sabato 29 gennaio 2011

Ci sono donne...

Giugno 2007

Alla soglia dei 36 anni. Palpebre rosa attaccate all’asfalto lasciano bava di lumaca, analogo pensiero. Valentina, ti vedo. Collo lungo, labbra in bianco e nero, sesso depilato come quello di bambina, macchina fotografica tra i seni, sulla tua testa il fumetto “devo pagare il mutuo.” E muore ogni fantasia.
….senza soffitto, senza cucina, non si poteva entrarci dentro perché non c’era il pavimento… ma era bella, bella davvero in via dei Matti al numero zero.
Valentina, gli anni li hai divisi in strisce, i pensieri in tavole, sulla tavola appoggi il tuo caschetto nero e una punta ti entra nelle labbra. Qualcuno muore a guardarla, come il disegnatore stesso, ingerisce l’immagine, non sente il sapore ma sente che ingrassa. Ci sono donne fumetto, seducono e non l’hanno scelto, lo sanno, ci stanno. Ci sono donne segretarie, nate per questo, ci sono donne che covano risentimento verso un passo più leggero, verso uno spostamento d’aria improvviso che non hanno previsto, ne’ segnato su taccuino. Ci sono donne che tutt’attorno hanno pareti di vetro e ci stanno con le mani appiccicate e le labbra incollate e guardano le altre muoversi come pesci, guardano le altre danzare, guardano le altre combattere e detestano le loro lunghe code che si gonfiano nell’acqua, in quel movimento ampio come una lingua nella lingua di un altro. Guardano i loro occhi e ci precipitano senza trovare appigli e vengono risputate a distanze eterne. Ci sono donne che spiano, ci sono donne che vivono, ci sono donne che detestano quelle che spiano, ci sono donne che si detestano e detestano. Ci sono donne che cancellerei. Altre le immortalerei, alcune si muovono al rallentatore, alcune sono quadri, alcune sono sangue, alcune sono piante, alcune sono sempre altre. Alcune non lo sanno, alcune si dimenticano, alcune non si amano, alcune si amano troppo, alcune chissà chi si credono, alcune hanno preso a correre, gli entra la rabbia tra i denti, petali, terra e mare nelle narici, sale sulla pelle, labbra spaccate, sapore di ferro sulla lingua, dita prigioniere delle dita, gambe d’insetto sull’acqua, ciglia come ricci pescati, aculei lucenti. Alcune sono aragoste e le hanno esposte con le chele legate, e hanno occhi smarriti così lontani dalla testa. Così lontani dalla testa a scandagliare assassini, a rimpiangere il mare. Acqua bollente e urlo agghiacciante. Antenne cadute. Più nessun fondale.


Valentina, pelo rasato per eccitare, stanca come fumetto stanco, Valentina in cerca di un sapore. Ho poggiato un piede smaltato di nero nell’acqua, ho creduto a un’apnea che era una mostra, ho leccato ogni quadro che era limone, ho abbracciato ogni errore, ogni singolo errore. Ho abbracciato dolore. Ho immaginato la mancanza. Ho immaginato la mancanza. Ho selezionato conchiglie e legno marcio, la fine del viaggio di un granchio e intanto il tempo è passato. Mi sdraio sulla spiaggia che puzza di mare, di molluschi a marcire e comincio a capire, i pori assetati come spugne di mare, non ho più domande, più domande.

domenica 23 gennaio 2011

Ottobre 2007

Distacco




Ottobre 2007

Ho detto t’amo a uno spettro non poteva provare lo stesso sentimento, ho detto t’amo ad un uomo che ama a gettone, ed ora è semplicemente finito il tempo concesso, ho detto t’amo a un genio privo di umiltà, per questo mi è parso di passare con un dito attraverso le sue lacrime senza più trovarlo, le mie erano salate, sospese come granelli di sabbia e mi aravano le guance, le mie lacrime erano prese all’amo e si contorcevano senza convenienza alcuna, senza alcuna strategia, e senza alcuna ipocrisia, non c’è ipocrisia quando con la bocca spalancata, si agonizza cercando aria che non arriva, le mie lacrime percorrevano sentieri noti, come la strada di casa, con le chiavi in mano anzitempo per aprire la porta, e finire sopra le mie labbra a spazzarsi i piedi da ricordi recenti e sciolti, una base d’acqua calda, naufragava in quello spazio, come solo l’insenatura di scoglio accoglie l’acqua di mare, di proposito. Ho fatto amicizia col serpente e l’avvoltoio, l’ho fatto per placare piano un dolore intollerabile, per la giusta dose di veleno, utilizzata per difesa e per concessione liberarmi della zavorra dei nostri cuori dimenticati a marcire altrove. L’avvoltoio e il serpente ora mi stanno fieri al fianco e io con loro, avanziamo, mentre alle nostre spalle monta un mare rosso e dal profondo piroettano bolle in superficie. Ho scritto parole, le ho sotto la corteccia cerebrale, le estraggo come pallottole, non so usarle, come quando si nasce e ci si trova le dita e non si sa ancora che farne, così provo se le mie parole magari sono buone col pane. Al momento giusto ho tirato fuori un amante come da un mazzo di carte, era il mio arrivederci con le labbra dipinte, era il vento e la gioia e le mani alla faccia. Non basta. Non cambia. E soprattutto non resta. E neppure se ne va. Ho portato la mia educazione e cortesia alla porta, scusandomi del disordine che ho dentro e che male mi gestisco ma di cui evidentemente non riesco a fare a meno e non se ne sono accorte di essere state congedate, perché a volte sono inavvertitamente educata e cortese, mentre arroto coltelli sulle mie difese. Ho un rapporto stretto con Tolstoj, soltanto. Ho la neve che mi scende dalla gola al seno, poi sulle labbra, poi nei denti e ora che la bevo credo di vedere tutto chiaro. E’ un’illusione data dal freddo del ghiaccio. Questo silenzio che mi accarezza le guance e mi racconta favole, mi bacia i capelli, ho la sua mano sul mio collo, mi sospinge con il palmo aperto sulle mie scapole quando salgo le scale, si addormenta al mio fianco e mastica piano i miei ricordi, le tue attenzioni che c’erano, i tuoi progetti che non iniziano mai e le tue scuse senza fine e mi reprime, mentre mi mordo le ginocchia nel tentativo di esistere ancora. Mi addormento con l’avvoltoio e il serpente e trovo le giuste distanze, tengo sul seno ciclamini come frecce, da scoccare per uccidere il mio istinto, l’avvoltoio lo fa a pezzi, gli sorrido e andiamo avanti, strani nemici, complici a trascinare orme nel deserto, strani amici giudicati forse troppo presto.



