Eloisa Guidarelli foto-grafica
Pressione
Un brindisi alla vita e a chi ha avuto il potere di
rovinarmela perché ha significato abbastanza. Un brindisi a ogni follia,
oltraggio, sbaglio, azzardo, abbaglio, torto, che ho portato dentro in un alibi
di vento.
Mi muovo in una Venezia nera,
dove imbarcazioni strisciano sull’acqua, nel regno che il vetro e il fuoco
dividono con la bruma, ho il cuore d’ossigeno, e maschere di carnevale a
ubriacarmi la vista, assassini fuggono con cavalli di vetro e giostre ruotano
sull’acqua sempre più alta della città sommersa, è una commedia dell’arte a
parte, di pirati ospitali, seduti e ingrassati davanti alle porte, è un tesoro
di pirite per turisti innamorati di sogni perduti con sandali infantili, decisi
a spendere il loro stipendio per tornare indietro anche solo un momento e
ritrovare se stessi dentro un cappello di paglia o in una sfera di neve, dove
il futuro non si vede, ma almeno sembra di poterci stare a galla. Mani prensili
tra ciondoli colorati, per trovare la meraviglia che ti rassomiglia, quel
prisma di luce da portare sul petto per avere l’illusione puerile che lì le
favole possono cominciare e non solo finire. Gli oggetti. L’immortalità degli
oggetti, qualcosa che resti. Che si può trovare, passare di mano in mano,
regalare, avere in mano la storia e toccarne la forma, potrebbe essere un
pianeta che ti giri tra le dita, la biglia di vetro che ti lascia incantata. La
sfera trasparente dell’estate sull’autostrada di sabbia, creata dal palmo della
tua mano, gomme da masticare, palline colorate con dentro sorprese, una moneta
per un tuo desiderio, una moneta per questa bugia di seta.
Dobbiamo avere ereditato la morte
perché potessimo renderci conto della vita, non l’avremmo mai apprezzata
altrimenti, siamo sinceri, non l’avremmo neppure capita, non siamo nati per
l’immortalità, non ne abbiamo le qualità, la nostra anima è tagliata male e chi
la spaccia non va troppo per il sottile, ho ancora angoli bui e vita negli
scorci di luce dove un’idea si riduce alla perfezione del minuto e il pulviscolo
che ci galleggia dentro fa parte di quello che sento, ho sempre brividi alati,
incubi, vertigini e sogni portati da
pipistrelli Re Magi al dio dei lampioni notturni, mappe degli ubriachi, orme
fisse di luce per i perduti, prigioni e illusioni per falene con ali di
polvere, ho ancora sete e fame ed espedienti, giocarmi una danza dei sette veli
con falsi preti, passi furtivi nei vicoli del pesce e dei mercati delle ossa
esposte e delle anime fresche con le coscienze tagliate da consumare in
giornata. Si vendono passere di mare e la fantasia comincia a navigare. Il male
è questa moralità serpeggiante che avanza, è ai fianchi, sibilante sopra la
testa, ti segue saltellando sui tendoni delle fiere, nel piazzale assolato,
negli androni deserti, nelle finestre arrese, scivola sopra gli ombrelli, posa
labbra sui tuoi tacchi alti, sulle tue trasparenze, è lo sguardo tangente alla
tua scollatura che ha mani per sollevare lembi immaginari, la moralità è un
guardone che spia ogni tuo movimento e se lo mena in silenzio, additandoti
“strega” , responsabile diabolica del suo stato attuale, tu sei per la morale
sempre e comunque da condannare, tu sei la libertà, il pericolo, l’autenticità,
lo schiaffo in piena faccia e sei la minaccia, il nemico per la disonestà
altrui, attentato alla bucolica pace, la morale è come il catrame sulla
spiaggia, l’umidità troppo alta che richiama zanzare e ti fa respirare acqua,
la moralità bava aderente, si indossa e non si sente, si avverte un disagio, un
