Eloisa Guidarelli - Foto Andrea Moretti.
Maschere cadute.
…con tutte le maschere cadute sarà come galleggiare…
Te ne stavi lì in un angolo, occhi squadrati scolpiti da Michelangelo, e
quelle dita come pietre bianche e offese, appese. Che cosa ci stanno facendo.
Attorno il mondo, una trottola ubriaca, ingannata dal lancio impresso da Dei
per dispetto, non ha equilibrio questa terra nostra e come una biglia, dopo la
spinta si arresta. Questo inganno, silenzio, solo una strappo nel cielo, un
urlo lacerante di rapace, freddo come le risate. Sono ferme le tue ciglia,
piene di sabbia, non c’è più meraviglia in quella pietra tagliata netta
dell’iride perfetta, che intravedo, tra la palpebra abbassata e il solco
lacrimale, ci si può nuotare in quei tuoi pensieri immobili, densi, ho lasciato
polpacci controcorrente, nella caverna del tuo cuore so cosa si sente, è una
grotta di arterie vene e dolore, ventricoli che sbattono come porte, restano
assorte le parole. Cadono, cadono, cadono dentro, goccia a goccia, lo sento,
soprusi, inerzia, tormento, rabbia e impotenza, ho bisogno che il male mi cada
addosso tutto, e poi di alzarmi un’altra volta dopo questa doccia sporca,
trascinare i piedi, e nelle orme lasciate creare acquari nuovi di diritti e
colori, dire che se sono confini è solo perché il piede ha una forma che poi il
mare che è giusto cancellerà da sé … Perché, infilo la mano verso te, è filo
spinato a creare finestre di cielo. Ho bisogno di sapere che non lascio tracce,
che non voglio fuggire, ho bisogno di capire, quanto posso scavare senza
smettere di credere che potrò trovare il sogno, anche sul fondo, come l’acqua
per il tuo castello, figlio mio, bambino bello. E sono statua di marmo percorso
da vento, sabbia, insetti, sono terrazzo al sole, dove lucertole sostano
estasiate, dove farfalle fanno l’amore, dove l’eterno si fa scherno. Sono
labbra spaccate come terre divise da crepe, dove steli d’erba come soldati
stoici spuntano con lance sopra la testa, il tuo nome che batte contro la mia
scatola cranica, è l’unica anima, pretesto di lotta. Ma questa è una sosta,
all’angolo del dolore, un centimetro quadrato di pensiero dove non si muore e
si trattiene il fiato, resto in ascolto come sasso sotto il cielo, offro questo
corpo come passaggio e assaggio, lascio che il mio umore diventi sapore, che le
antenne di qualche insetto definiscano il resto, e così divento io strada,
senza confini, per tutti quegli esseri di specie diverse così vicini, e sotto
questo silenzio, lo so, siamo tutti assassini, omertosi assassini. L’Europa è
una gola assetata con doppie file di denti, esce da una terra congelata, si
ingoia passanti. Si dividono uomini in una grande partita a scacchi Europa e
Turchia, ma non ci sono cavalli e regine e lo scacco matto lo fanno ai
rifugiati che si portano via. Dove non è strategia, alle sfere più basse c’è la
polizia. Una divisa che decreta il giusto e sbagliato, eppure il vero reato è
stato troppo spesso indossato da chi arrivava a sirene spiegate, perché dire
che un rifugiato ha qualche colpa è assurdo come incolpare la vita, come
incolpare l’estate, come incolpare il vento di quello che accade. Non c’è colpa
a fuggire da una guerra, ma non ci può essere assoluzione per chi rifiuta di
aiutarli su questa terra, da qualsiasi latitudine si guardi. Non c’è confronto
di colpa, è una lotta impari e crudele, da una parte gli ideali e i sogni,
dall’altra armi, offese e potere. Se un diario, se questo mio diario si aprisse
come bocca, davvero sincera, allora molte persone ne avrebbero paura, ed è
impossibile si sa giurare tutta la verità, nient’altro che la verità… perché la
verità non si dice neppure a noi stessi, e con un atto di giuramento io già
mento. Così le tue parole sporche che scivolano mute, composte per non
disturbare, come l’educazione potesse nascondere, ovviare, eppure le sento
ronzare, persino sotto la melma della tua ingenua censura, le sento vibrare, le
vedo, le tue parole, fissarmi come api immobili, dal movimento incessante di
ali, per trattenerle all’altezza del mio pensiero, per contrastare altre
visuali, i tuoi baci scivolano via, in un silenzio denso, e tu a tentare di
coprire vuoti lasciati dalla tua morale, come falle in una barca, che affonderà
comunque, puoi buttare via secchi di noi, tentare di avere un equilibrio
precario, necessario con il mare, ma l’acqua sale. Il tuo ordine fa male, da
tempo, mi percuote da dentro e lo sento. Le tue parole sonde degli abissi, a
quale profondità troverai quello che eravamo, e quando potrai misurare in metri
la distanza, ti rassicurerà, il fatto matematico di quello che siamo, di ciò
che è stato. Le tue parole di circostanza, sceme, fuori luogo, le tue parole di
imbarazzo, le tue parole da liceali, le tue parole attaccate al soffitto come
preservativi dopo una festa, quello che resta di atti goliardici, stupefatti.