sabato 22 gennaio 2011

Tina Modotti




Aprile-2010

Ti ho vista portare per sbaglio la tua identità giocattolo per strada, era di legno e scorreva su ruote, trainata da spago. Guardavi distratta ai lati, eri concentrata solo sul peso dei capelli sulla guancia, dallo schiaffo di vento. Eri conscia delle labbra a svelare appena il bianco dei denti, come suggerimento, in un sorriso beffardo. E il pensiero più immenso era l’ombra proiettata sull’asfalto, scusate non sento nient’altro al momento, è tutto dentro compresso, perfetto, da tanto tempo. E per questo ho avuto bisogno che commenti cadessero piano come foglie d’autunno, come stagioni a cui lascio il canto, e la mia identità fatta di vagoni di legno ha scartato di lato su foglie e parole, su polvere e capelli, su idee e ruote e col suo costante rumore mi ha accompagnata oltre. C’è stato un ammutinamento sulla luna, sirene hanno parlato a lungo di ogni sorta di volgarità, camminando nei porti a osservare i nomi delle navi, ridevano coi capelli colmi di alghe e conchiglie, con tacchi a spillo e guance pallide… e tu… Eri più rossa di una bandiera a Mosca, e tu eri più rossa delle ciliegie rubate per gioco, e tu eri più rossa di una stella marina, dello smalto sulle unghie di una bambina, e tu eri più rossa degli ideali impiccati, eri più rossa della rabbia scavata da spade nelle più cruda battaglia, eri più rossa del primo maggio, eri più rossa della paura, più rossa della bugia e del coraggio, eri più rossa di un vagito, di un parto, di un tramonto su un faro, più rossa della ghigliottina,  eri il rosso cha avanza, eri nient’altro che danza, eri il particolare fondamentale, eri il cibo che si scarta ma si rimane a guardare… E io ho immerso le mani, le ho sollevate, erano colme come fontane, la tua lingua poteva berci per sempre. E io ho affondato le mani nell’acqua rossa colma di pesci, e io ho affondato le mani in un groviglio di ami a cercare lo spirito impazzito, nervoso, stizzito, contrario, ottuso, viscido e ombroso, lo vedevo scavare gallerie di sabbia, scriveva una Bibbia sott’acqua, una Bibbia di rabbia, sfogliata dalle onde, verità venivano a galla come bolle, scambiate dai pesci come bocche rotonde per la fame, come pane, come pane… E tu eri più rossa del corallo, più rossa del frutto di mare, di una freccia  sul petto. Lenti come alghe si muovevano i tuoi capelli e poi l’edera s’è mangiata lo spazio, pirati hanno affondato le chiese, broccati restano sul fondo a gonfiarsi come razze in amore, e tu a guardare l’alta marea, a trascinare il tuo treno di legno e tu sopra ogni idea, come le sopracciglia su uno sguardo fermo, più rossa di quello che resta dopo una battaglia persa.



Le mie parole...

Il vestito bagnato che odora di gomme sull’asfalto dei pensieri che schivano ruote e corrono come insetti impazziti o si bloccano nel decifrare i rumori, nel sentire come un indiano che poggia l’orecchio alla terra, nel sentire la guerra, scandita dal tamburo che scandisce un ritmo fuori luogo nascosto dallo sterno, finestra a sbarre con un vetro rotto, e da lì fuoriescono farfalle. Una è priva di vita sulla strada di casa, ha ali gialle di uova sbattute e zabaione di cui avverto il sapore guardandola, ha disegni così perfetti, che non possono, diresti, appartenere a un corpo  a cui non appartenga anche il volo, poi passi oltre, perché il suo volo mancato fa male, perché mi sento lacerata la schiena dove prima schiudevi parole, sangue, mi cola sangue dalle scapole tese per avere scoccato una freccia per nessuna traiettoria. Il mio vestito verde-marcio riflette il marcio-verde dei miei occhi dove nuotano papere su sentieri inquinati e dalle piume lucenti. Si chiamano, si amano. I miei occhi hanno assorbito il sangue di un cuore gonfiato a stenti che pompa strategie per non finire tra i denti o sminuzzato d’artigli… il mio cuore è un pipistrello che a testa in giù prende coscienza della notte, del cibo, e lo sciame di cazzate che ogni giorno gli si presenta. Il mio cuore danza alla luce di un lampione con le ali nere e sete di sangue ma senza ipocrisia mi lecca acqua e zucchero da sopra le palpebre. Vorrei essere più pratica, e fare uscire parole pratiche e vorrei essere più burocratica e scaltra e  vorrei essere all’occorrenza e vorrei essere l’esigenza e vorrei essere spessa e avere una muta a difendermi dal freddo, invece che questa pelle sottile come pozzanghere a coprirmi le viscere. Vorrei fare la cosa giusta, vorrei spesso bloccare la vista del mio corpo come polpo sbattuto ma delicato al palato, vorrei bastasse il mio inchiostro nero per fuggirvi in un angolo di oceano che non posso raccontare in apnea. Invece, l’ho detto, le mie parole sono latte e le vostre orecchie bocche attaccate alle mie tette, le mie parole sono in mezzo alle mie gambe, esattamente dove ritraggo le mie tele e che si voglia guardarle o sentirle a voi la scelta di nascere o godere. Le mie parole vorrei fossero miele e le mani sulla carta a cercarle, come quelle sulla pancia, e i sospiri condivisi e la mia lingua che le esprime un modo per raggiungervi le labbra, la gola, scavalcare i denti, come muri bianchi e correre stanchi verso altri cancelli, le parole che sento sono morsi che non lasciano segni, sono colore del fango a volte, sono pesci e tartarughe, sono quello che non puoi cambiare, sono annotazioni, sono capelli raccolti, raccolta disperazione, fermenti lattici, gomme all’aspartame perché di qualcosa ci tocca morire. Sono, come dire, l’inevitabile. Sono le lancette di un tempo relativo in un orologio giocattolo, sono gli occhi aperti a forza perché non riesco più a fargli scorrere sopra palpebre come saracinesche rumorose e improvvise quando è finita l’ora delle visite. Le mie parole la chiave dietro la schiena, le mie parole vapore acqueo, le mie parole anelli che segnano l’età di un albero morto, vi scorro sopra le dita. Le mie parole a torto, le mie parole che sono antistaminici, sonniferi, antidepressivi, le mie parole ingoiate, le mie parole succhiate, le mie parole partorite, le mie parole sverginate, le mie parole godute, le mie parole mancate. La firma del mio nome, parole mai scelte, che ripeto in eterno, che mi chiamano da altre bocche, le mie parole che non dico e quelle che sospiro, le mie parole a mangiarsi dentro, quando mi sono cadute le ali, le mie parole a decompormi i pensieri, a setacciarne i pezzi migliori, come avvoltoi che non scaccio ma amo, a cui parlo,  a cui tendo la mano. Le mie parole come acqua e sabbia, le mie parole ad aprirmi la gabbia, le mie parole contraccettive quando sono prudenti abbastanza e quelle abortite e quelle appena nate, quelle che mi portano lavate per vedere dove mi rassomigliano. E quelle che non riconosco, quelle per cui sono perduta, quelle per cui darò la mia stessa vita. Quelle per cui ho ferito, quelle con cui ho tradito, quelle per salvarti, quelle per lavarci, quelle che portavano fianchi, quelle prostituite, quelle in attesa della tua esecuzione, quelle cadute ai piedi in un’opinione, quelle sferrate all’improvviso, quelle uscite senza preavviso. Quelle che ti ho fatto stuprare e quelle di denuncia che ti ho fatto scorrere occhi negli occhi senza nemmeno fiatare. Sono stanca, stremata, ho il fioretto che mi pesa, il mio sesso è scarabocchiato a penna, il mio seno è condito col sale, il mio sguardo frutti di mare che si gonfiano alla corrente, la bassa marea mi fa avvertire granchi che mi circondano  i piedi e lascio che salga per galleggiare su altre idee, mi sospendono, vi poggio la testa, la luce della luna crea un occhio di bue, le quinte rosse sono imbrattate di sangue e gli attori hanno parole di sperma e spermatozoi come girini ingoiati da rane ad applaudire l’idea. Sono stanca di muovermi aspettando la traccia a matita schiacciata, non vedo la tridimensionalità del pensiero, percepisco fumetti nelle bocche sbagliate, in disegni perfetti. Sono stanca della sottile differenza concessa alla mente sana, della pazzia sublimata, sospesa tra una tapparella e il balcone, dove se tiro velocemente posso schiacciarla e guardando il sole fingere che non sia mai esistito niente. Ora termino di scrivere ho le cosce aperte da troppo tempo e devo cambiare posizione, ora termino che le ho masticate troppo, ora termino perché le parole cominciano ad avere un odore e i miei occhi sono lettere a caso.

