensavo, ma sia chiaro, non glielo
ho mai detto, ero troppo timida per farlo,
sentivo che mi guardava e mi seguiva come si guarda e si segue una
potenziale suicida, peccato che io non mi sarei mai sentita una “diversa” se
tutti anche con le migliori intenzioni non mi ci avessero fatto sentire,
mettendomi al centro di un’attenzione che non cercavo, né desideravo.
E per correre avanti nel tempo,
a 17 anni la mia migliore amica mi confessa di avere litigato con sua madre
perché la madre le aveva detto, testuali parole:
“ Non dovresti vederti con Eloisa, non va bene, perché è figlia di
separati” E lei prontamente le aveva risposto: “E allora, anche mio fratello
frequenta M che è figlio di separati” e la madre di rimbalzo: “Lui è più grande
e comunque non va bene, in quanto figlia di separati certamente avrà dei
problemi, i figli di separati hanno sempre problemi”.
Intendeva problemi mentali,
intendeva un equilibrio instabile, intendeva poco di buono? Qualcosa che si
poteva attaccare? Ero rimasta sconvolta anche dal fatto che la mia amica me lo
avesse riferito così nudo e crudo, siamo sempre rimaste in ottimi rapporti
ovviamente, e la cosa non ha influito sulla mia amica, un po’ di più su di me
forse, inoltre mi sono poi fidanzata con l’amico del fratello, figlio anche lui
di genitori separati, perché a quel punto tra figli di genitori separati c’era
una sorta di solidarietà e fascinazione che si trasformava in amore, insomma ci
si sceglieva tra esclusi. Sapevamo qualcosa che altri non sapevamo, sapevamo
cosa si sente a essere giudicati, conoscevamo il pregiudizio e presto ne
avremmo fatto un vanto, lo avremmo utilizzato come uomini e donne perduti e
tanti saluti, battendo in erotismo ogni altro avversario. In fondo saranno i
figli di separati a conquistare il mondo. Saranno quelli con le cicatrici
interne, gli eterni sfregiati ad averla vinta, non è questo il carisma, non
fuoriesce spesso da un percorso diverso, da una deviazione dal retto sentiero,
da qualsiasi cosa di non “prestabilito” di non “garantito” dalla vita stessa,
come una sorpresa, una scommessa? Ma torniamo al campeggio, perché quello era
un altro periodo e quegli anni, dodici e tredici anni, un ostacolo, un
problema, una menomazione, lo erano in mezzo a ragazzi che avevano vissuto
appunto il doppio o il triplo dei nostri anni anche quando avevano, nella
migliore delle ipotesi, la stessa nostra età, ma era solo anagrafica, quei
ragazzi maschi e femmine, avevano tutti un vissuto da uomini e donne, nella
vita, nella sessualità, negli sguardi, nelle mani, nei corpi. Provenivano infatti
tutti da realtà così dette a “rischio”, ma più a rischio era la realtà quando
incontrava loro, quello era una sorta di campeggio per riabilitare,
raddrizzare, non so neppure come definire, impegnare, occupare, gestire un
gruppo di ragazzi che probabilmente avevano esperienze che potevano andare dal
furto, all’intimidazione, alle minacce, molti di loro provenivano dal Pilastro,
a Bologna, in quegli anni, ritenuta una zona talmente a rischio che neppure la
polizia o i carabinieri ci andavano volentieri, era zona “loro” e salvo i
dovuti grossi interventi, era sempre stato una sorte di Far West autogestito, zona limite per chi non fosse
stato esattamente come loro, i nostri
genitori ignoravano questa realtà e l’avrebbero ignorata per tutta la vacanza,
noi avremmo presto dovuto affrontare un mondo totalmente nuovo.
Gli accompagnatori erano molto
liberi e disinvolti, si impegnavano a farci camminare per ore per sentieri di
montagna, a farci mangiare insieme, a fare giochi di gruppo, stare intorno a un
fuoco, organizzare gite e campeggi all’aperto e stavamo tutti insieme, le notti
due enormi case rettangolari in muratura di diversi metri, erano allestite con
file di brande militari a castello, non è bello da dire ma la struttura e la
disposizione stessa delle brande ricordava il Lager, i maschi dovevano dormire
separati dalle femmine, ma l’unico
divieto a questi ragazzi che non concepivano i “divieti” erano gentili parole,
che regolarmente non venivano considerate, perciò la notte c’erano vere e
proprie invasioni di campo, i ragazzi raggiungevano le ragazze, si accoppiavano
senza troppi problemi, alcuni tra di loro si “fidanzavano”, fidanzamenti
stagionali, spesso a fianco della mia “branda” sopra o sotto, a seconda di dove
dormissi, qualcuno a pochi millimetri dal mio respiro, dal mio sguardo o dai
miei sogni scopava. Questi ragazzi sembravano conoscersi anche dagli anni
passati, c’erano recidivi che tornavano in questo campeggio per trovarsi, io e
mio fratello eravamo gli unici nuovi e diversi. Le ragazze erano donne ai miei
occhi, avevano seni grandi, facevano sesso, avevano il pube pieno di peli,
sapevano tutto quello che io non sapevo, la mia sessualità era accennata come
un disegno ancora non terminato, avevo due centimetri di seno e quel capezzolo
che tende a gonfiarsi ma che ancora assomiglia più a quello di un ragazzo,
avevo pochi peli e un fisico acerbo e vedevo ogni sera loro accoppiarsi come
animali, ma non riuscivo a formulare un giudizio, solo non sapevo come fare
parte di tutto questo, mi accovacciavo muta nella branda sperando che nessuno
venisse a scocciarmi, fingevo di dormire perché avevo paura che se avessi
guardato mi avrebbero aggredita, se mi avessero sorpresa sveglia avrebbero
pensato che li spiavo, così fingevo di dormire. Ma loro sapevano che c’ero e le
ragazze grandi avevano cominciato a proteggermi, in qualche goffo modo,
attiravano l’attenzione, facile da attirare, su se stesse, e quando qualcuno
per gioco o per schernirmi si avvicinava, queste donne-bambine, sussurravano
“lasciala stare, dorme, lasciala in pace” , ragazzi cominciarono a darmi la
