Clochard - Drammaturgia - Eloisa Guidarelli - Parte 1°
Clochard
Di
Eloisa
Guidarelli
Personaggi
:
Gretel
Ettore
Mosè
Mangiafuoco
Poliziotto
Una donna dall’età difficilmente definibile, una clochard,
rumore del treno sulle rotaie. Avviluppata in una coperta, vestita per strati,
con maglie logore, lise, sporche, capelli bianchi, testa bassa, respira a
fatica. La testa le crolla, per poco russa, ma poi di scatto, come sorpresa, la
rialza immediatamente, cerca qualcosa in un sacco di plastica, tira fuori del
pane e un vasetto di carne, sembra quella per cani. Il muco le cade sul pane e
fa una fatica incredibile a mangiare e respirare contemporaneamente.
Gretel – La gobba mi costringe a stare piegata, va
bene perché non vedo in faccia la gente, la gente che si è spostata. Non riesco
a mangiare e respirare, non so se ho più fame o se sono più stanca, respirare e
dormire si può fare, mangiare e respirare è fatica per me. E’ bene che la gente
si sia spostata, perché non devo chiedere il posto, il controllore si ostina a
chiedermi il biglietto, e io faccio finta… Dove l'ho messo? Un momento che
cerco, lui è nervoso non c'ha tempo, io tempo ne ho tanto invece. Non lo trovo,
e svuoto il sacco.Tiro fuori un foglietto stropicciato, glielo porgo, ma scuote
la testa, è solo un foglietto mica il biglietto. Quante storie! Adesso non può
farmi la multa, può anche farmela ma come la pago? E lui lo sa. Può portarmi
dai poliziotti ma io non ho un documento e neanche io so più come mi chiamo.
Possono tenermi dentro se vogliono, ci guadagno anche un posto caldo, ma poi lo
sanno, mi devono lasciare fuori. E'
incredibile come la legge vada a rotoli, quando non hai denaro non te lo
possono chiedere, quando non hai un nome non ti possono perseguire e se non hai
una casa... Fa finta di niente e sorride a una ragazza. Lei il biglietto lo
mostra. Lei fa ancora parte della storia. Non io. Ma la ragazza mi è seduta di
fronte, l’altra gente si è spostata dalla puzza perché mi sono fatta la pipì
addosso e anche la cacca, ma lei resta. Da sotto la mia testa, caduta sulle
ginocchia, mi sembra bella. Cerca di spiarmi, ora quasi mi tocca, questa crede
che sono morta, ma io Tiè! Mi rialzo. E' una diversa, mi tratta come una
persona, ci sono mille posti vuoti questa notte e lei sta qui a sniffarsi tutta
sta puzza, ah per me non è un problema. Mi sposto tra le porte del treno, piene
di spifferi, cosa ti porta a guardarmi, la curiosità o la paura? Quando rientro
la ragazza non c’è, ma ci sono i suoi guanti... La ragazza non c'è ma avrebbe
voluto lasciarmi i suoi guanti e un biglietto scritto, non l'ha fatto. Ma
avrebbe voluto. Avrà temuto per un momento di finire così, come me, ma solo il
treno è lo stesso. Solo il treno. Non è qualcosa che si attacca, però è uno
specchio scomodo, sì. Questo sì, lo capisco.
Si avvicina un uomo che trascina un carrello pieno di
cose.
Gretel - E tu chi sei?
Ettore – Barbone, lunga e folta barba. Per
metonimia, la persona che la porta, persona che, ai margini della vita
cittadina, vive d'elemosina o d'altri espedienti, incolta nell’aspetto e nell’abbigliamento.
Gretel – Ma che sei scemo?
Ettore – No, sono Ettore, non sarai una di quelle
che parla la notte?
Gretel – Mi sono appena cacata addosso e tu ti
preoccupi se parlo la notte?
Ettore – Sì, quello non è un problema, io alla puzza
ci sono abituato e poi tiene lontani i ladri, questo è il terzo paio di scarpe.
Gretel – Non hai scarpe!
Ettore – Me le hanno date di un modello che non si
vedono, è l'unico modo. Poi sono comode. Ce l'hai un nome?