giovedì 20 gennaio 2011

Giugno 2007








Giugno 2007

Precipitando dalle mie labbra, ti persuadono i denti prima delle parole, che sono spezzate, sono solo veicoli per avere la scusa e creare sentieri con pupille che a piedi nudi possono scorrere, così da entrare nella tua bocca, abbracciare la tua lingua, e raggomitolarmi all’altezza della tua gola, a un passo dalla galleria. A un passo dalle intenzioni, a un passo dal farmi deglutire. Le tue pupille mi dicono di cosa so ora. Ho consapevolezza della pelle bruna e di dove poggiano i capelli, ho pensieri che galleggiano e sono all’improvviso tirati sotto da pesci che se li ingoiano e li risputano. Ho pensieri come molliche di pane, nell’acqua li vedo raggiungere lenti il fondale, essere sminuzzati da branchi argentati, come pasti scostanti di cui lascio cibarsi i miei occhi, eternamente incantati dalla discesa nei mari o dalla mano aperta sull’acqua all’angolo tra il cielo e l’idea di cibare il mondo e la mia fantasia. E sono passati venti minuti di totale assenza su curve di livello anni luce di distanza dalla mia coscienza. Ogni giorno, sandali sul pontile, canottiera azzurra con bretelle a x sulla schiena, trecce bionde spettinate, gambe nude, piccoli lividi bluastri, mani prensili, agili e veloci, sguardi sempre un passo avanti rispetto ai passi. Passi su passi ogni giorno per vedere il cane a macchie sul porto. Legno marcio. Odore di molluschi, marciume eterno profumo. Il cane è morto anni dopo, ha mangiato una testa di pesce con dentro l’amo. Trecce bionde, passo fermo, sandali, piedi piccoli, mani prensili, sguardi sempre un passo avanti rispetto ai passi, canottiera azzurra con bretelle a x sulla schiena, gambe nude, lividi bluastri… Questo è il tempo.  La morte è il tempo. Broncio eterno, di spalle un faro, luce impazzita, senza senso, mare mosso, cuore sospeso ad attendere barche mai partite, mai arrivate, traiettorie rimaste sconosciute, cuore ingrossato, stagioni sulla pelle, tentati ritorni. Ho ingoiato un giorno un amo nella testa di un pesce e lì è finito il mio gioco. Sono uscita di spalle dal tempo, dal tempo col broncio con nuovo silenzio. Ho inglobato il mondo. Gli occhi sono diventati ostriche, la terra e il sole le perle che vi ho chiuso dentro, chi li rivuole indietro mi deve pescare, o aprire o bruciare in acqua bollente o glieli posso vendere al mercato del porto, quello che fanno i bambini, con la licenza di un sogno, e sguardi rivolti a gambe infinite e irraggiungibili per concetti pratici e piccoli, nei pugni l’infinito. Ho fagocitato l’odore del mondo che era porto e gabbiani, ho annotato tutti i pesci distesi come me, vicino agli ami. Ho accarezzato tutti i cani… Ogni giorno ho capito che non è domani. Ho preso lunghe distanze dal tempo, ho fatto tante domande alla morte, mentre nera si avvolgeva a nascondere parti di sole, mentre nera sorrideva, seduceva, come donna tra infinite parole, come gonna a raccogliere polvere e gettare su asfalto colore, come donna che non ascolta, travolge. I bambini non hanno paura. Curiosità a milioni di trucioli, rabbia a punti interrogativi. Spiegami il tempo, quello che un giorno ho visto e il giorno dopo non c’era. Spiegami l’inganno che serve a ogni mio compleanno, spiegami la fretta e la risata e i tuoi denti splendidi nella vita ingoiata, spiegami il pesce che corre all’amo, spiegami il cane che mangia la testa di pesce, spiegami il padrone che muore nel raccontarmelo ma ha pelle dura di pescatore. Spiegami perché mi hai mostrato sto quadro se non c’è stata altra soluzione, dimmi dov’è l’assassina che ho celato e che sento graffiarmi mentre le sue orecchie sono appoggiate sul mio sterno, aspettando esitazioni nel battito cardiaco, dimmi dov’è la parte che ti rassomiglia, sadica per nascita e non per scelta, mentre la tua gonna gitana ha spazzato tutto e io sono finita dove una lumaca di mare ha lasciato stanca il suo guscio. Sono altri venti minuti, la pioggia continua a cadere, la fantasia mi si allarga ai piedi bagnando la strada e un punto è caduto dal cielo, pesci sono guizzati lungo tutto il corpo, erano pensieri fuggiti nell’ora di andare, come uno schiaffo sull’acqua dove c’era la pace.




martedì 18 gennaio 2011

Maria Maddalena e Yeshuà


Maria Maddalena e Yeshua’