buona notte, anche mentre me ne restavo ad occhi chiusi, il rito della buona
notte, dopo avere scopato, succhiato, leccato, passava anche dalla mia branda,
“notte”. E solo quando tutti se ne uscivano era realmente notte e potevo
dormire, con l’odore di sesso e tutto il resto, la luna, le stelle, i versi
degli animali notturni, in quel posto isolato, lontano dal paese, e da ogni
altro essere vivente che non fossimo noi, tutti noi, sempre noi. Ero protetta
dalle donne, ero protetta dalle femmine-bambine, dalle puttane buone, mi
piacevano tutte, mi legavo, volevo loro bene. E le trovavo belle come fate,
solo loro riuscivano a tenere a bada i ragazzi. I ragazzi cominciarono a
guardarmi, era troppo presto per sedurmi, avevano un codice, tutti, lo stesso
che hanno anche nelle carceri, i pedofili non erano accettati, quindi pur
avendo i loro sguardi lascivi addosso, sentivo che si attenevano a qualcosa di
più forte del loro stesso istinto, e se non mi poteva toccare qualcuno, non mi
poteva toccare nessuno, guardavano, commentavano, provocavano, ma non ero una
ragazza cresciuta, e c’era un veto, una regola persino tra stupratori,
scassinatori, e gente che tirava fuori coltelli a serramanico come si tira fuori
un fazzoletto da una tasca. Ero rispettata,
ma sentivo la tensione provocata da questo rispetto imposto, una sorta
di potenziale minaccia, erano come lupi in branco che aspettassero, cosa? Che
crescessi all’improvviso, assaggiavano con il pensiero il sapore della donna
che promettevo di diventare, “peccato che non abbia l’età”, questo masticavano
fra i denti quando ignara passavo loro davanti. E io non mi ero accorta che in
quel modo ero stata accolta nel branco. Non lo sapevo che ne facevo parte a
tutti gli effetti.
LE DOCCE
Le docce
erano distanti dai dormitori, come i bagni, c’era una sorta di passeggiata a
piedi che ti dovevi fare con le tue cose in mano, shampoo, sapone e quello che
ti occorreva, seguivo le ragazze che avevano asciugamani tra le braccia, o
direttamente indosso, io non capivo perché mia madre aveva riempito il mio
zaino con asciugamani così corti, adatti per i capelli o per un bidet, così mi
ero avvolta quello che avevo, un asciugamano che mi copriva dai capezzoli
arrivando appena sotto il pube, se solo mi fossi chinata o se mi si fosse
spostato di pochi centimetri sarei stata nuda, e naturalmente appollaiati come
avvoltoi, al muretto che dava vicino alle docce c’erano tutti loro, il branco,
vedere passare le ragazze che andavano alle docce, tentare di seguirle,
lanciare battute era uno dei momenti che pregustavano, e le ragazze li
sbeffeggiavano, proibivano categoricamente di entrare in doccia, almeno lì,
c’erano poche zone neutrali, le docce chissà perché lo erano. Quando passo davanti
a loro, qualcosa mi cade dalle mani, e
rimango paralizzata, loro mi scrutano e sanno benissimo che comunque mi chinerò
qualcosa dovrò mostrargli, trattengo il fiato e scendo lentamente
inginocchiandomi senza sporgermi con il sedere, un po’ delusi mi urlano: “un
po’ corto quell’asciugamano, non trovi?” Ma dentro le docce è caldo e siamo
tutte nude, il vapore, le risate e le sbarre all’unica piccola finestra, una
prigione in cemento armato quadrata, e l’acqua che si avvinghia nei peli e
scorre con il sapone giù per le canalette di scolo, una ragazza è bionda
chiarissima, albina, ha sopracciglia e ciglia quasi bianche e i peli del pube sono dorati, completamente
dorati, la guardo come fosse un’extraterrestre, non avevo mai visto una passera
così bionda, non era una passera ma una lanterna, poteva fare luce nella notte,
i ragazzi erano insetti notturni
attratti dalla luce, falene disperate che si sarebbero bruciate volentieri le
ali, era una rarità, era qualcosa che non riuscivi a non guardare, soprattutto se
uno sguardo intorno e su te stessa ti faceva cogliere il nero di ogni triangolo
esposto, ogni triangolo molto più folto del mio, ogni seno molto più florido
del mio, ogni centimetro di quella pelle lavata già più volte accarezzato,
mentre persino l’acqua mi scorreva vergine addosso. E loro guardavano il mio
corpo con tenerezza, sorridendo senza offesa, diventavano tutte materne.
IL
CIONDOLO
Nella
tenda delle ragazze c’era la solita invasione di campo, la bionda albina stava
fissa con un ragazzo, le coppie erano rispettate, nessuno ci provava con la
ragazza di un altro, le libere terra di nessuno, loro erano una coppia e
facevano sesso regolarmente, un altro ragazzo, moro, tra i più grandi e
violenti stava con la cugina della bionda, una ragazza bellissima, alta,
formosa e con un seno bellissimo, le due ragazze sembravano sempre molto
svampite con gli uomini, ma soprattutto la bionda aveva l’aria di avere già
vissuto una vita dura, chiaramente a me sembravano grandi avendo solo 12 anni,
ma molte di loro non erano neppure maggiorenni, ma avere 17 anni o 16 lì era
come avere vissuto due vite, lo stesso valeva per i ragazzi, questi due ragazzi
entrambi di nome Roberto erano tra i più massicci come corpi, tra i più adulti
e seguiti, perché considerati più grandi e prepotenti, non ci mettevano nulla
se gli girava storto ad aggredire, quello che stava con la bionda era molto
alto, l’altro più basso però era forte, la cugina della bionda aveva osato dire
qualcosa, fare una domanda che non doveva fare, e aveva aggiunto: “E’ vero che
tu…” non aveva finito la frase che lui le aveva urlato “Cosa hai detto?”
tirandoselo fuori, come si tira fuori un coltello, la minacciava con il
pene, io queste vicende poi le
raccontavo a mio fratello che chiaramente era un isolato dal gruppo maschile
per età ed esperienza e ci facevamo enormi risate, oltre a contare i giorni
come prigionieri, i giorni che ci mancavano per la fine di quella vacanza.
