Il peso del volo - Eloisa Guidarelli
Ci sono persone che anche nell’atto di dare riescono
a fare un’autocelebrazione di se stessi, di queste persone mi sono spogliata in
fretta. In verità non ho mai avuto corpo, ero sempre e solo un’anima in un
cappotto troppo largo. Un volto proiettato al finestrino del treno, in un
viaggio a ritroso di tempo sospeso, ma come fai a parlare di razza, non senti
questo vuoto che ti rimbalza in faccia, quando dici cazzate controvento, senza
senso. E bocche stravolte come maschere sciolte scivolavano ai piedi degli
stivali bagnati come di ideali evaporati. Sento che devo deglutire per
compensare, quando passo attraverso le gallerie di questo divenire. E pareva
ieri, volto rivolto al sole, l’energia che sale dai piedi, palmi affacciati al
vento, che strazio questo malcontento, nelle braccia che fendevano l’aria, come
ali, con quel buco all’altezza del petto da dove poteva vedersi tutto, tutto
quello che non avresti detto. Ti tendevi come un arco, da quell’oblò di marmo
al posto del tuo cuore, lo sguardo spaziava altrove e non sembrava più dolore,
perché c’era odore di rosmarino, viole selvatiche, dove il sangue si faceva
assorbire dalla terra, non si percepiva la guerra. C’erano statue regine tra le
rovine, e la tragedia era lì presente ma come opera d’arte, la tua ammirazione
era l’unica opinione e andava solo soppesata dal vento, sterilizzata nel sole.
Trascurabile come una lucertola, parte della catena alimentare, essere questo
non è affatto male, pesa molto di più farsi accettare. A quel punto dinamiche
dilanianti sono unghie contro il vetro, un fastidio costante, ma puoi andartene
via. Puoi decidere che non solo non te ne frega niente di una promozione, di
una posizione, ma sarebbe anzi un grande favore una volta tanto non farsi
piacere, godere e farne un fatto d’orgoglio di non essere accolta in un certo
cerchio, sai che ti dico, la tua chiusura in me è l’infinito. E mentre tu
spifferavi tutto alla polizia condendo ogni bugia con la perversione della tua
fantasia, e pensavi a disegnarmi un vestitino di invidia e pettegolezzo,
indovinando quello che non avrei mai detto, ne’ forse pensato, qualcosa di
immenso mi ha attraversato tra colonne cadute di un tempio che fu, dove tu eri
polvere e collera fatta di sabbia del deserto che lambiva a tempo perso dune,
il tuo abito leggero si gonfiava lento col vento e scivolava sinuoso come
serpe. Ma nessuna tentazione hai portato e nessuno ti ha schiacciato la testa.
Era già il concetto di peccato così sbagliato che un Dio giusto sconcertato, ti
ha concesso di evaporare altrove con movimento sinusoidale. E quello che mi
aveva ferita, tradita, come piuma scendeva tracciando eliche lente, in un
oceano che non sente, neppure se appoggi la conchiglia all’orecchio. Però lo
potevo guardare l’inquinamento spandersi come olio dai colori metallizzati,
traslucidi come madreperla, ennesima sberla a un paradiso che ci siamo giocato
più che perduto, e con questo ti saluto. Crepe e erba divoravano il marmo,
avvolgevano l’espressione, dando al paesaggio qualcosa di vero, e di superiore.