Giugno 2010
Maria Maddalena e Yeshua’
Amico, ci hanno rovinato il pranzo di Natale, suggerito un’ultima cena alle intenzioni, quasi come noi fossimo dalla parte di chi brucia le streghe, quasi come noi fossimo dalla parte dei più forti, e il mio assaggiatore di parole è morto al primo boccone, per questo non ho afferrato il senso, capito la loro spiegazione.
Si vede che i miei capelli arancio poggiati sulla veste blu erano già tradimento, si vede che il mio pube bagnato dal mare, le mie gambe bianche che venivano avanti nell’acqua, a fatica, una mano aperta che cerca le tue dita, un sorriso libero verso il tuo sguardo biblico erano già tradimento, si vede che i miei capelli erano troppo arancio, il vento troppo vento, i seni turgidi, i capezzoli dritti, la mia carne bianca, non erano certo immagine da Santa. Ricordo il mio scoppio di risa e il tuo volto sereno, l’ombra delle tue ciglia sul mio viso pieno, si vede che i tuoi capelli neri e i tuoi occhi blu erano tradimento, che i nostri piedi nudi suggerivano animi impuri, che la tua mano aperta ad accogliere la mia era uno schiaffo incauto alla loro ipocrisia, e questo nostro quadro di scandalo alla storia venga posto un giorno al centro soltanto alla memoria di un vero sentimento, sporcato dalla paura che fanno due risate senza colpa alcuna, che fanno due ragazzi senza paradiso, se non quello infinito di un istante condiviso, se non quello di quel bacio posato sul selciato, posato nel boccone, girato sul palato, posato sulla corda per l’impiccagione, poi sulla ghigliottina per non dargli neanche un nome, poi bruciato come eresia e infine crocifisso e ora dimenticato, che nessuno ha mai dipinto il pianto di una Maddalena come quello di un beato, echeggia Maddalena sarà ancora risata, sorride Cristo in croce alla sola donna amata.

Ideali





 vita a progetto.

Digito alberi su foto aeree e non è come toccare le cortecce o sentire odore di resina. Digito popolamenti di alberi da foto aeree e ho una visione aerea del mondo un po’ come la mosca della merda. Cosa direbbe Darwin rispetto all’odierna postura a pecora dell’Hòmo Sapiens rispetto alla scimmia? L’uomo Erectus l’ho visto solo da certi punti di vista e ne ha fatto conoscenza la mia parte bassa. Ho una visione aerea come l’avvoltoio su carogna putrefatta, un po’ tardi chiedere che vengano risparmiate le ossa. Ci sono diritti a marcire, morti pretese e lingue che non possono profferire parole. Ci sono lingue attive a leccare culi fino a renderli lustri e piroettare mostrando l’abilità come in uno spot per la brillantezza di pirofile. Ho una visione aerea come Cristo dalla croce, quando deve avere percepito che tanto era sbagliato quel concetto di peccato quanto quello di perdono. Non sanno quello che fanno. E intanto lo fanno e pertanto lo fanno e mentre lo fanno pensano a quando lo rifaranno. Sembra dall’alto, una sorta di guerra fredda, un qualcosa che esploderà sotterraneo in rivolta, giusta o sbagliata che sia, ma non accade nulla. Dall’alto, un divagare con atroce fantasia, nella pazzia, nella follia… Ci uccidiamo tutti. Partiamo dalla famiglia. Figli uccidono. Madri uccidono. Padri uccidono. Fidanzati uccidono. E il resto zombi che borbottano, deliberano, zombi necrofili che se la raccontano. Zombi a timbrare cartellini. Zombi che si preparano alla rivolta ma per strada si perdono le membra insieme alle idee che avevano e si rallenta. Cadono corde vocali a roteare come tubi impazziti e cadono i maroni ancora prima delle intenzioni. Il cuore mi batte sulle gengive, lo sento pulsare dove il dente duole, il cuore ha messo i denti del giudizio e si confonde tra ventricolo e ventricolo, destro o sinistro è quasi uguale. Ho una visione aerea e non c’è cibo da mangiare… non so cosa porterò ai miei pulcini dalle bocche aperte per la fame. Ma io non ho bambini. Del resto non è possibile costruire neppure nidi. Ho sorrisi in nero. In affitto il pensiero. Per posta sono arrivate ali di farfalla. Non le ho lette ma restavano a galla sulle mie sopracciglia. Perché nessuno si incazza? Perché morire con l’odore di tigli, perché morire senza difenderci? Ho una visione aerea di corpi in attesa, di dita su labbra a indicare il silenzio. Il coraggio è nel bolo di saliva che non sputo e non inghiotto. Il coraggio è un tempo morto che crea imbarazzo. Il coraggio è un po’ indigesto. Rompere questo silenzio è come disfare un alveare che non produce miele ma caselle esagonali per teste tutte uguali. Il coraggio è fuori moda, adesso. Ci hanno posto troppo tempo su scrivanie a spiegarci l’angolo retto. Il diametro della fregatura e agili manovre a 360 ° della lingua, mai della veduta. Perché non accade nulla? Ho un gettone per la doccia calda, ho il gettone per la mia nausea, abbiamo tutti gettoni per parole contate, abbiamo labirinti di percorsi scelti, stiamo anche noi cucendo palloni con minorenni, vendendo corpi per passarcela meglio, stiamo anche noi precipitando muti in questa visione dall’alto che lacera il vento e blocca il respiro e mai una volta che s’apra il paracadute. Perché ci stiamo ammalando, tradendo, confondendo, perché ci stiamo isolando qui dentro, in uno sgabuzzino munito di tutto, compreso il nostro tempo e ore d’aria ogni tanto, cosa è successo alle ali che non ci sostengono, perché il cielo è coperto di piume, come possiamo scambiare sorrisi con eliche. Perché non c’è un grido, perché questo silenzio, perché non c’è fame se ovunque manca cibo.