Questi scazzi, minacce e liti, creavano appena quel minuto di tensione, poi si
scopavano, abbracciavano e tutto tornava come sempre in perfetto perverso
equilibrio, la cugina della bionda, Roberta, stette un intero pomeriggio a fare
collanine, ci avevano dato perline e filo, chi voleva poteva divertirsi, ogni
tanto ci si isolava per queste attività, le guardavo, guardavo come in quel
momento nella concentrazione tornavano bambine, non riuscivo a collegare quelle
valchirie del sesso al filo e alle perline e alla dedizione di questa loro
operazione. Roberta mi guardò e alla fine mi disse, ti ho fatto un regalo, è
per te, con il filo di ferro sottile e tutte le perline infilate mi aveva
sagomato un ciondolo che poi avrei secondo lei potuto appendere al collo, se
non che aveva fatto un cazzo, mi diede un cazzo fatto con le perline e lo fece
con un sorriso da madonna e piena di orgoglio, se ne era fatto uno anche per
lei e ridendo se lo teneva maliziosamente tra i denti, pensai, mi regala ciò
che conosce, non mi passò per la testa di offenderla o rifiutarlo e neppure di
ridere, solo di sorridere e dire grazie, perché per lei era un regalo, non
c’era presa in giro di sorta, aveva regalato cazzi qua e là alle amiche e io
facevo parte del gruppo. Era un regalo. Anzi era di più, la sua amicizia era un
cazzo di perline che mi avrebbe protetta dai cazzi reali che giravano nella
tenda, era un microcosmo dove c’erano quasi le stesse regole non dette che si
creano nelle carceri, ma per fortuna tra quelle ragazze, nessuna era violenta,
nessuna era stronza, o io certo non suscitavo rivalità alcuna, erano delle dispensatrici
di sesso e affetto.
LA
DOCCIA DI NOTTE
Notte.
Irrompono tutti i ragazzi nella tenda, urlando come pazzi si insaponano nudi
davanti a tutte noi, io penso solo che non ho mai visto tanti uccelli insieme,
al massimo io e mio fratello avevamo fatto la doccia nudi nella stessa vasca da
bagno da piccoli ma era un’altra cosa,
e un attimo dopo penso “che palle, anche la notte”, il ragazzo della
bionda, Roberto, alto che quasi toccava il soffitto del dormitorio, se lo
teneva in mano e si insaponava mostrandosi a tutte orgogliosamente, non avevano
alcun pudore, ma in effetti quella sorta di danza urlante che li vedeva tutti
insaponati e con grida di scherno e gioia era così demenziale da non potere
essere neppure volgare, o forse mi stavo abituando, la loro volgarità
cominciava a essere normale, quando avrei fatto ciondoli a forma di cazzo,
allora avrei dovuto cominciare a preoccuparmi, qui si imparavano i nomi dei
fiori e delle piante, si facevano i percorsi di montagna, si osservavano gli
alberi e si imparava a seguire i segnali sugli alberi, per ritrovare i percorsi
sicuri e già battuti e poi si imparava tutto sui cazzi, io ero parte di questa
folle giostra che sperando non degenerasse e del resto loro mi rispettavano. ma
sia chiaro che si mostravano, anche davanti a me, una sorta di show che non
poteva essermi risparmiato, perché faceva sempre parte di una iniziazione,
forse persino una mia iniziazione alla crescita e poi facevo parte di loro, ero
una piccola mascotte, ero pur sempre nel loro gruppo, era paradossalmente
persino un modo per non escludermi, ne fai parte e ti becchi pure questo, le
ragazze ridevano eccitate. Seguiva almeno un sesso pulito e io fingevo di
dormire, fino a quando, qualcuno non mi veniva persino a coprire sussurrandomi
“notte” e se ne uscivano.
LA
SCHEGGIA NELL’OCCHIO
Avevo
dei momenti di malinconia e tristezza infinita, ero sola, potevano anche
regalarmi ciondoli porno, ma ero una bambina e lo sentivo un limite, quasi una
colpa, non facevo parte di questo, loro si divertivano, erano felici, io mi
sentivo scendere in un abisso, volevo piangere ma non sapevo con chi, mi
mancava la casa, la mia stanza, i miei genitori, i miei giochi, e i sogni
giusti per i miei anni, inoltre vivevo in una tensione costante e mi sentivo
spogliata anche da vestita, i loro sguardi mi spogliavano di continuo, era
abbastanza per essere stanchi, ero una preda sulla difensiva di notte e di
giorno e non potevo fidarmi mai del tutto, sapevo che erano loro a stabilire
quanto fossi piccola o grande per fare quel passo che ora si impedivano,
immaginavo che ogni giorno potessero cambiare idea. Era il solito percorso di
montagna creato dai nostri accompagnatori a nessuno gliene fregava un cazzo di
questi percorsi, si camminava perché si doveva camminare. Mi fermo perché sento
un dolore nell’occhio, qualcosa, una scheggia mi è entrata, non riesco a
togliermela e presa dallo sconforto piango, sono spaventata, le ragazze fanno
gruppo e cominciano a spalancarmi l’occhio e a coccolarmi ma non riescono, tutti gli altri sono avanti, chi gestisce il
gruppo non si è accorto di nulla, e io vado lenta perché non vedo una
mazza, mi blocco, fino a quando la
bionda albina, Silvia, urla al suo ragazzo, quello molto alto che la sera prima
aveva fatto la danza nel dormitorio femminile mostrando il suo uccello a tutte,
di correre subito perché doveva aiutarmi e più che una richiesta era un ordine,
mentre a me sussurrava “ci vuole Roberto, lui è bravo in queste cose, vedi che
ti toglie la scheggia dall’occhio che neppure te ne accorgi” Ed è così che