Gretel – Ne ho uno al giorno se è per questo, perché
io sono una che si annoia e poi la prima forma di schiavitù è il nome che si
porta, io non lo porto, così nessuno mi chiama e non sono costretta a girarmi.
Non mi hanno mai addomesticata a me.
Ettore – Ti dispiace se mi metto qui?
Gretel – Si, mi dispiacciono un sacco di cose ma non
posso evitarle. L’importante è che non ti conosco e non voglio conoscerti, solo
perché dividiamo lo stesso marciapiede.
Ettore – A me quello che mi ha rovinato è che ero un
bambino sensibile, troppo. Mi ricordo che disegnavo bene da bambino e sapevo
raccontare certe storie, certe storie che non tutti capivano, un giorno la
maestra disse di inventarsi una storia sulle mele.
Gretel – Anch’io avevo una maestra che si faceva le
canne...
Ettore – No, davvero... Io l'ho presa seriamente, ho
fatto un fumetto, era la storia di due mele che cadevano dallo stesso cesto e
poi ne passavano di tutti i colori, c’era chi se le voleva mangiare,
rischiavano di essere schiacciate, i bambini le calciavano, ma loro rotolando
si salvavano sempre ed erano sempre insieme, avevo poche vignette e dovevo
concludere la storia, così ho disegnato le mele che si tenevano per mano, la
strada all’orizzonte infinita, una diceva all'altra : “ …e come i vecchi
invecchiano noi marciremo insieme” . Tutti mi presero in giro e la maestra
disse che marcire non era romantico, forse non lo era, ma le mele non
invecchiano, marciscono. Io vedevo la verità, l’ho sempre vista così com'è, né
bella, né brutta, la verità. Un bambino ci rimane male quando si ride di una
sua storia, di un suo disegno.
Gretel – A me facevano la religione a punti, sì non
c’erano i voti, c'erano dei punti che ti potevi guadagnare facendo disegni, o
scrivendo poesie o studiando la religione, avevi più punti se studiavi la
religione, un po’ meno per una poesia e solo tre punti per un disegno!
Ettore – E se eri ateo?
Gretel – Non era contemplato, io ero atea già a sei
anni e così preferivo i disegni, ma dovevo farne un sacco, valevano solo 3
punti! Disegnavo la Madonna, ma la facevo troppo bella, come una modella e con
due gran poppe e il crocifisso in mezzo!
Ettore – Era una morte migliore, per il Cristo,
intendo.
Gretel – Sì, ma non lo capivano, Giuseppe lo facevo
giovane e bello, ma quello che non piaceva era che a Gesù gli disegnavo il
pisello. Ma perché? Ce l'avrà pure avuto! Un po' come la tua storia sulle mele,
non ti fanno crescere con la verità, preferiscono che vieni su a metafore. Li
vedi questi piedi? Sono di un poliziotto.
I due alzano lo sguardo verso l’alto. Momento di pausa e
risposta. Il poliziotto non è visibile. Vediamo solo i suoi piedi.
Gretel - Sì domani ci spostiamo, lo sappiamo 24 ore,
domani ci leviamo.
Ettore – No, guarda non ho droga io, io sono un
barbone, ma sono uno pulito, sì non mi conosci, perché mi sono ridotto così?
Perché ti sei ridotto così tu! Ahi Basta! Che fai! Ho capito! Ettore, scherza,
scherza, che te la fai con un barbone? Grande e grosso e se la fa con uno come
me, che sta su per i quattro venti, sì vai! Gioca con il manganello, vai… che è
l'unica cosa grossa che ti ritrovi tra le mani…
Gretel – Guarda che io non voglio casini, quelli non
li devi fare incazzare!
Rumore del treno sui binari. Buio. Cambio scena. Una
stanza, un ragazzo sui trent’anni . Voce del padre.
Voce - Dovresti rivedere la tua partenza, non credi? Alla
luce di questi fatti! Guardami in faccia invece di imbottire quella valigia di
stracci!
Figlio – Non sono stracci, sono le mie budella, non
vedi?