lunedì 17 gennaio 2011

SENZA TITOLO III




Ho strappato un appuntamento col dirigente, l’ho bloccato nel cesso, unico luogo dove non è seguito da gente. Tutte le donne del dirigente… sembra un film. Ero contro la macchinetta che distribuisce caffè, avevo gli occhi catturati dalla voce “in funzione”, avevo un vestito rosso e seni traboccanti per via di un push up all’olio, ero la foto non espressa nel curriculum, il sesso sublimato nella pubblicità del biscotto, ero rossa e nuda nel corridoio del cesso a porgergli un sorriso come carta igienica che gli accarezza il culo, che schifo. Comunque chi se ne frega, devo lavorare, la mia strategia è solo farla immaginare, butto una corda è lui che ci sale o cade o si lacera le mani per raggiungere cose… E l’assenza di te mi sale alle gambe, come formiche distribuite in colonne che portano doni di pane, che colmano la fame, e la tua assenza non è vera mancanza, perché questo vento mi solleva i capelli e questo sole mi sfiora le spalle con labbra bollenti, e mi sento sospesa e sorpresa da mani che non vedo ma restano come sogni a dormire abbracciati, come quasi neonati che stringono la vita in pugni a cui non hanno mai contato le dita. E dopo questo atto di prostituzione burocratica, dove il burro fa da allusione in movimenti che si mangeranno lo spazio, guidati da un corpo dove se esisto mi sarò rifugiata a lato a prendere nota di come mi prostituisco. Conterò i soldi orgogliosa, lui avrà in mano la ricevuta di ogni cosa soltanto suggerita. E dopo l’aria, piena di condoglianze, mi si aggrapperà da sotto il vestito alle gambe, commossa. Dovere. Riuscirò a mettere un neurone avanti all’altro e a cavarmi un discorso compiuto che non sappia di tappo? Vedremo. Quanto vuoi per non abbatterti, quanto vuoi per dipingere, quanto vuoi per scrivere, quanto vuoi per gli organi vitali, quanto vuoi per la tua indipendenza, quanto devi guadagnarci sopra, quanto agile devi essere a scavalcare sputi che ti lastricano la strada. Siamo tutti lì a venderci, siamo come dietro sbarre di canili, orecchie basse a supplicare di essere notati… da noi stessi, di essere speciali per noi stessi? Di commuovere da spezzare le ossa, di un gesto che apra la gabbia e quanto ci costa, siamo a scodinzolare, e siamo sempre noi ai bordi delle strade a lanciarci con movimento di fianchi e seni a vetri neri che ci corrono ai lati, a sospirare di essere scelti, di fare parte di un sogno sessuale, di suscitare su tutte un prurito speciale… ogni giorno. Ogni giorno. Ogni cibo. Ogni cosa. Ogni volta. Ogni sorriso. Nessuna spontaneità, nessuna sincerità, abbiamo la vita divisa in spot e consigli per gli acquisti, consigli subumani, e la violenza ci scappa improvvisa come draghi che vomitano fuoco e fino a un attimo prima non lo sanno, pensavano si trattasse di un semplice rutto. E diventiamo feroci senza coscienza, quasi senza colpa per conseguenza. Apriamo gli occhi e ci sono interi popoli con i capelli bruciati e lo sguardo stupito nei bulbi oculari sporgenti, come a chiedere “che è stato?” Niente, siamo draghi e quando ruttiamo va a fuoco tutto ma non lo sapevamo.. E ruttiamo su uomini, donne e bambini, cancelliamo nazioni quando digeriamo. Siamo distratti, ingombranti, non volevamo.
Scoreggiamo idee di scudi a proteggerci la testa da probabili missili che anzitempo abbiamo poggiato in culo a chi ora, giustamente, ci detesta. Ma cosa ne sappiamo. Ogni giorno, ogni cosa, ogni volta che ci prostituiamo e con le schede andiamo a votare chi, cosa? Ci sono cabine predisposte alla posizione prona, fossimo come l’ape che succhia e ci fa il miele sarebbe un’altra cosa, con noi a mala pena si fa fuori un presidente, se va bene. Rimangono angoli per seghe al cervello, seghe sociali, ambientali, contro la vivisezione dei diritti o progetti ad ampio raggio per ridurci a una massificazione, a una particella di sodio che fa monologhi nel nostro cervello. Ho visto le immagini di Genova tirate fuori come carte sbagliate in televisione, mi si è spremuto il cuore a sentire la voce di un ragazzo gridare basta! E basta gridavano tutti gli altri attorno, mentre il suo corpo era lì, tra calci e colpi di manganello, e quella voce di pianto e stupore “basta”, mi si è bloccato il respiro. Basta un secondo per percepire lo schifo e un altro secondo per fuggire in apnea, per evitare che il sangue d’altri come onda più lunga ci macchi le scarpe. Basta, gridavano tutti. Ma solo uno al centro era zittito a calci e pugni. Quando la finiremo di sentirci liberi, quando li vedremo i guinzagli a strangolo che tirano all’improvviso mentre tu vuoi solo andare dove stai esattamente andando. Il peggio è che la polizia ce l’abbiamo dentro. Ecco questo silenzio. Siamo i primi a manganellarci il cuore, a renderci inermi e vestiti di terrore, bloccati come insetti che conoscono l’unica strategia per sopravvivere a un nemico più grande di loro, fingere di essere già morti.

Giovanna D'Arco

 

GIOVANNA D'ARCO

 Aprile 2008

Giovanna D’arco ha appena squarciato il cielo gridando: “Vescovo muoio a causa vostra!” E donne di tutte le etnie ballavano un tip tap con le catene alle caviglie, scalze, su un pavimento di ossa. Petali di non ti scordar di me mi scivolavano dalle ciglia, quasi lacrime, mentre una donna troppo adulta prendeva spazio nella mia testa e come metastasi il suo dolore o la sua saggezza. Per ogni ruga, per ogni ruga si solcava un terreno arido e fermi gli occhi in nessun movimento, proiettati come tunnel nella sola direzione, la fessura di luce, senza quasi emozione, ma determinazione tanta. E questa donna con occhi incastonati come pietre ferme e chiare, dalle quali non si può deviare, e le sue rughe come carezze oblique, come le onde sulla sabbia, e questa combattente senz’armi, ne’ voglia, a spiegarti daccapo la bellezza, il tradimento, a invogliarti a varcare la soglia, a sussurrarmi i passi che mi mancano per tornare per sempre, di nuovo, con me.
C’è un’altra idea di bellezza, di grandezza e di gioia e un’altra di morte e di vigliaccheria o anche di poesia. C’è un dipinto che arriva sospinto dalle parole di un romanzo, ancora, per posare con estrema educazione le mie budella contorcersi come anguille sul piatto da porgere.
Bologna è percorsa dal mare, coprifuoco e ronde, l’arte è sotto inquisizione, è ritornata la caccia alle streghe, qualcuno sussurra che c’è sempre stata, mentre una donna a distanza brucia, non era adeguata, ed essere rivoluzionari significa solo essere se stessi, le donne sono sottopagate, proibito l’aborto, l’uomo torna a comandare ma qualcuno dice che l’ha sempre fatto e in un angolo l’ennesimo stupro, tornata la pena di morte, ma qualcuno dice che c’è sempre stata e all’angolo qualcuno è impiccato. Però ci parlano di progresso, ma ci sono troppi volti sospesi a guardare in alto con le lacrime che cadono dagli occhi al collo e i singhiozzi danno il ritmo folle, di questo spartito di sangue, che chiami progresso e non possiamo suonare, non ci sono violini per questo. Solo mani e mani e mani lordate di sangue d’altri.