questo esibizionista si inginocchia, si appoggia da qualche parte, mi avvicina
tenendomi tra le sue gambe semi aperte e comincia a trafficare con il mio
occhio, molto delicatamente, sembra che lo faccia di mestiere e io non respiro,
ho sempre la sua immagine di ragazzo nudo che si insapona, che scopa, minaccia,
comanda, aggredisce, le sue mani si muovono con la delicatezza di ali di
farfalle, magari con la stessa leggerezza rubava macchine, intorno a me le
labbra semiaperte di tutte quelle ninfe del sesso sospese nell’attesa della mia
liberazione, Roberto toglie la scheggia con la stessa maestria e metodicità con
la quale un ladro di macchine collega fili per l’accensione del motore, una volta tra le sue dita, me la
mostra: “Cazzo avevi un tronco nell’occhio, ma come cazzo hai fatto?” mi da una
sorta di buffetto affettuoso , “tutto bene, muoviti, siamo rimasti ultimi”, la
sua ragazza è talmente orgogliosa di lui che certamente gli darà doppia razione
di passera. In questo ghetto, in questi ragazzi estremi persino nella
volgarità, forse in questi futuri ladri o assassini, non lo so, non lo so cosa
sarebbero stati, diventati, avevano dai 13 anni in su e sembravano uomini di
quaranta anni, avevano cicatrici profonde, avevano avuto urti con la vita
continui, erano disposti a sbranare e a sopravvivere, eppure c’era amore, una
sorta d’amore, che era come gli sfuggisse ogni tanto dalle mani, quasi a loro
insaputa, e c’era anche un codice e una lealtà, e di due potenziali stupratori
mi stavo già innamorando, ma come si innamora un’adolescente che non sa niente
e si inventa le persone e persino le coscienze. Non mi avrebbero fatto nulla di
male, uno non può toglierti una scheggia dall’occhio con tanta delicatezza, e
sotto il giudizio di tutte le ragazze, facevo parte del gruppo, ero del branco,
a rimorchio magari, ma lo ero, e che lo volessi o no, non toccava a me
deciderlo, era un dato di fatto, come la pioggia, il sole, i licheni e una
scheggia nell’occhio.
LA
PISCINA
Un
giorno ci portarono in piscina, era per tutti un piacevole diversivo, io e mio
fratello eravamo per la prima volta in un elemento a noi più naturale, l’acqua
e il cloro, scivoli, chiasso, bar attaccato alla vasca, vasca tonda immensa,
scivoli che potevano superare il limite consentito di velocità per
un’automobile, l’abisso e l’adrenalina scivolando sul tuo culo, senza marce,
né freni. Eppure mai mi ero sentita
così sola, perché in quell’ampio spazio tutti fuggivano da qualche parte e io e
mio fratello restavamo soli, isolati, mi ero fissata a guardare Remo, un
ragazzo che mi piaceva, 14 anni, che era come dire, un uomo fatto. Stava lì
annoiato a misurarsi muto con un flipper, era uno dei più schivi, anche lui
notoriamente non un buon carattere, impulsivo, aggressivo e distante chilometri
di chilometri dal presente, sembrava vivesse in suo spazio-tempo e che in
quella vacanza ci avesse portato solo i suoi occhi, come valigie appoggiate,
prima di passare a portarsi via anche quelli, altrove. Guardavo lui e il suo
flipper e bighellonavo anch’io mortalmente annoiata in quel costume rosso da
nuoto intero, cosi asessuato e diverso dai bikini delle ragazze, che
esplodevano e scendevano e sempre si intravedevano seni, il mio costume da
bambina con una striscia blu laterale, mezzo consumato dal cloro, che neppure
stava troppo aderente e mi faceva vergognare di non essere cresciuta, di non
potere partecipare a questo flusso ormonale che si mescolava con il cloro, i
miei ormoni erano solo guardoni a riposo. Poi mi buttavo in acqua e attraversavo
tutta la piscina, perché ero un pesce allenato, spronato, obbligato a sapere
nuotare bene, ma il massimo che mi potevo trascinare addosso era “però sa
nuotare la bambina” . C’era una bambina di undici anni che era più piccola di
età di me, ma aveva seni formati, seni grandi per i suoi anni, ed era donna,
lei aveva già baciato, lei era fidanzata lì , Francesca. Francesca era
fidanzata con Mickey Mouse, un ragazzo non molto alto e neppure bello, una
sorta di scugnizzo con in mano sempre un coltellino e un pezzo di legno da
lavorare, alibi per portarsi addosso sempre e comunque un coltellino, un
ragazzo con l’argento vivo addosso che parlava sempre, che mai si faceva i
fatti suoi, e che non sembrava avere mai un pensiero triste che gli oscurasse
il viso, meglio sembrava non avere mai un pensiero. Francesca aveva capelli
neri, occhi blu, un bel fisico da donna che così presto era la sua condanna, ma
per me una fortuna dalla quale era stata baciata, perché lei era guardata in
quel modo, si sprecavano i commenti su di lei. Se Francesca sembrava uscita da
una favola come una principessa bella e dal triste destino, sulla scelta di
Mickey Mouse come Principe Azzurro, l’autore doveva essersi fatto una canna di
troppo. Erano dissonanti, l’amore spesso lo è. Francesca si era spezzata un
dente scendendo a tutta velocità da uno scivolo e piangeva spaventata,
disperata, c’era una tale immensa angoscia dentro di lei, uno dei denti
davanti, spaccato di netto a metà, senza contare la botta. Il dente ora
tagliava come una ghigliottina, lei piangeva perché si sentiva rovinata, e
piangeva perché lì si era fidanzata e ora? Ora sarebbe dovuta tornare a casa.
Tutte le fortune a chi non le capiva.