senso di costrizione, un urgenza di evasione e la percezione che se fuggirai ti
spareranno alle spalle. Gli amici, solitamente lo fanno. E’ questo il male. Tutto. Il vostro giudizio aguzzo, l’abito austero
nero, il vostro potere viola, l’ipocrisia alla base del vostro pensiero, le
vostre dita censure, il vostro sguardo basso, come se un desiderio sporco
potesse svignarsela inosservato, il vostro buco della serratura, la vostra
paura di essere scoperti, le mani sudate anche quando non è estate, la vostra
indecenza in quell’invidia molle e pigra che vi porta alla deriva, falliti
senza averlo capito di un traguardo concesso a tavolino, portate corone di
cartapesta e sopra di voi sciacalli ridono della vostra fantasia morta di fame
tempo fa, le vostre labbra accuse, i
vostri denti cancelli automatici, di giardini privati su privati accordi,
salotti e tragedie, aperitivi e guerre, che la digestione vi sia lieve, quando
è una cena a stabilire chi vive e chi muore, perché lo sappiamo da sempre che
la guerra ad alcuni arricchisce soltanto, che c’è chi ingoia un’ostrica con lo
spumante e chi muore con armi chimiche, e tutto quel popolo che si inchina
beato mostrando al sole il culo che vi ha appena dato, per la tranquillità. C’è
troppo oro indossato per la vostra credibilità, le vostre dita preghiere sono
anemoni urticanti e se ci fosse
Cristo, oggi starebbe con i
migranti, starebbe in mezzo al mare, non morirebbe sulla vostra croce, ma
potrebbe annegare, sarebbe figlio non di un Dio implacabile ma della speranza,
di ogni madre stanca che aspetta con il cuore in esilio di sapere se è arrivato
quel figlio. E un Nettuno affranto lo porterebbe tra le mani come un padre
impotente, come un padre gigante, una scultura vivente di conchiglie e coralli,
ferite e cicatrici, pelle dura di balena sfuggita ad arpioni mercenari, un
enorme bronzo di Riace possente abituato a comunicare con delfini e orche e a
scatenare la sua rabbia sulle barche, lo poserebbe quel figlio ereditato senza
passaporto proprio sotto le vostre colpe, all’ombra del vostro sguardo. Lo farebbe
con delicatezza, come fosse di vetro, un vetro di Murano, nato dal soffio e
dalla fantasia di chi per pietà se l’è portato via, come un padre con il
proprio erede, sfiorerebbe quasi con imbarazzo e paura quel volto sfinito,
finalmente arreso, con maniere così trattenute, come assorte, che a volte si ha
come il timore di fare male alla morte. Poi si girerebbe e tornerebbe negli
abissi per cercare tutti i nomi appartenuti a ognuno di quegli uomini ,
occupato a creare la sua Atlantide
priva di filo spinato e confini, dove abbracciarsi e salvarsi la vita non
saranno considerati reati. Si terrà la testa e piangerà tempesta sulla vostra
coscienza e indifferenza, si terrà la testa e canterà i loro nomi come di figli
sui cavalloni. E lancerà sguardi furtivi e complici agli squali, che porteranno
fieri le taglie tra i denti dei veri delinquenti da sbranare, quelli che non
vogliono aiutare.
Siamo tutti qui con occhi bovini
di incredulità ed orrore a fare appello a una sentenza che ci porterà al
macello, e le sentenze sono sempre dittature oliate dove il boia sacrifica le
sue anime migliori per conservare il museo degli orrori attuale, e poi
soldatini a sfilare nel silenzio dell’ordine e della stabilità per la
massificazione e il livellamento della società e bandite per sempre le parole
verità e libertà, bandita la cultura, l’arte e ogni forma di ribellione che
potrebbe destabilizzare questa oliata bugia sociale, questo nuovo ordine cosciente, se io ho tutto è perché tu non hai
niente.