Le tue parole sparate come fionda da un letto sponda, l’abisso tra noi e il mondo, da rimanere a guardare,
nell’assenza di gravità, rimbalzeranno le tue parole, rimbalzeranno almeno tre
volte su questo lago che ho pianto, prima di sparire soltanto? Le tue parole
galleggianti colorati, che vedo affondare di poco, quando ci credo. Sono seduta
su un porto sporco, l’acqua è densa di olio di motore, una scia traslucida che
galleggia di colore iridescente, un salto temporale, e mi trovo bambina, con le
labbra sospese, come lievemente appese a domande che non si possono fare,
restano lì, nello stupore. Come insetti danzanti catturati da piante
masticanti, vorrebbero distendersi, riprendere a volare, partecipare a questa
primavera, ma rimangono attaccate a qualcosa di vischioso che non le fa uscire,
avevo parole meraviglia, si allungavano con le mani tra le ciglia serrate di
piante carnivore, ora inefficienti per i voli. Eravamo vivi, prima della
censura, ricordi? Sandali sporchi di petrolio, olio di motore, acqua priva di
ogni trasparenza, bolle misteriose che vengono a galla dal fondo, e ci si
interroga, i minuti hanno odori, e sono mescolati a strati e strati di
perplessità e segreti, avvolti in sensi di colpa, presi in prestito da adulti,
senza nessuna ragione, solo per imitazione. Accovacciata, nel tempo. Un fiore
che sboccerà in un altro momento, per ora rimane parte del molo, per sosta, per
gioco. Per tutto quello che ci sarà mai da capire, tutto deve finire. Hanno due
cavalli e mezzo i tuoi espedienti per circumnavigare il mio cuore, non vedi io
sono altrove. I sogni qui sanno di pesce fritto, le tue parole sono vele, le
guardo spiegate, dove saranno dirette, e comunque le ho già perdute. Sono
immagini spietate, solo che non le ho capite. L’odio attraversa con rombo di
tuono il corridoio uguale di una conchiglia a spirale, ho camminato su quella
scala a chiocciola, poi ho corso, quasi fino a precipitare, più gradini in un
solo balzo, rischio, sbaglio, non so fare altro, ma è tutto soltanto per
arrivare ad ascoltare il mare. Da tempo hanno condannato sirene e streghe,
hanno tutti bisogno di scuse sensuali con cui stringere affari, capro
espiatorio di ogni desiderio immorale, ti prendo in prestito, solo un poco,
come scusa, come destino, come stagione, come colpa e cammino, per espiare il
male mi hanno concesso te per punizione, e l’uomo innocente e pieno di orgoglio
andava nel mondo, con donne appese come sogni-trofei, ingraziandosi speranze e
Dei che ancora oggi ridono di lui. E ora guarda cammino a ritroso sulle tue
parole scogli sommersi, questione di equilibro e talloni inesperti, e mentre
eseguo con ironia e talento questo viaggio indietro nel tempo, dove occorre
tornare bambini, avere sogni distratti ma a due passi come questi sassi, parole
scivolano alle mie orecchie,
pettegolezzi di portinaie, mulinelli di invidia e risentimento salire a
spirali di vento caldo, previsioni di tempesta, sono qui, la tua mente convento
privato, a una certa ora si chiude o sei dentro o sei fuori, non ci sono
rumori, ne eccessi, ma rigore e doveri. A piedi nudi ho osato, bestemmiato
l’eco del tuo amore, e l’ho fatto senza l’abito adatto come le parole, e il mio
nome uscito dalle tue labbra, baciate in eterno, mi tornava come ombra
esagerata in un eco distante e fermo, bussava a nocche scoperte sulle mie vertebre,
“il nudo offende”, a me offende il prurito che c’è dietro una morale che sa di
vecchio e di cantina, mi offende la colpa negli occhi tuoi che guardi, mi
offende che ti innamori di ciò che condanni, mi offende la masturbazione dietro
la porta, un’altra volta. Mi offende
ancora di più se il perdono lo concederesti tu, mi offende l’acqua santa di cui
si bagnano le tue opinioni, mi offendono i tuoi sermoni, mi offende chi vuole
convincere il mondo intero del suo personale credo, mi ferisce come un’eresia la
vostra necessità di compagnia, mi offende dal profondo ogni atto immondo che
vuole deresponsabilizzare le umane colpe, con favole sciolte come medicine,
come ostie e comunioni, assoluzioni per dividere gli esseri in cattivi e buoni. Mi offende la volontà costante di voi
burattinai, delle promesse di un paradiso perduto nelle vostre bocche di
mangiafuoco, mi offendono i vostri rituali, come ritirate le reti la sera, per
aggiornarvi su chi è finito nella vostra galera, austera. Di preghiere e
vergogna il mondo abbonda. Eppure il tuo sguardo ha catturato l’ultimo
centimetro del mio vestito nel campo visivo del tuo specchietto retrovisore, su
un passato in coda che ti raggiunge, ti tampona, se fossi stato disposto a
passare con il rosso, non saremmo qui a scambiarci formalità adesso e forse tu
avresti avuto di fronte agli occhi e al cuore un triangolo migliore. La nostra
pelle un tempo sapeva di sale, non di parole deglutite male. Ti sei fatto
assicurare il cuore da qualche parte e mi guardi indenne sanguinare, ma persino
la tua assicurazione si rifiuta di coprire un danno così grave, ti sei lanciato
contro come un ubriaco alla mia vita, senza capirne la portata, e adesso al
posto di Afrodite abbiamo collezionato ferite.