Addio Mickey Mouse, addio palpeggiamenti, e addio mezzo dente pure. La
bellissima Francesca, l’erotica e sensuale bambina a sua insaputa, sembrava
fosse decisa a fare fuoriuscire tutta la piscina dai suoi occhi in pianti e
singhiozzi, anche in quel caso il branco, tutto, aveva dato prova di
solidarietà e protezione, avevano infatti smesso ogni attività concentrandosi
sul consolare Francesca, quei simpatici ragazzi che qualcuno avrebbe definito
dalle personalità borderline, mostrarono, tra l’altro, una grande dose di psicologia, consolando
anzitutto Francesca dal lato narcisistico estetico, dicendole che era
bellissima anche con il dente spezzato, anzi, più bella, le diedero pure un
nome incentrato su quel dente, come se non fosse stato un dramma, ma una sorta
di cicatrice che le faceva onore, anzi le dava importanza, le dicevano che era più
sexi e la coccolavano in ogni modo, Francesca avrebbe dovuto decidere se stare
lì con il suo sexi dente spezzato, o tornarsene a casa, curarlo e farsi vedere,
perché tanto per cambiare noi eravamo distanti da qualsiasi posto civilizzato,
e trovare un dentista nelle vicinanze o un ospedale non era una cosa che si
potesse fare nell’immediato, a parte il dente spezzato sembrava non avesse
subito altri traumi, e i suoi occhioni blu invasi da lacrime riuscirono a fare
nascere un debole sorriso che fece entrare un po’ di sole in quella triste
giornata per tutti. Un arcobaleno nella pioggia.
LA
CUCCIA
L’ennesima polverosa escursione
in montagna in fila scoordinata, piedi
che trascinavano corpi, il sole che accarezzava le ossa, indossavo pantaloncini
e una maglietta bianca a maniche corte, mi si avvicina Remo e fa pochi passi
con me, poi mi ferma e guarda il disegno della mia maglietta, avevo disegnato
proprio sul seno sinistro una cuccia, con un cagnolino che fuoriusciva, sotto
il disegno era scritto “la cuccia” Remo sottolineò la parola con le dita della
sua mano mentre la leggeva, era la prima volta che uno di loro osasse
sfiorarmi, toccarmi così esplicitamente, era la prima volta che venivo toccata
con una ridicola scusa da un ragazzo più grande, e lo guardavo stupita, un po’
spaventata, interdetta più che altro e mi ero bloccata, lui mi aveva fissata
con aria smaliziata e poi aveva portato i suoi piedi avanti, ma sembrava
facesse fatica a staccarmi gli occhi dagli occhi e indugiasse in una sorta di
attenzione e promessa, il suo sguardo mi lasciò uno strascico addosso, come le
spine delle more possono trattenere un lembo di cotone a qualcuno che passa
vicino a un rovo, trascinato il suo corpo altrove, lasciandomi la pressione
delle sue dita sul seno, voleva toccare il mio seno appena accennato, e farmi
notare, fare notare a me, che stavo crescendo e che lui lo aveva notato, la mia crescita, penso di averla percepita
in quel momento, prima ero solo una portatrice sana di capezzoli maschili, o
meglio di capezzoli unisex, capezzoli in generale, ora erano capezzoli
femminili, come se la crescita non esistesse di per se fino a quando nessuno l’
avesse notata, come Willy il Coyote che precipita nel vuoto solo quando dopo
avere camminato nell’aria guarda di sotto, quindi avevo guardato di sotto e
avevo notato le miei piccole tette, precipitando. Mi vergognai della maglietta
da bambina, ma fui grata al cane disegnato e alla parola “cuccia” proprio
a circondare il capezzolo, per avergli
fornito la scusa.
BOY SCOUTS
E il branco
grida e il branco va, scarpe, scarpe, mi osservo le scarpe, e le piante, i
sassi, la strada mangiata dai piedi,
percorsa, pensata, mi pare di camminare con i miei pensieri e i piedi sono un
automatismo, e gli occhi mangiano spazi, che sembrano strappare con i denti, i
denti masticano paesaggi e poi vomito, vomito i minuti percepiti di tempo
recente e li lascio come coriandoli di un carnevale triste, testimoni colorati
di un carosello in bianco e nero, o molliche di pane lasciate da un pollicino
stanco, trovatemi uccelli vi prego e portatemi in volo via insieme al pane e
alla fame. Improvvisamente sento gridare, sono quelli del branco, del mio
branco, sono agili come scimmie nei boschi, ma sono predatori che hanno fiutato
qualcosa, e si passano un tam-tam veloce in preda a un’adrenalina, a un’euforia
che mi sveglia dal mio torpore e cerco con lo sguardo cosa tra gli alberi o nel
sentiero può avere attratto la loro attenzione. Sono Boy Scouts, ignari Boy
Scouts in divise che si muovono in ordine perfetto, non come noi cani sciolti,
sono tutti uguali, ordinati, lisciati e autodisciplinati e questo basta per
mandare il branco in preda alla follia, è come sventolare un fazzoletto rosso
sotto gli occhi di un toro. Quei fazzoletti al collo, felicemente annodati,
bandierine, calzoncini, calzettoni, Lupetti o Marmotte o come cavolo si
chiamano, sono per loro un richiamo forte, sono come squali che annusano il
sangue, come lupi su un branco di pecore, come volpi in un pollaio, sono una
tentazione, sono una provocazione, sono:
Boy Scouts
“Hei, hei ci sono quegli sfigati
dei Boy Scouts, dai che ci divertiamo”
“Che cazzo fate Lupetti
accendete il fuoco? Ma che carini! Sfigati, siete degli sfigati! Chi vi credete
eh?”
“Ma guarda come cazzo sono
vestiti!”