E pareva ieri in una risata di scherno, finiva l’eterno. E pareva ieri dove
l’amore aveva un sapore e un odore, per l’infanzia concessa, arresa in un filo
di voce, una domanda mai fatta sostata nel solco lacrimale, una piccola oasi di
sale che sale, arrestata nel pugno vuoto di un volto bambino fuori luogo, dove
una mano di vento spettinava la tua meraviglia, nel salto del tempo, dopo
averti preso per i polsi e sollevato le gambe, in una vita distante, tra madre
e padre, a dondolare su giochi e ideali, e ti sei osservata mai, come un vicino
distratto, mentre con il massimo tatto ti spazzavi i piedi su una malinconia
nuova, infilando con disincanto le chiavi alla porta di casa, concedendoti solo
un momento di assenza, di corpo senza peso, di serrature e minuti, saluti che
hanno una forma, ne percepisco la pressione alla schiena, di quelle dita sento
il peso lasciato dalle impronte digitali. Prendetevi anche le mie, vi lascio
questa scarsa identità, di solchi di pelle, che dicano qualcosa di certo e corretto al posto mio, che tanto cosa
c’entro con questo, banale macchia d’inchiostro su foglio bianco nient’altro,
che lascia soddisfatta la burocrazia, che possa archiviarsi il documento della
nausea che mi sale dentro, il calore e la spinta leggera, quella tua mano che osava
sfiorare, scapole distanti da cadute ali. Ho seguito l’odore che lascia il
mare, e mi sono trovata su spiagge isolate, lasciato che i piedi si
allacciassero all’acqua in allegre frustate e che la vita in un minuto mi
raccontasse il senso e io a testa bassa ho dato il consenso a dividermi in
molecole a diventare il resto, quello che gli occhi colgono, quello che pesto,
quello che mi entra nelle narici e mi esce quello che dici. Come acqua fatta di
sabbia e avanzi di mare, spinta dall’onda, dentro le gambe lasciate allargate,
come condotti, come argini, come porti e scogli, potrei guardare il movimento
che si ripete uguale, rassicurante, mentre si appresta lento un senso “eterno”,
scavalcarmi piedi e cosce e ritrarsi, osservare la schiuma, la sabbia che si stira,
pigramente, capire che ho poggiato le gambe su qualcosa di metafisico,
sull’equatore, su un concetto che deve nascere ancora, sull’idea stessa
dell’esistenza che si ritrae e si riposa, e cosa sono? Bassa e alta marea.
Movimento. Idea. Paesaggio. Passaggio. Momento. Anche qualcosa di infinito,
nelle labbra segnate dal sole, sospese come scale, puoi salire e puoi guardare.
Rimane un pensiero, galleggia nell’aria come bolla di sapone, l’infinito è
qualcosa che sta nell’istante, una presa per il culo abbondante sulla nostra
rassicurazione di un “per sempre” che esiste solo quando si sente e in genera
dura quasi niente. L’infinito dura quasi niente, l’immortalità è fatta di tante
piccole morti e rinascite, atti di respiro, una tachicardia del tempo che abbiamo
gestito con metronomi e pallottolieri su qualcosa di astratto e indivisibile
come i pensieri. Ci siamo da sempre creati un Terrore, diviso in minuti,
scandito in ore, se il tempo non lo avessimo contato mai, non ci saremo
ammalati dentro, non avremmo vissuta una vita parallela, dove finire alla
deriva, come tante clessidre, che si guardano il ventre con orrore, “oddio
tutta la sabbia che ho dentro sta per finire”. E a maledire, interiora e
progetti abbozzati, quando c’è una bocca che si spalanca con fauci immense alle
nostre spalle, sulla nostra personale danza, batte i denti nel vuoto, e noi a
correre via, come cartoni animati dalla fantasia, a gettarsi nel tratto tra due
burroni, con coraggio e carica ai neuroni, e poi a cadere come coglioni dopo avere
guardato giù. Siamo sempre noi, sei sempre tu. Fino a che questo fosse il modo
giusto per morire, non lo sapevo più, non lo riuscivo più a dire. E l’avresti
mai detto o anche solo sognato che questo broncio d’adolescente frustrato,
avesse un giorno, raccolto il seme che hai seminato e se ne fosse armato. Ah,
che sorpresa perché… a forza di essere il tuo contrario, ero proprio te. Ma
valli a capire i momenti, i momenti non dovrebbero essere misurati ma sentiti e
assorbiti e per questo non vanno contati, quando assaggi un dolce, ne senti il
sapore, o conti quanti canditi e nocciole? O in quanto tempo esatto lo finisci?
C’è il tempo, è un numero soltanto, è matematica e precisione, è ciò che torna.
Affermazione. Rassicurazione. Anticipazione. Sudorazione. Conto alla rovescia.