Si ripete la storia e la sua
follia, la sua banalità e vigliaccheria, e non mancheranno eroi vicini e
lontani che moriranno senza diventare anziani, che saranno bandiere, chimere,
ideali, poesie, dipinti, canzoni e anniversari, commemorazioni, ma tutto si
ripeterà, giorno dopo giorno, come autismo.
Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà o farà potrà e
sarà usata contro di lei in tribunale.
Ma non è sempre così? Qualsiasi cosa che dirai o
farai potrà essere usata contro di te.
E tribunali ce ne sono sempre, tribunali di
famiglia, di amici e parenti.
I tuoi occhi deserti di neve
parole arrestate in gola come
elemosina sorda
mani contro il muro gambe
divaricate
pregiudizio che scende tra le
scapole
l’arte è un messaggero che può
attraversare secoli
e viaggia sopra ogni condanna
perciò mentre sei qui a
perquisire ogni millimetro del mio corpo
per avere le prove della mia
colpevolezza
non troverai mai l’arma del mio
malcontento, e tutte le impronte digitali sui miei ideali.
Ho ancora vita e destrezza per
bilanciarmi con rinnovata coscienza in questa vita, privata di proteine nobili,
che nobili non erano, un po’ come il
tuo stato ora, nel salone sbagliato, ad attendere ospiti che non hai mai
invitato, però guarda posso lanciarmi veloce “senza mani, senza piedi, senza
nome e senza croce”
Pensi che non possa muovermi di
qui, perché il tuo sguardo mi ha inchiodata, perché il tuo confine mi ha
esclusa? Ho scimmie alate dentro i miei muscoli, posso fuggire rimanendo a
fissarti gli occhi, senza muovermi, ho risate oscene di iene e percepisco il
tuo desiderio avanzato sotto il sole e avrò coda di sirena per una virata
d’effetto nell’attimo giusto.
Se non fosse che ho il senso del
peccato sospeso sulla schiena, e se lo schiudo appena posso librarmi in alto, e
soffioni, altalene di capelli , mulinelli di foglie, di prigione in prigione ho
occhi sbarrati per sottrarne illusioni e miraggi, siamo sempre prigionieri di
qualcuno o qualcosa, quando non è una passione, un ideale o un’idea da
realizzare, una chimera, un sogno, un bisogno. Collezioniamo dipendenze.
Soltanto,
ogni tanto,
dalle sbarre,
entra odore di rosmarino o di
erba di macchia, e allora percepiamo la libertà.
Varcare un cimitero in un
pensiero privato,
passare in mezzo a quello che è
stato,
chiedere aiuto a tutti i morti,
scambiare fendenti nei passi raccolti con angeli e diavoli purché mi si
ascolti.
Vengo con rami di cotone nelle
mani, ma tu rimani.
Vengo con ali alle caviglie, per
voli corti tra sabbia di conchiglie e foglie secche, vengo in pace, porto una
bandiera bianca su un ramo di balsa, porto negli occhi le meraviglie, le
lacrime sono scese compite come spose, sconvolte come streghe, per la scala a
chiocciola della conchiglia rosa, un ombelico fossile, dove posare le tue
labbra per intercettare l’idea del mare, l’orgasmo del sole, ho un velo sospeso
nello sguardo, che si alza con il respiro caldo, restano scogli con fessure
oscene dove cantano sirene e duemila leghe sotto i mari di pensieri censurati
Il lutto non è nel colore
Ma in quello che manca, in un
condizionale che stanca, nello sfibrare lento delle ossa, non sono mai le
condoglianze, neppure le frasi di circostanza, è il tuo odore che inseguo perso
nell’aria che manca.
Non ho una preghiera particolare
perché non ho un Dio da adorare
Non ho una preghiera speciale
come se questa morte fosse meno naturale
Non posso passare avanti agli
altri come chi fa il furbo in coda, come se il mio dolore fosse più urgente
Ma il male si sente
Non ho fiori finti per incantare
un’idea, per incartare la mia cortesia,
non ho fiori veri recisi, né
rivoluzioni francesi per corolle innocenti, a capo sciolto, nel vento, perché
mozzare loro il capo non cambierebbe il fato e questa realtà.