domenica 16 gennaio 2011

Giovanna D'Arco 08


GIOVANNA D'ARCO 2008


Mi ero innamorato delle sue labbra perché erano un vetro rotto, e attiravano lo sguardo, come le sbarre di ferro di una finestra sventrata, di una casa abbandonata, erano come un profondo taglio tra la parte sopra e la parte sotto e sempre ci passava un filo d’aria, come non si appoggiassero del tutto. Erano saccheggiate e misteriose e chi le ha baciate non le ha svelate ma gli devono essere rimaste impresse, lo devono avere avvolto come vapore, devono avergli provocato brividi e scosso le ossa. Erano quelle a colpire lo sguardo, a desiderare di essere parole per passarci sopra come alito, per formare un qualsivoglia concetto, spento come cicca sotto l’acqua da un traboccare di rosso su un confine perfetto. Erano labbra che sfidavano, erano labbra che suggerivano come amavano e come dubitavano al tempo stesso, erano labbra che davano speranza, che ti battevano sulla distanza che ti accoglievano con un rumore di vetri rotti. E tremavano nell’osservarne i pezzi.

SENZA TITOLO II


Non c’è stato più tempo per pensare con coscienza a questa fine. Ieri notte, invece, mi tornava alla mente il tuo viso quel giorno di lezione e cercavo di capire quanta distanza poteva essere trascorsa da come mi apparivi, come ti immaginavo e quello che di te ho scoperto, quello che di te ho trovato, e tutto quello che manca, che ti manca per potermi stare accanto. Poi come ero vestita, poi l’audacia nel lasciarti il numero e poi una gioia immensa piena di aspettative. Ma quello che ho di te ora, e nel tempo è un uomo che mi avvelena piano, che costruisce prigioni per entrambi, che mi disprezza, che non sa cosa fare dell’amore e neppure cosa fare senza. Mi hai quasi annientata, annientando anche te stesso. Questo rapporto mi sbatte in faccia frammenti di gioia e scie di dolore, è spezzato, non è continuo, continua è stata la diffidenza, l’avvertire da parte mia qualcosa che non torna, senza sapere puntare il dito su cosa, continuo era il non sentire amore e distanze incolmabili tra fatti e parole. Schegge di vetro in faccia e sulla schiena, bugie trasparenti che feriscono senza lasciare tracce apparenti, un quadro bianco e immacolato, morte e risveglio, sarà un quadro immenso in un corpo stanco, sarà che guardandolo penserai forse di avere vinto a causa delle mie labbra dipinte di viola e congelate dal tuo freddo, ma avrai invece perso tutto quanto.

DISGELO

28/2/07
Ho il cuore martoriato e un’amica dopo avermi dato della stupida per avere rinunciato a un provino importante, poi ha capito che non potevo permettermi di lavorare gratis neppure per Bellocchio, neppure per chiunque e purtroppo neppure per lei, se avesse richiesto più di un giorno dal lavoro. Ho spiegato che non mi pagavano da due mesi e il rischio di perdere casa e allora… lei ha sofferto ancora di più e io anche. Ho dormito troppe poche ore per comprendere il suo e il mio dolore, e mi sono fatta persino una foto ricordo di questa giornata di merda. E a una segretaria stronza che mi ha risposto: “scusa, ho fretta”, ho detto: “ho problemi con l’affitto e col mio stomaco”. E ci sono periodi della vita in cui è più che umano non avere voglia di esibirsi in faccia al pubblico, come farfalle in trappola di una luce fantasma che uccide e non scalda, e ci sono momenti in cui chiedere soldi persino a chi ti ama e te li darebbe spalmati su una fetta di cuore, graffia la gola come un minerale inghiottito male, e poi altri momenti in cui vorresti prendere per la camicia una segretaria priva d’anima e sbatterla contro una porta per spiegarle che se c’è qualcuno che ha fretta è il tuo padrone di casa, che dei presunti pagamenti, di eventuali ritardi di committenti nel pagarti non gli frega un cazzo, e fretta ce l’ha la fame quando risparmi sulla spesa e la fretta non è mai una cosa degna di certa gente, e che fretta ce l’hanno solo le stronze, quelle tanto stronze da avere fretta di farsi le unghie su chi ha fretta di ottenere un diritto, quelle così stronze e presuntuose da non capire che solo la morte ha veramente fretta. E tu mio amore, non saprai mai nulla di nulla di questo, a ogni tua domanda andrà tutto bene, fino a che un giorno eviterai di fare domande, si chiama orgoglio e dignità, parole che non hai avuto modo di sentire sulla pelle, dentro le ossa e di conseguenza ignori, come ignori tante, troppe cose.