Dannazione. Soluzione. Prigione. E poi c’è come ti percepisci anche in un solo
istante ed è un’altra cosa, meno allarmante, meno costante, neppure esattamente
previsto, ma guarda adesso ero proprio questo. Ne ho colto il riflesso, è bastato
poggiare le dita e mi sono sentita. Catapultata in un ricordo, scivolata al suo
interno, digerita e assimilata e sputata disorientata, tra odori che riconosco
davvero, sono il mio stesso pensiero. Come una magia però nella realtà. E non
capisco più che differenza fa. Ho bisogno di creare distanze immense dalla mia
stessa identità, per fare meglio parte del tutto, per cercarmi poi in ogni
anfratto, raccogliere pezzo per pezzo e farne una pioggia di coriandoli da
indossare gettandomeli sul capo, mi scendono ora in modo perfetto. Mangia di me
la parte migliore, io di certo sono gli avanzi nel piatto. Il rifiuto preciso e
ordinato a lato, la posata con l’inclinazione giusta, risposta subliminale,
puoi portare via tutto. Ce ne potremmo anche andare. Ora. Lascio per sempre
tavole imbandite di niente, concetti sotto sale, insicurezze vestite
elegantemente come apparenze, lascio, ora e per sempre, un posto che non mi
appartiene, che non intendo scaldare, lascio questo impaccio, questo imbarazzo
per essere dove non dovrei, per avere tradito me stessa, ho ideali che mi
tirano il vestito, scusate ho sbagliato festa, ora è tutto finito. Credevo si
potesse bleffare un momento, ma soffoco dentro, credevo di essere strategica,
pragmatica, pratica, di gestirmi una dilatata e rarefatta accoglienza di
convenienza, ma la rabbia di me non può
fare senza. E in genere capita che rovino le feste. Ho indossato tutto quello
che mi hanno detto, in faccia e di spalle, soluzioni, verità e balle, ho
scostato un poco le spalle e ho fatto scivolare l’abito elegante ai piedi, mi
sono infilata una canottiera, troppo ampia per la mia taglia, troppo corta per
farne un vestito, a piedi nudi, ho ballato fino a farmi male, di espressioni
trattenute, di domande da non fare, di risposte finite come colpi di ciglia
sulle sopracciglia perfette della tua meraviglia, poi ho allungato le braccia e
mi ci sono tuffata, le ultime cose che ho sentito dirmi sono finite nel mio
colpo di coda, le ultime tue carezze mi sono scivolate come l’acqua sulle
guance, quando un sipario apre lentamente le tende, come piccole onde, solo un
passaggio di corrente, una rincorsa di brezza e vento, è quello che sento,
adesso, di mani, promesse, legami, gesti, passaggi, miraggi, atti. Fino in
fondo, ecco l’apnea, non sento più nulla, qualcosa mi culla, inarco la schiena,
sfiora il seno la T di fine vasca, il tempo di risalire, di buttare fuori aria,
spalancare gli occhi a un cielo di cemento, rimanere braccia a croce, il cuore
batte veloce e ho gocce d’acqua sulla pelle tonde e trasparenti come coccinelle
scendermi lente, negli occhi, sulle labbra viola, sostituiscono ogni parola e
si può concedersi di essere solo respiro e acqua che abbraccia, che evapora,
che ti lascia scivolando come bava di lumaca una scia bagnata, come una strada
dopo la pioggia, come la neve sciolta, come pozzanghera e trasparenze. Giudizi sono solo cerchi
concentrici e uguali che si dilatano con indifferenza, il gioco di sassi
lanciati sull’acqua , gesti mirati a stupire o a scavalcare un momento di
silenzio, che riassorbirà tutto questo, l’acqua ricoprirà il foro, come il
proiettile non fosse esistito. Forse l’hai immaginato, forse non l’ho proprio
sentito. E non si vede ciò che si vede ma ciò che si sente. La tua pelle
attraverso una finestra. Cammino in una città senza nome né tempo, in un
deserto al contempo, in una folla indiscriminata, sento la calma piatta, e la
guerra levitare come un dolce nel forno, e una popolazione appiccicata al
timer, ansiosa di quando sarà tutto pronto.