Ho occhi pieni di nubi, ho
sguardi di rabbia, dovrei arrendermi ma se lo facessi mi sembrerebbe di mettere
una taglia sul nostro amore perfetto.
Ho lacrime in incubatrice e da
fuori chi vede mi pensa anche felice
Se Lucifero potesse dare alla tua malattia il foglio di
via cenerei con lui alla prima osteria.
Intanto il cinismo costruisce
intorno al mio dolore una gabbia, lentamente come edera mi sale dalle cosce,
accarezza la corteccia a cascate interrotte, sotto un cuore che non avverte
dolore, mi ciba, mi alimenta di quieta indifferenza, perché aprire gli occhi
ora significherebbe sanguinare per ogni minuto del tuo male.
Preferisco il peso dell’acqua sul
collo arreso a un massaggio costante per alienare la mente e portarla distante.
Che il vento mi spieghi daccapo
qui come ci sei arrivato, quale angelo, quale incanto ha portato il tuo cuore a
battere nel mio inverno in eterno.
Il dolore brucia più del fuoco ma
il mio sguardo è solo cenere da spargere al vento, purché sia il più tardi
possibile e mi ingoio l’idea.
Ma che tu un giorno possa essere
sassi, acqua di mare, polvere, sabbia, sale non mi serve per dio a meno che non
lo diventi anch’io.
Ora pipistrelli e gufi
corteggiano pavoni e la notte vuole amare il giorno fino in fondo, la morte
pretende e in questo tiro alla fune bestiale, lei ha la forza di cento braccia
e io lacrime al posto delle dita mentre stringo la tua vita. Se potessi
distrarla con qualsiasi cosa, se potessi comprarla, vendermi anche ora. Se
potessi come d’incanto armarmi di ogni sopruso e pianto, se di questa tortura
mi tornasse l’armatura e mettermi al centro del pozzo nero, e trasformare il
destino in un brutto pensiero. Se nelle foglie d’autunno potessi fare scorrere
linfa, se fossi eretica e fiera e abiurassi questa sentenza senza appello, se
mi facessi ammazzare in questo duello, se potessi distrarre il tuo acerbo male
facendomi correre dietro in modo che tu possa scappare.
In modo che tu possa scappare.
Se la morte si potesse sedurre.
O si accontentasse di nomi fatti,
glieli darei tutti,
che la corte marziale è l’assenza
di te
Ma non servirà che io urli fino a
lacerare il mondo, che mi offra come preda e chi se ne frega se non ci
invecchio qui, meglio così.
Non posso neppure collaborare con
il nemico, essere la spia all’interno della dittatura, vendermi alla polizia,
prostituirmi, inventarmi mille e una notte favole concesse per evitare la
ghigliottina, e non avrei abbastanza purezza per un sacrificio agli dei, ma
è con i caduti che scambio confessioni,
è con loro che cerco la fuga da una sacralità di facciata, perché anche la
bestemmia che arranca si veste d’acqua santa.
Se mancherai tu nessuna notte
sarà più perfetta.