E ci ritroviamo a pulire gocce sporche dal parabrezza, un gesto come un
altro per non incrociare lo sguardo e sapere di noi. E guardiamo con invidia il
temporale che ha diritto di urlare e bagnare. Cerchiamo di tirare brandelli di
parole dalla nebbia, piano con cautela, per vedere se escono intere e vere, e
mi sembra di cercare feriti in guerra, di sfiorare cadaveri che si lamentano,
che hanno perso il senso del tempo, e sento la bugia nella poesia, vorrei
scendere nel tuo parcheggio privato per pisciare all’angolo di quello a cui ho
creduto, tra il cielo, la notte, il tubo di scappamento, l’odore di copertoni e
cemento, tra la luna, una macchina arca, appesa in bilico su una montagna, un
vestito gettato via, e solo le mani con i palmi freddi poggiati al vetro
potevano farmi sentire che era vero, che non era fantasia, eravamo di carne e
istinto e le parole fottute erano mute, ma si agitavano vere, nelle mie e tue
viscere, erano mute sì, ma creavano pensieri e frasi aggrovigliandosi nella
pancia come serpenti, sinceri e contenti. E a questo onanismo di parole, per
compiacersi e compiacerti conosco un sesso migliore per stupirci, su quello che
è stato e su quello che era, lì come offesa, per finirla con altrettanta
verità, con qualcosa di meccanico e urgente, per salvarmi la mente e distrarmi
anche solo un minuto da questa notte con le ossa rotte e le stelle intatte,
sempre le stesse, pubblico fermo, qualcuno ogni tanto cade, puoi esprimere un
desiderio, ma io in questo palcoscenico diverso ho scordato quello che dovevo
dire, e non ho giusti inchini, né posso
compiacerti con desideri assenti per stelle cadenti, io sono qui, mastico sale
di mare sotto la pioggia e non ho scuse per il ritardo, non ho soldi per un
albergo, ho conchiglie che mi cascano dalle mani, mi ami. Lascio che il suono
di questa parola si espanda fino a evaporare, lo sento come acqua quando si
scola la pasta, sulle palpebre, lo sento come labbra di vapore, come l’atto
ribelle che il cielo aspettava, lo sento come scusa, la migliore, per trovarmi
altrove, forse ho amato per rabbia, per un paio d’ali, per ferite alle
ginocchia, per avere negli occhi ideali, forse amavo cause perse, lottare
contro mulini a vento, forse amavo degli eroi il cinismo, quello che
sopravviene quando una ferita si infetta, quando si hanno cancrene dentro e nelle
iridi alcun tormento, quando si cade senza per questo essere perduti, quando
nel dolore, proprio dove si muore, si comprende la distanza di chi ha osato e
compromesso se stesso, da chi ha pagato il caro prezzo per la tranquillità, la
reputazione e il resto. Tutto il resto. I vinti e i venduti e i sopravvissuti.
I morti di materialismo e di misticismo, i filosofi ad ore, i romantici, i
perduti per sempre, oggi come ci si sente, niente. Nessuna droga davvero che mi
faccia uscire da me, non mi servono proiezioni al muro del mio inconscio, come
guardassi la vita di un altro e mi trovassi nella mia per sbaglio. Amo quelli
che perdono e arrancano, quelli che non si arrendono, perché sentono. Ho eroi
diversi. E vuoti a rendere. E’ tardi, guardi e non parli. E sembra di sapere
come si poteva stare, prima di nascere e avere il peso di un nome da
pronunciare. Sono qui all’angolo del tuo pensiero, come una che ascolta alla
porta, con quel vestito lungo da prete per il quale mi hai fatto prendere le
misure esatte, e ora sono qui, parte della tua parata, con questa gonna lunga
pesante e il resto allacciato stretto, in questa serata speciale vestita da
prete si può solo peccare. E’ fatale . Sarà la Carmina Burana mi sento strana,
la tua pelle sa d’incenso, qualcosa che ti mette il silenzio dentro, che ti
impone piccoli passi senza rumore, quasi camminare fosse un errore, le mie
braccia ali di pipistrello, ma prima di sbattere contro le vetrate colorate,
delle buie chiese nate sulle tue scuse mai pronunciate, prima ancora di cadere
al suolo non adatta al ruolo, prima di morire sedotta dalla luce che mi ha
tradita, cieca e sorda ho leccato parole come latte dalle tue dita, prima che
fosse davvero finita, ho leccato parole come latte dalle tue dita.

Eloisa Guidarelli
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