Voce – Troppo facile tagliare la corda, e dove pensi
di andare, con quali soldi? Dovresti invece chiederli a quella stronza di tua
madre, non ne ha mai dati abbastanza per mantenerti!
Figlio – Mia madre, mia madre quando mi vede non mi
chiede come sto, non mi chiama per nome, dice solo : "che fine hanno fatto
i soldi che do a quello stronzo di tuo padre! E siccome è da quando sono
bambino che faccio la piccola vedetta lombarda tra te e lei in questa farsa da
libro cuore, ora vado. Non chiedo più niente. A nessuno. Ora me ne vado. Però
prima ho da dirti una cosa, sai quegli attacchi di panico, sì pa’ quelli per
cui mi facevano il valium in ospedale, ho capito, tutto risolto, era solo una
questione psicologica, che non mi accettavo, invece nulla, sono gay! Pensa che
mi credevo che mi cadesse il mondo addosso. Ma il mondo non cade addosso per
questo. Ah, lo dici tu a quella stronza di mia madre? Papà non tenere la bocca
aperta c’è una mosca che ti è caduta dentro. Io vado. Non torno. Così vi
regolate un po’ voi con i soldi no? Pensa che sono talmente condizionato che
quando vado in banca con il mio libretto, con il libretto… non sono romantico?
Beh quando vado e chiedo dei soldi, miei eh? Miei alla banca, mi sento in
colpa, mi sembra che l’uomo mi guardi severo e controlli quanto prendo e vorrei
quasi scusarmi, perché prendo i soldi, i miei soldi. Non dire niente. Non puoi
più farmi male, posso uscire da me e poi rientrare, come l’aria passa
attraverso le finestre, anche se chiuse.
Porta che sbatte. Buio. Cambio scena. Il ragazzo solo
Figlio – Mi vedo davanti a mio padre, mia madre...
in un ultimo disperato appello,
spiegargli con calma che sono diverso, diverso dai miei cugini, dai miei
parenti, da chi fa le cose bene, si sposa con contratti e firme, anche se
dentro, magari, piange o trema, ma c’è sempre alle cene di famiglia. Io manco sempre.
Io da sempre sono la sedia vuota. La risposta non data. E mi vedo parlargli col
cuore in mano, parlare a mia madre, al mondo, per ultimo a me. Me. Arrivo come
l’ultima immagine di un mazzo di carte sventrato su un tavolo, da gesto esperto
di esperto giocatore. Alla fine del gioco c'ero io. Io che dico a loro,
accettatemi e basta. La voglia di vivere, la voglia di morire, alternarsi come
la luna con il sole, solo raramente godo di un tramonto. Sono in lotta da
sempre con me. Sono stanco. Ho di fronte un uomo profondamente tormentato, una
strana alchimia di ragazzo e adulto, c’è qualcosa dentro di lui, qualcosa come
una profonda sofferenza, ma sprigiona rabbia, a volte euforia. Mi racconta
storie. E’ in grado di trascinarti dentro, ti artiglia con lo sguardo e... con
le mani, gesto, dopo gesto, disegna le parole che ha letto. Io scorgo il quadro
incantato, perfetto. Il tormento cerca il tormento, l’inquietudine cerca
l'inquietudine. Sarà per questo che ci siamo trovati. E forse non voglio
davvero sapere tutto dell’uomo che ho accanto. E' un bisogno umano, ma non
dell'amore. Amare, come si ama un perfetto sconosciuto poi non si ama più.
Accettarlo soltanto. Dargli tutto senza stabilire per quanto. Prendere tutto
senza chiedere stati di famiglia. Non lo sappiamo fare. Soffrire colma dentro,
fino all’orlo. Esattamente come amare, voglio passarci attraverso.
Il ragazzo apre le braccia a croce e si sbilancia come per
un tuffo nel vuoto.
-
Mio
amore, questo pezzo di vita salata è solo nostra. Un pezzetto di vita come
piccolo pezzetto di torta, lascio a te la più grande, non ci sfamerà forse ma…
toglie anche per poco quel buco allo stomaco. Saremo sorrisi di bambini a cui
hanno riempito la pancia. Sorrisi di bambini denutriti dall’amore che si
regalano pezzetti sporchi di pane. Di paure. Cuccioli che si leccano al
buio, soli. Cerchiamo di bastarci.