Questi Boy Scouts intimoriti
tiravano dritti senza cogliere le provocazioni, a testa bassa, chi solo osava
rispondere gentilmente, era letteralmente inondato di insulti, non aspettavano
altro del resto, se li mangiavano con lo sguardo, non sapevo che era guerra
dichiarata tra questi gruppi, il mio branco li odiava per ciò che
rappresentavano, per l’ordine, per la disciplina, odiavano loro e chi li
coordinava, rappresentavano un sistema e loro erano l’opposto del sistema, loro
erano sovversivi a tutti i livelli, le loro gerarchie erano state stabilite
probabilmente dal più forte come avviene tra gli animali e questi invece erano
tutti democraticamente uguali, si rispettavano apparentemente, ma il gruppo non
se la beveva, li annusava, li percepiva e li trovava “finti”, forse “falsi”,
poi erano certamente in qualche associazione cattolica e credo fosse una
componente non amata dal gruppo, io
facevo parte dei selvaggi, non urlavo niente contro di loro, non era una
mia lotta, non era il mio odio, sapevo che il loro era uno sfogo, un
divertimento e non sarebbe accaduto niente, non sarebbe accaduto niente anche
perché nell’altro gruppo nessuno osava sfidarli, e siccome nel mio branco erano
animali, nel linguaggio degli animali i Boy Scouts si erano sottomessi, erano
il cane che si accuccia di fronte al cane più grosso, per questo si lasciavano
insultare senza rispondere, fino a quando le voci dei nostri “Tutor” in
lontananza si fecero sentire, “Basta prendervela con i Boy Scouts, lasciateli
stare, sempre la stessa storia! Dateci un taglio, avanti! Mica possiamo fare
una guerra tutte le volte che li incontriamo, muovetevi tutti! Che palle!”
Un ultimo colpo di coda del tipo
“Ci ribecchiamo presto sfigati!” e si riprendeva l’escursione nei boschi, tutti
più soddisfatti perché finalmente sembrava che avessimo camminato per qualcosa,
l’escursione aveva un senso, insultare i Boy Scouts, non provavo nulla, non
avrei offeso i Boy Scouts, ma anch’io li trovavo ridicoli, la mia educazione
non mi avrebbe permesso di urlargli nulla, ma uno strano, perverso orgoglio, si
faceva strada dentro me, appartenevo al gruppo più forte. Il più maleducato, ma
il più forte, abbaiavano molto ma avrebbero morso? Questo non importava poiché
raramente se il tuo ringhiare è convincente qualcuno ti spingerà a mordere.
Ero un cucciolo che imparava, mi
avevano mostrato “la caccia”
UNA NOTTE FUORI
Ci avevano promesso
un’escursione notturna, avremmo fatto l’esperienza di montarci le tende da soli
e dormire fuori, nelle nostre tende, tutti erano entusiasti, io lo ero come si
può esserlo dell’Apocalisse, se già era un bordello ogni notte con gli alloggi
stabili, figuriamoci con canadesi piccole sparse in una zona in mezzo al nulla,
con questi compagni di viaggio, già me li vedevo, ognuno entrare nella tenda
dell’altro, un Sabba in piena regola
con ululati e quant’altro, corse di corpi nudi nella notte, notte insonne per
la paura e soprattutto dovere difendermi senza potere prendere sonno. Avevo l’entusiasmo di chi si appresta a
colloquiare con un boia della sua esecuzione, mentre mi trovavo immersa nella
gioia del Carnevale di Rio.
Io e mio fratello tentiamo di
montare la tenda, mai abbiamo montato una tenda, chiaramente ci aiutano,
qualcuno che passa e la raddrizza per pietà, toglie un picchetto, lo rimette,
sistema, un rumore cadenzato di martelli su picchetti, risate, scherzi, giochi,
promesse, pisciate all’aperto. Poi arriva la notte e in coppie o al massimo in
due o tre per canadese siamo tutti lì come piante infestanti di uno spiazzo
deserto circondato da alberi, silenzio, profondo silenzio, quando si
scateneranno questi animali, perché so che lo faranno, e soprattutto se devo
fare la pipì dove vado senza che mi vedano o mi seguano e mi facciano qualche
scherzo. Ma cerco di addormentarmi, versi, ombre, risate sommesse, passi, zip
di tende che si aprono e chiudono nella notte,
zip delle fesse dei pantaloni, insomma un concerto di zip che faceva
concorrenza a un concerto di cicale, chi striscia carponi da una parte
all’altra, è un traffico notturno di gente a quattro zampe, eppure cado nel
sonno. Mentre tutti questi indiani fanno sesso. Mi sveglio perché sento urlare,
imprecare, urlare di nuovo, imprecare. Mi metto in allerta, sto accucciata con
gli occhi ipnotizzati alla zip della tenda, quando un ombra si staglia sulla
canadese, è un solo attimo, la zip si apre e una faccia dipinta di bianco
urlando mi illumina il viso con una torcia in mano, io faccio un salto indietro
e urlo e poi lo insulto e lo spingo via, è Claudio, ha passato la notte a truccarsi
e preparare questa bravata, è andato di tenda in tenda, è il più grande, ha 18
anni, ed è sempre con i nostri Tutor, si occupa anche dei bisogni di tutti
quanti, scende nei paesi vicini per comprare a tutti oggetti che possono
servire, dagli assorbenti, che non servono certo a me, alle lamette per
radersi, neppure, insomma fa commissioni, dovrebbe essere tra i più
equilibrati, eccolo qua, davanti a me e io lo odio. Mi tiene la pila puntata
addosso, “Dormivi?” La trovo una domanda di merda, ho il broncio e lui ride,
sempre puntandomi la luce addosso, ma i suoi occhi ora si fanno seri “Quanto
vorrei che tu fossi maggiorenne, mi prometti che tornerai quando sarai
cresciuta?” Resto lì a guardarlo diffidente e l’unica cosa che ho di grande
sono gli occhi spalancati nella luce della torcia, “non volevo spaventarti,
volevo farti ridere” “Infatti sto ridendo un casino, non si vede?” “Va bene,
notte” Chiude la zip e se ne va, il mattino dopo racconto a mio fratello quello
che è accaduto ma lui non si è reso conto di nulla, ci raccontiamo tutto, ma siamo sempre divisi, come carcerati in
sezioni diverse che si parlano nelle ore d’aria concesse.