Acqua di mare

Giugno 2007

EQUILIBRIO


Guardami sto diventando acqua di mare, finirà tutto per scivolarmi addosso, rotolarmi dentro, galleggiarmi intorno, ma io sempre passerò attraverso. Sono la linea di confine che non ha mai capito il senso, perché oggi fuori ieri dentro. Ho raccolto pensieri come ho accolto l’acqua con il sole e ogni goccia mi passava la pelle, si mischiava col sangue e a galla nella pazza rincorsa dell’acqua alla cascata, sputava in alto parole, erano tutte lì, trasportate come i capelli di Ofelia, erano tutte lì, allargate e rese nude dalla gelida trasparenza. E nelle lettere buttate a caso c’erano i miei piedi, le mie labbra, e il mio battito.
Ho sentito il cuore..
L’ho sentito appartenere a tutt’altro e io ero un souvenir, qualcosa che si può comprare per sbaglio o per legarsi a un ricordo, ma l’ho sentito il battito, era nel colpo d’ali di una rondine in picchiata sull’acqua, era nel sorso rubato al tempo, nell’immediata partenza, nel traffico aereo del volo. La mia pelle appartiene alla terra, l’ho saputo quando ho sentito la gioia, improvvisa mi ha punto sul viso, annaspava a zampe in aria sotto la pioggia, qualcosa di rosso e gocciolante le ha offerto un passaggio, s’è aggrappata con tutte le zampe all’ombrello, e da lì sul verde del prato. I denti, un sorriso di rugiada appena riflesso, sfiorato. Rosso, verde e giallo, un’ape ha preso un passaggio dall’ombrello rosso, ha preso respiro sopra un filo d’erba. Sopra le nostre teste tolte dall’impaccio, nuvole bianche come spuma che fuoriesce da boccali stracolmi. Ho brindato alle nostre vite nel tempo morto di un sorriso, ammesso solo a me stessa e all’intero mondo celato. Ho capito che non c’è affitto in nero per la mia fantasia, che non mancherà cibo alla mia fantasia, nessun lavoro, nessun uomo, nessun contratto, nessun compromesso, nessun delitto per la mia fantasia, nessuna malattia, nessun incubo, nessun giudizio. Niente, nient’altro che la profonda ricchezza che ho dentro per la mia fantasia. E’ tutto qui dentro per la mia fantasia e non mi è costato altro che questo, ascoltarmi. Ascoltarmi e ascoltare e vedere e guardami, sono acqua di mare, riporto a riva quello che detesto, quello che non serve, quello che è indigesto e poi vedi, scivolo via. Ma posso bagnarti i piedi, cullarti con la mia fantasia, posso con le onde modellarti i fianchi, i fianchi rotondi e raccogliere quegli occhi che guardano lontano e quel corpo avvolto nell’asciugamano, e i capelli attaccati alla schiena che senza cura hai buttato alle spalle. Un colpo di frusta. E io scrivevo di questo e dipingevo di questo, fino a essere te e il mare. Te, una persona sconosciuta di sesso femminile, che mi ha colpita per come ha saputo viversi un tuffo. Mi sono innamorata all’istante di un corpo imperfetto, di gambe un po’ grosse e cellulite ai fianchi, perché lì, dove portavi con disincanto i piccoli seni bruni, ho letto di un discorso eterno, sull’occasione di vivere nel proprio corpo fino in fondo o dondolarlo, guardandoselo troppo, quasi fosse quello di un altro, quasi fosse un fatto di rigetto. Ti ho amato, dipinto e guardato soltanto per questo. Eri morbida. Eri un pesce. Eri un maschio nello sguardo distante. Eri assente e presente. Eri presa da un discorso fatto più che altro dalle tue mani. Eri labbra viola e capelli biondo-argento. Eri il momento. Quello che rimane. Eri l’angolo che ho intravisto, l’oltraggio che ho compiuto invadendo il tuo minuto, ruotando la testa d’un tratto. Eri la pausa presa da un rapporto sbagliato, la conchiglia raccolta per deviare un pensiero. Eri tutte le donne di sorta e l’idea di Botticelli mai dipinta. Eri vera tanto che l’aria sembrava finta. Eri con un’amica a lacerare uno spazio. Ero lontana abbastanza per non sapere mai il colore del tuo sguardo. Ero vicina abbastanza per scavarti fino alle interiora e ora trovare dov’era finito il fascino.

21 Novembre


LEGAME


21 novembre

A mezz’ora dalla fine di questa giornata di lavoro, a una settimana e qualche giorno dal varcare la porta di una nuova casetta in assenza d’anima con le pareti nude e con mobili che non abbiamo scelto, ma forse, presto ci apparterranno, apparterranno alla nostra vita quotidiana. E le nostre paure che si incrociano, corrono insieme e si sovrastano per poco, e ancora corrono parallele come binari equidistanti, diffidenti e concentrati su direzioni uniche, tocchiamo le stesse stazioni perché l’ha deciso un terreno comune, ma quello che vede chi sta a destra non è quello che vede chi tiene la sinistra. Le tue paure di abbandono, la mia rabbia, la tua libertà pretesa, la mia libertà concessa, due sconosciuti che pensano di conoscersi in parte, poi la mia pittura, la tua neve, le mie parole e le tue taciute, il mio allungare la mano, il mio ritrarre la mano, ora. Non voglio aiutare più nessuno da oggi senza prima aiutare me. Avevo una rabbia cieca, che era sangue e budella e ho stuprato una tela, ma poi il viso dipinto era quello di una santa con la propria figlia, visi antichi, sguardi eterei, un colore vinaccia che copre i capelli castani di entrambe e visi bianchi e apparecchiati sopra occhi immensamente grandi, dipingevo la pace, l’amore e un legame forte, ma la mano aveva una spada e non un pennello e squarciavo pensieri duri e ne uscivano occhi languidi e le mani mentivano la foga, la rabbia, l’oltraggio, i colori mi sbattevano in faccia la vita, l’abbandono, la quiete e da quella tela, infine, mi sono sentita tradita, smentita, come se la mia rabbia fosse stata fatta passare a forza da uno scolapasta e mostrasse ora qualcosa di calmo, rappreso, innocuo o che resta. Quello che era stato trattenuto ero io sbattuta al muro con il rumore di uno straccio zuppo e con occhi spalancati e sgranati a guardare quello che i pensieri e non le intenzioni avevano dipinto, le mie intenzioni erano fatte di odio, sangue, lotta e vittoria conquistata fino all’ultimo morso, e questa impotenza e il blu che non mi serviva, ora. Il blu non era neppure il colore giusto in quel momento e non riuscivo nella prospettiva di quelle due donne a creare l’abbraccio. Alla fine come a una donna a cui hanno strappato un sogno di carne, non avevo bisogno che qualcuno provasse a capirmi, amo quando come un serpente sono pronta in un equilibrio perfetto a cercare l’istante in cui, ipnotizzato il mio angelo, io stessa, ma solo per difesa, darò a me stessa la morte. Perché siamo tutti innocenti assassini, ci uccidiamo, ci assolviamo, ci facciamo un processo sommario e cancelliamo con orrore quello che è troppo meschino e brutto a vedersi, io invece voglio difendermi a spada tratta proprio quando qualcosa di serpeggiante, scivolandomi dentro, creerà in qualcuno un attimo di sconcerto, di smarrimento o disprezzo. Di noi va compreso e accettato tutto, di me voglio scordarmi di essere un oggetto di cristallo trasparente e indistruttibile, mi rompo facilmente e ho parti oscure e profonde tante quante quelle solari e splendide.