Soltanto.
Buio. Cambio scena, Ettore e Gretel trascinano il ragazzo
che ha perso i sensi, tenendolo rispettivamente per braccia e gambe.
Ettore – Respira?
Bisognerà cavargli fuori l’acqua. Ha il tipo di scarpe che si vedono, domani
rischia di non avercele più, domani glielo spiego.
Gretel –Ma che gli
spieghi! Questo non è mica uno dei nostri, questo lo vedi com'è vestito? Questo
domani qualcuno se lo prende, io non ci voglio parlare coi poliziotti però!
Sarà trenta chili d’ossa... ma pesa.
Ettore – Guarda tossisce, forse vomita un po' d'acqua, meno male perché io aceto per farlo rinvenire
non ne avevo…
Gretel – questo l'ho fatto
rinvenire io dalla puzza, ed è solo il buongiorno! Mi sa che gli è andata
storta, neanche i barboni si fanno più i fattacci loro, questo voleva morire e
noi chi siamo per decidere…non siamo Dio. Io non vorrei mica essere salvata,
una volta che riesco a buttarmi nel vuoto! Se uno mi ripesca lo riempio di
calci in culo, stacci tu qui ora che si risveglia.
Ettore – E che gli dico
io?
Gretel – Che sei vecchio e
non sai farti i cazzi tuoi!
Ettore (la testa
sopra il ragazzo che apre gli occhi) – Sei
vecchio e non sai farti i cazzi tuoi, no io, io sono vecchio e non so farmi... No, no, non ti preoccupare delle
scarpe, ti ho messo quelle di un modello che non si vedono, nelle tue c'erano i
pesci... ce l'hai un nome?
-
Non ricordo
Ettore – Ti possiamo
chiamare Mosè, visto come ti abbiamo trovato, tu con l'acqua non ci sai tanto
fare, ma solo fino a quando non ti ricordi…
Mosè – Sono un clochard?
Gretel – No, sei un
ragazzo ben vestito, non ci si improvvisa barboni, lo si è per sfiga o per
scelta o tutte e due, anche per scelta sfigata.
Ettore – Infatti anche tu
non hai la barba, non sei una barbona, lascialo stare.
Gretel – Andate a quel
paese tutte e due, clochard, barboni, senza tetto, invisibili, tanto domani chi vi ha conosciuto mai, domani ognuno per la
sua strada!
Mosè – Avevo un ragazzo.
Gretel (ridendo
sguaiatamente) Sei gay! Peggio che essere
barbone, il barbone a volte, a volte eh? Lo rispettano ma uno gay, la gente
dice di capire, di essere moderna, ma poi ride di te, tutti ridono di te! Se non ridono ti disprezzano e comunque ti disprezzano anche se ridono. E
l’hai detto ai tuoi genitori? Mamma mia meno male che non mi è capitato un
figlio gay, non che… i gusti sono gusti (ride ancora)
Ettore – Io lo avrei
tenuto un figlio gay. L'avrei tenuto.
Gretel – Ho detto che non
l'avrei tenuto? Vedi queste scarpe? Sono quelle di un poliziotto.
I tre alzano la testa verso l’alto.
Gretel – No, non l'ho mai
visto, mostrami ancora la foto che guardo meglio, no… ma che ha fatto?
Ettore – No, neppure io
l’ho visto, ma ce l’hai una foto dove non è incappucciato? Ahi cosa calci! Non
l’ho visto quel cappuccio, quella faccia a cappuccio, quella testa di
cappuccio!
Mosè – No, io…io sono
nuovo io...
Ettore – E’ nuovo.
Gretel – E’ il mio figlio
gay, domani andiamo via, tu sai che io dico la verità, mi conosci tu a me, no?
Ma che ha fatto l’uomo che cerchi? Ha dato fuoco a cosa? Aspetta diccelo, ma
dove vai... (verso Ettore) Che
farfugliava lo sbirro?
Mosè – Grazie!
Ettore – E tu donna
barbuta ce l'hai un uomo? Ce l'avrai avuto un uomo.
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