IL FIUME – quando l’allieva supera i maestri
Si camminava perché questo si
faceva sempre durante il giorno, ci dovevano impegnare in qualcosa, altrimenti
sarebbero state 24 di sesso e disordini tutti i giorni, non ricordo dove
eravamo, quale tappa fosse e non faccio differenza al ricordo tra Madonna
dell’Acero o Sega Vecchia, non ricordo quale posto preferissi, in quale campeggio
mi trovassi meglio, eravamo tanto sempre noi, potevano cambiarci anche le
brande di sotto il culo ma rimanevano le stesse regole, le stesse gerarchie, le
stesse escursioni di montagna e le stesse montagne. Stavamo attraversando un
fiume, ognuno pensava a non finirci dentro con tutte le scarpe e ci si muoveva
precari su sassi disposti a sentiero, si allungava una mano a volte, ci si
attendeva, ma in quel momento un ragazzo giunto da poco nel gruppo, c’erano
anche quelli che si aggregavano nella vacanza in corso, qualcuno tornava,
qualcuno veniva, aveva minacciato mio fratello, e io avevo come sentito la coda
di quella minaccia, ma sapevo che una minaccia buttata da uno di questi non era
a vuoto, non era da prendersi come cosa detta per dire, forse mio fratello gli
aveva risposto a tono, e stavano ennesimamente stabilendo una gerarchia di
potere e relativa sottomissione, sembrava avercela con mio fratello ma non con
me, la sua faccia era in contrasto con la sua minaccia, aveva una faccia da
ingegnere, ogni serial killer peggiore ha la faccia da ingegnere, gli aveva
lasciato lì questa minaccia, come a dire poi io e te faremo i conti, era questo
il senso della cosa e poi mi aveva allungato una mano per aiutarmi ad
attraversare il fiume, ma gelida gli avevo risposto “non voglio una mano da te”
poi quando mi era di spalle e mi camminava davanti, lo avevo richiamato, lui si
era appena girato e tutto nei miei ricordi è come rimasto “sospeso”, perché
quelle parole uscite da me sembravano non avere il mio controllo, sembravano
essere uscite lapidarie senza che io le avessi pronunciate:
“Se fai qualcosa a mio fratello
io ti ammazzo” ,
siamo rimasti a guardarci con
l’acqua che scorreva in mezzo tra di noi, una bambina di dodici anni che
improvvisamente non aveva dodici anni nello sguardo, lo capivo dai suoi occhi e
dal suo stupore che ci doveva essere qualcosa di trasfigurato in me, qualcosa
che faceva sì che non mi riconoscesse, non parlavo mai, non li sfidavo mai e di
sicuro in tutta la mia vita non avevo mai minacciato qualcuno di morte, ma la
cosa che sospese questo scambio di parole in una sorta di fermo immagine
temporale, fu certamente la coscienza di entrambi della “verità” di ciò che
stavo dicendo, perché in realtà non lo avevo detto come minaccia, ma come
qualcosa che avrei fatto, non lo volevo spaventare glielo volevo solo
comunicare, e dentro di me lo sentivo, era tale la mia disperazione ma in gara
con una rabbia ancora più grande, repressa, una stanchezza enorme che aveva
alimentato l’odio giusto e freddo per dire, io ti ammazzerò se mi costringerai,
ti ammazzerò,
io
vergine,
di dodici anni,
io
ti ammazzerò.
La verità non si bleffa e lui lo
sentiva, avvertiva l’assenza di paura, la sfida, e qualcosa che al momento era
persino fuori da me stessa e dal mio corpo, e l’acqua, io ero come l’acqua,
inesorabile.
Fu un momento di silenzio in cui
il cacciatore rimane bloccato su quella che ha sempre pensato una preda e solo
una preda, ma fu anche un momento in cui un prepotente riconobbe “la forza” ,
la “sfida” elementi che in tutto il branco stimavano, enormemente, come
“comandi” impartiti ad animali addestrati all’attacco, di fronte ai quali si
bloccavano in automatico.
E io, io? Ero cambiata, lo
avevano toccato quel filo sottile che non dovevano, si erano spinti troppo
oltre, adesso dovevano guardarmi e dovevano giudicarmi daccapo e di nuovo. Ma
io stessa, chi ero ora? Quante volte ancora sarebbe uscita quella parte di me,
assassina, quante volte ancora nella vita, quella parte di me se ne sarebbe uscita
da sola, quasi senza preavviso, istintiva a sbranare, il branco mi aveva appena
insegnato il mio limite, tutti abbiamo un limite oltre il quale non permettiamo
si vada, tutte le loro gerarchie di potere l’uno sull’altro si basavano su quel
“limite” oltre il quale ogni essere umano non avrebbe permesso un’invasione di
campo, è importante a qualsiasi età scoprire di averlo e guai se non ci fosse.
Il ragazzo ritrasse la mano mi
diede le spalle e io attraversai il fiume da sola, ma non ero tranquilla per mio
fratello, fino a quando vedo il ragazzo aspettarmi, e mentre ancora si bilancia
sui sassi sussurrarmi:
- “Comunque stai tranquilla, non
lo tocco tuo fratello”
Ce l’avevo fatta.
Ero il branco.
BIGLIETTINI
Forse perché si avvicinava la
fine della vacanza, e la malinconia di casa si faceva persino più acuta, e io
potenziale assassina piangevo in braccio a una ragazza che mi portava di lato i
capelli, dietro all’orecchio e cercava di dirmi che presto avrei rivisto i miei
genitori, che c’era un giorno che era prestabilito, in cui potessero venirci a
trovare, ma io non credevo che avrei rivisto i miei genitori, pensavo quel
posto irraggiungibile. Gli organizzatori, i nostri Tutor sessantottini degli
anni 80, animatori che avevano
sbagliato portale, avevano organizzato uno di quei giochi che avrebbero dovuto farci solidarizzare,
avvicinare, rallegrare, carburare, corroborare, e ce lo stavano spiegando con
grande entusiasmo affatto ricambiato.
“Dunque, il gioco è questo ci
sediamo tutti in circolo, ognuno di voi avrà un numero attaccato sulla maglia,
ben visibile, al muro sono state create tante buste aperte, a ogni busta
corrisponderà uno dei vostri numeri,
una sorta di casella postale, e avrete tutti a disposizione fogliettini
e pennarelli o penne per scrivere, ora in cosa consiste il gioco? Nel potervi
scrivere in maniera anonima tutto ciò che desiderate, senza che chi riceve il
biglietto conosca il vostro nome ma solo il vostro pensiero, potete scrivere
cose che mai avreste espresso a quella persona”…
“I biglietti li consegnerete
tutti a uno di noi e noi penseremo a infilarli nella buchetta del numero al
quale li avete indirizzati, quindi scrivete chiaramente i numeri, chiudete il
biglietto in due parti, dopo un tempo prestabilito, uno stop dichiarerà il
tempo finito e ognuno andrà a ritirare la propria posta”
Era il WhatsApp degli anni 80.