E così è tutto finito, ieri, di sabato, nove mesi insieme, neppure due di convivenza, sono qui in una casa che non è mai cominciata, non abbiamo appeso un quadro, c’era solo la tua valigia sempre pronta, come una minaccia, ci sono foto della Corsica e più niente è stato aggiunto nell’album dopo l’estate, un inverno non c’è stato, la tua fatica nello stare qui e con me è il ricordo più vivo di tutto. Ho cominciato il giorno stesso con una doccia e il giorno dopo, che è oggi, ho lavato lenzuola, casa, volevo lavare via noi. Ho un affitto doppio da pagare e i tuoi messaggi lontani e prevedibili, perché tu ti ricordi di noi solo quando sei abbastanza lontano. Ancora non credi di avermi persa, sono tornata già due volte, perché non questa? Ho già cambiato la serratura, ho chiuso, e me lo dico per rassicurarmi, che ho finito di supplicare amore, che amore non si può chiamare. A volte non capisco cosa è successo, tutta la vita ha preso a girare, mi ha sbattuta addosso a te un vento forte e dopo non ho più visto dove andare, mi sto asciugando le ali come un insetto tirato fuori dal vino, mi piaceva l’odore ma ci stavo affogando. Quando le ali saranno asciutte volerò via e non importa dove. Dovrei essere comunque felice, ho una casa e sono sola, l’ho sempre voluto questo, l’ho diviso con l’uomo sbagliato, capita, ora mi rialzo, se fosse un film, se fosse un film lo direi buttando fumo fuori dalla bocca, o appoggiata alla spalliera di una sedia con una birra in mano, forse mi colerebbe matita nera, e avrei seni appiccicati alla canottiera e capelli spettinati, seni piccoli appiccicati alla canottiera da uomo e un’aria di indipendenza data soprattutto dall’essere lercia e scalza. Ma è la realtà e quasi mai nella realtà c’è una regia che c’entra. Ora mi rialzo, come sempre. Ho la possibilità di conoscermi a fondo, davvero. Sono lontana dalla tua insensibilità, dalla tua rabbia repressa, dal tuo desiderio malato di una libertà giocattolo che è una scusa per non crescere mai, lontana dalla gente di cui ti circondi, vuota, superficiale, banale come queste parole in fila, arida più del deserto, apparente e fragile, priva di succo, avvizzita, uguale. Non c’è un figlio e non l’ho mischiato il mio sangue col tuo. E quello che mi manca sono le bugie belle a cui credere perché fossero la chiave a un altrove che ora mi lascia delusa. E questa casa non sa di te, non ci sono neppure abbastanza ricordi per piangerti, la sera le due ore per illuderti di vivere con me, non mi hai dato niente, niente…e ora cosa ti aspetti che pianga o rimpianga, posso solo rimpiangere di averti creduto. Credo che ti sarà impossibile essere credibile ai tuoi stessi occhi, figuriamoci ai miei.

Dicembre 2005


"L' ATTESA"


Dicembre 2005

Mi gira la testa. Faccio promesse che non so se posso mantenere attualmente, e poi sono tornata a scuola, ma è come avere tanti padri al posto dei professori, professori sorridenti che ci comprano con biscotti l’attenzione e compagni di corso indifesi, quasi sereni, in questa merda di situazione, in questa disoccupazione, questa realtà sospesa, sorpresa solo a piccoli istanti di coscienza, quando come ragno, scende tra i banchi appesa al filo e ondeggia. E io anche. Le ore. I giorni. Non è così atroce. Niente. Basta metterci sui binari e tutti andiamo, tutti sappiamo dove andare, così siamo qualcosa, siamo allievi ad esempio. Che beatitudine. Che solitudine, che silenzio fa il mondo quando si è chiusi a studiare, a imparare, ad inventarsi un ruolo. Il mio migliore amico non si è reso conto che il suo stivale mi schiacciava il petto, spingeva e ci restava sopra a fumare, gridare era fare rimbalzare ossigeno al vetro, senza che questo, anche solo per sbaglio, potesse una volta tanto attraversarmi la gola, ma no! Esitava, esitava e il tempo passava e le risposte, tutte, hanno cominciato a corrermi sulla pelle che era quasi impossibile tradurre, tradurre simultaneamente. Quanto vuoi amico mio? Quanto vuoi per me? Nulla, basta la sala piena, la pancia piena, e guardarsi negli occhi non conta più. Bene. Non muoio. Qui all’angolo del mondo mi riposo. Convengo la strategia da usare e quasi non ti odio, solo, la delusione forma pozze d’acqua sporca, con cui i miei piedi, scusa, giocano. Ho bisogno di dipingere e di spiegare al mondo che decapitare teste di fanciulli e sacrificare animali sugli altari non lo salveranno dall’amore, l’amore rimarrà appiccicato a qualche roccia, anche solo qualche tentacolo sbocconcellato, anche solo se poco prima qualcuno è morto, tingendo d’inchiostro un sentimento come la paura. Basta tremare. Basta tremare, che gli occhi stiano aperti sul colore, su un colore che non lascia spazio, ipotesi, scarto o altra soluzione, che blocchi lingua, respiro, intenzione. C’è una figura esile a lato di una tela fredda che non dipingo ancora, e la sua gemella è una donna nuda con una gatta in testa e un vestito rosso le casca, c’è una figura estranea che rallenta il tempo della composizione e le spetta un piccolo spazio a disposizione, un piccolo spazio di tela rosa e fredda, i suoi occhi di cipria troppo grandi e reclinata la testa. Sensuale, sottile, protesta la voglia d’urlare, di capire quello che non si può capire; “lungimirante” che cazzo vuole dire? Non so se lo sono, mi sa di stregoneria. La professoressa è compressa nel tailleur di nessun colore, l’espressione vacua, incompresa, incompresi noi costretti all’educazione, mi faccia passare che manca l’aria e l’idea che la precede.

Maquis

Giugno 2010

E quando ho sbattuto la porta avevo unghie sporche di idee vere, diritti caduti a lato come cacche d’uccello, ali decise a non scambiare opinioni.
E quando ho sbattuto la porta sanpietrini i pensieri e sangue a segnare le tue proporzioni.
E quando il fango alle spalle e il vento davanti, nessuna intenzione di vederla come Gandhi, e quando la guerra ti ho dichiarato e l’odore dei tigli mi ha assecondato, c’erano anfibi, scarpe pesanti, petti squarciati venivano avanti, puntavano dritti tutti al tuo cuore, un unico corpo “la costituzione”, e sangue su sangue, e scarpe su scarpe e unghie su unghie e fianchi e poi pance e seni d’orgoglio e occhi fucili e spalle a milioni e poi solo ragioni.
E poi era Aprile, che dolce dormire, era morte nel sole, primavera di rabbia, sangue alle labbra, ricordi dei diritti bendati, ricordi del plotone d’esecuzione, ricordi gli spari e a cadere a milioni? Ricordi chiudere gli occhi come battiti d’ali interrotti, ricordi i singhiozzi e dopo i rintocchi, le mani chiuse sulla faccia di quelli rimasti, col senso di colpa dell’essere vivi, ricordi che si è partiti da un basta e si è arrivati alla fine? E sputare coraggio da un corpo torturato e non potere dire nomi che avrebbero fermato e supplicare la fine di questa atroce vita che mia madre ha partorito e io non ho concepita, che non ho ritrovato nei racconti della notte, che tutti i miei ideali sono finiti in quelle fosse. E’ stato nel 1945 ma poteva essere ieri, potrà essere domani, sempre queste sono le mani, sempre queste le imposizioni, sempre al governo gli stessi coglioni, sempre fascisti a lordare il mondo, e preti a coprire il fondo, sempre rossa sarà la risposta, con lo stesso schema delle nostre ossa, lo stesso progetto di volti emaciati, lo stesso complesso gioco al potere, sparare, cannoni, e sono i nostri corpi, per arricchire uomini da sempre già morti. E fare in modo che negli ideali, i morti no, non siano tutti uguali.