Persino la luna sarà diversa, non può essere la stessa,
dove vanno le pantere con il
cuore colmo di dolore, a fare le fusa a
querce testimoni di orrori quotidiani, quante vite ti possono strappare dal
cuore senza apparentemente lacerarti la carne, quante volte si muore con il
profumo di limoni, tante volte quanto i minuti stanno nelle ore, tante volte
quanti secondi in un solo minuto, e mi avvolge, mi avvolge, e mi cammina a
fianco. Odio l’eternità di questo dolore. Se è vero che esistono patti col
diavolo, questo diavolo dov’è? Dov’è quando serve, quando… va bene mi arrendo,
contrattiamo, cosa cambia è una vita che lo facciamo. Tutta la vita si vende
l’anima bene o male, ma ci sono funerali impossibili da concepire, figuriamoci
da assecondare, dove restare è peggio che andare, e te ne stai lì come davanti
alla statua della Pietà, e sulle ginocchia hai tutti quei corpi, in anni, in
momenti diversi, le stesse gambe, la stessa testa reclinata, la stessa arresa,
la stessa coscienza, non la stessa santità, ma in questa cappella d’orrore e
incenso è lo stesso momento, non c’è la distanza del racconto, manca il lutto
elaborato, il distacco della scultura, della pittura, dell’arte, fanculo questo
è un male a parte, vorrei fosse un affresco, vorrei poterne prendere atto, ma
non ce la faccio, non ce la faccio. Tu morte, sai come colpire alla gola. Mi
sembra di avere brace nelle vene, il mio sorriso che vive di briciole concesse,
di momenti ideali, morte lo sai io so fare di un minuto l’eternità.
Ma lei o lui ride già, come solo
sa farlo un’entità e io bilancio un ridicolo fioretto tra le dita delle mani e
la lama si sospende ripetutamente come farebbe un tuffatore prima di saltare.
Conosco il vuoto e tutti i suoi
secondi elastici
Ed è in uno spazio temporale
astratto, che lei vestita di rosso corallo ha tagliato la piazza, seguendo una
diagonale perfetta, nell’afa della stazione calda, si muoveva sospinta come una
visione, quella macchia rossa si gonfiava e sgonfiava nel vento, era una medusa
nell’acqua immobile e io il racconto.
Era il carosello di intervallo in
una fila di pensieri a briglie sciolte, era il fischio del treno, era la
rottura di qualsiasi linea retta, era perfetta per quell’istante, era il tempo,
solo tempo, e come tale poteva decidere quando passare.
e mi stringo al collo come un
nodo scorsoio questa follia, quando lo sguardo è nascosto da palpebre rubate al
mare ed è per questo che le lacrime sanno di sale
c’ è stato un inverno
perfetto, così quando mi hanno detto
che non ti saresti salvato, quando questi geni mi hanno confessato che la vita
ha un tempo e il tuo sarebbe stato limitato, però l’unica differenza che sento
è che a me non hanno dato un appuntamento, ho pensato così, che c’era stato un
inverno perfetto che l’uno ha salvato l’altro, che nessuno potrà mai rubarci
questa eternità, che non avrà fine né il nostro amore e né la nostra felicità,
perché quando dal male sai setacciare gioia, come un cercatore d’oro, ostinato,
mentre singhiozzi e soffochi, ma le tue mani non si arrendono, hai la ricchezza
più grande che è sempre stata la sola con la quale non si può comprare niente.
Niente.
Per questo sono ricca,
perché non ho niente.
Niente.
E adesso sul serio, sento tutta
la pressione inespressa del tuo desiderio.
C’è stato un inverno perfetto e
questo è tutto.
E io e te ora siamo occhi negli
occhi in un’eternità speculare senza male.
Se giochi a pallavolo con il filo
spinato come rete,
se come i bambini riesci a ridere
anche sotto le bombe,
se gli angoli del tuo sorriso
assaggiano il pianto, curvandosi ostinatamente verso l’alto, e le tue
sopracciglia aggrottate nella rabbia si sollevano in un movimento alato di
meraviglia, se dalle tue ciglia bagnate fai filtrare raggi di sole sulle guance
assetate
se nel dolore
atroce
insegui
la felicità come un
borseggiatore che si muove nell’orrore
a lei noto e in ogni suo vicolo buio
e l’ilarità che agile scavalca i
cancelli dei tuoi sensi di colpa
e allunghi il braccio per
afferrare la gioia come si afferra una pistola,
e fai documenti falsi per fare fuggire la tua ironia dalla malinconia
come si cerca l’aria in apnea
se buchi lo spazio di ghiaccio
che rimane,
artigliando l’aria
come lo stomaco la fame,
e se gridi anche con un filo di
voce
sei un vincitore.
Un vincitore.
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