Non so se l’animatrice frizzante si
rendesse conto degli scaricatori a cui stesse sottoponendo l’idea, che già
sorridevano e sghignazzavano come pazzi,
per me era il classico gioco che poteva terminare in strage, ma in
realtà ero così avvilita, perché sapevo che sarebbe stato umiliante per me,
perché non avevo amici, erano tutti troppo grandi per condividere qualcosa con
me, e mi sarei vergognata ad andare a vedere nella mia casella che di certo
sarebbe stata vuota. Loro non vedevano l’ora di scriversi con le ragazze più
grandi, erano corteggiamenti che non mi riguardavano, avevo una vergogna troppo
grande da gestirmi:
ero solo una bambina
In un angolo con una faccia che
preannunciava lacrime, come le nubi che preparano la pioggia , quello era
l’ennesimo gioco che non volevo fare, l’ennesima cosa che non mi divertiva,
l’ennesimo atto che non veniva da me, l’ennesima violenza, tutta quella vacanza
era stato solo un fare quello che non volevo fare, un eseguire compiti, un
sottostare, mai avevo scelto, solo obbedito, come in quel momento che avevo un
pennarello e guardavo i numeri attaccati sulle maglie di tutti e mi impegnavo a
scrivere saluti, tenerezze, cose carine e inutili, carine e inutili, a
sconosciuti, sanguinavo, io il numero 17 sanguinavo. E nessuno lo vedeva e
nessuno lo sentiva.
NUMERO 17
Il gioco era terminato, tutti
correvano alle loro buchette.
Risate come cascate, e quel
guardarsi negli occhi per riconoscersi tra numeri, “chi mi ha scritto questo,
chi è il 13? Perché vi siete tolti i numeri, bastardi, tu chi eri?”
Un animatore venne da me:
-
Ehi non vai a ritirare i tuoi bigliettini?
-
No, non mi va, non
credo ce ne siano poi
-
Beh io proprio non direi, fossi in te andrei a prenderli.
Lo avevo guardata stupita, poi
ero andata, sembrava una busta senza fine, li tenevo a fatica tutti in mano,
avevano tutti i colori dei pennarelli e il numero 17 era scritto ovunque, c’era
persino chi lo aveva reso graficamente speciale, era tutto un “X il numero 17”,
ero andata a sedermi con appena una punta di sorriso e mi ero messa questa
massa di fogliettini tra le gambe, nessuna volgarità, sembrava che quei
farabutti avessero fatto appello a
tutta la loro tenerezza e a quel poco di educazione, erano pensieri di amore e
di amicizia, di confessioni e tenerezze, di rammarico per la mia tristezza, e
poi c’erano quelli che si erano spinti alle parole : “affascinante e sexi” ,
affascinante e sexi forse me lo aveva scritto il Serial Killer, Claudio aveva
scritto “Per la più bella ragazzina del 3° turno”, un disadattato giunto da
poco che non avrebbe parlato mai, guardato a vista dal branco stesso perché
nessuno sapeva quel che da lì a poco gli avrebbe detto il cervello, scriveva:
“Mi sei simpatica”. Mi avevano stupita, colpita e affondata, non me lo
aspettavo, tutti avevano avuto un pensiero, forse, tutti avevano pensato,
temuto, che nessuno di loro mi avrebbe
scritto e quindi paradossalmente tutti lo avevano fatto, oppure non era
strategia, forse davvero volevano scrivermi, ma comunque, qualunque fosse il
motivo io avevo quasi più fogliettini di tutti, quei fogliettini dovevano
essermi cari perché tornata a casa da una vacanza di merda, ho trovato sempre
un posto talmente sicuro dove tenerli che oggi da donna adulta, in parte ne ho
ritrovati, non tutti, ma sono arrivati fino a me oggi, e le loro facce oggi
sfuocate e i loro nomi di cui non seppi mai più nulla, sono ancora così
presenti dentro di me, quel branco mi aveva insegnato chi ero, molto prima che
una donna, quale sono ora, potesse dirmelo con tutta l’esperienza di una vita.
Io non lo so se qualcuno l’hanno arrestato, se qualcuno è morto, se qualcuno ha
avuto successo nella vita o se qualcuno si è fatto prete, infermiere,
missionario, se qualcuno è diventato un
assassino o un magistrato, o se banalmente ha messo su famiglia e manda i
propri figli a un campeggio magari di Boy Scouts, non lo so, ma in quel branco
c’era nella violenza dei loro stessi sentimenti anche verità, lealtà e
amicizia. E forse lì ho imparato in qualche modo a non avere paura, e mi sono
trovata poi altre volte come su quel
fiume, che aveva diviso cosi nettamente con la sua trasparenza e
continuità, la minaccia dalla difesa e poi la difesa che si fa minaccia, come
fosse l’acqua stessa a cambiare l’origine delle cose e a trasformarle in quella
continuità che è lo stesso essere umano, che non è mai solo male o solo bene,
ma l’equilibrio raro di questo insieme, l’acqua divideva e univa, mescolava,
trascinava e portava oltre, ma fino a quando non ho ripercorso tutto questo non
ho potuto dare loro alcun merito.
Avevo indossato pantaloncini
cortissimi bianchi divisi da una sottile riga rossa in tanti quadrettini, una
canotta bianca ed ero più sicura di me, mi fidavo di loro, e mi spogliavo di
più, e partirono fischi e apprezzamenti
Fischi e apprezzamenti
Tutti attendevano la mia
crescita e nessuno di loro mi avrebbe toccata, l’estate era finita.
-
Vi siete divertiti? Com’è andata al campeggio?
-
Normale
-
Alessandro si è divertito?
-
Non tanto, non so, era sempre un po’ triste.
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