La vita mi passa tutta attraverso c’è qualcosa di diverso, di immenso,
per il quale nulla fa troppo male, un concetto di sopravvivenza che si basa
sull’ assenza di sé, sul tenersi per mano da lontano, e lascio che una parte di
me faccia esperienza daccapo di tutto, non voglio sapere chi sono, appartengo a
qualcosa di impercettibile persino a me stessa
e mi attraversa la calma, ho bisogno di osservare, di capire meglio, di
mettermi in un angolo e non prendere di petto la vita, o almeno sfruttare
meglio il vento. So solo che non mi accontento, che non mi adeguo, che sono
l’esterno di quello che vedo, che sono l’ambiente, sono fatta di clorofilla al
momento, cerco la luce e l’acqua ho vaghi ricordi di polpastrelli, che mi
spostano le foglie, non sono più mie le fughe, osservo predatori, muoversi
all’attacco, spostarmi i capelli, urtarmi di lato, scavalcarmi del tutto e di
questo mi rimane appiccicata addosso un’adrenalina che non riconosco. Prede si
riparano nel folto del bosco, non siamo altro che questo, e questo mi riempie,
mi dà orientamento, non cerco di piacere, non mi interessa essere accolta,
accettata, sento meglio le piante dei miei piedi quando cammino sola. Il
rifiuto non mi offende, l’amore mi può trattenere e questo lo posso temere. Il
clima è qualcosa che mi scalda e mi raffredda la pelle, la sopravvivenza è
ribelle. Non c’è più posto in questa gara inadeguata, dove non trova spazio il
mio sogno, né la mia risata, preferisco sentirmi colma fino in fondo di quegli
ideali che della mia casa, della mia esistenza e di ogni mia scusa per esistere
fanno il mondo. Un mondo intero e rotondo, una famiglia non di sangue ma di
ogni colore, scelta col cuore, una famiglia allargata da continente a
continente, che posso raggiungere sempre, senza passaporto e che il razzismo o
il confine, o la paura dell’altro divenissero sottili ragnatele che posso
spostare delicatamente dalla tua fronte come un capello, che possa dirti “cosa
credevi che fosse?” Il confine, mentale, fammelo spostare, fammi vedere, se fa
davvero male, lascia che lo possa toccare, come qualcosa che ti è finito negli
occhi, te lo cavo, ora forse puoi vedere più chiaro.
Non lo voglio solo immaginare questo mondo, lo
voglio fare, lentamente con chi mi sente, accontentandomi di piccole cose,
coltivandole come rose, come giardini che schiudono fiori ai cuori più veri e
coraggiosi. Si allacciassero radici come mani sotto terra in risposta immensa e
dura a ogni guerra, e si innalzassero tronchi pesanti, su cui potere leggere
migliaia di anni, fino a sentirci così imbecilli e in questo uguali, a coprire
ogni metro, ogni spazio sospeso, di quel cielo di piombo, a cui hanno tolto
ossigeno, per un atto di potenza, che non può avere a che fare con nessuna
ragione al mondo. E rami come mani arrestassero bombe cadute, impedendo che tocchino
terra, che diventino strage e guerra. Che bombe e offese rimanessero sospese,
come parole arrestate nelle gole. Fronde e frutti colmi a guardare il cielo,
fitti che non filtri un solo pensiero, fitti che l’uomo non può attraversare,
ma solo alzare il capo e guardare, e sentirsi piccolo e capire che al mondo la
natura governa da un tempo profondo senza avere mai deluso nessuno, con la sua
forza e il suo profumo, perché promesse non ne ha mai fatte ma ha accolto tutte
le persone che dividi in razze, non ha segnato
terre e confini, non ci ha dotati di passaporti, non siamo usciti così
dalle vagine, siamo usciti tutti più o meno piangendo, con un senso di
soffocamento, che spesso mi prende ancora, tutti siamo usciti da gambe aperte
come scoperte sulla stessa terra, e tutti siamo responsabili di ogni guerra, e
che fosse una madre dalla pelle colore della notte o dalla pelle di luna, aveva
per noi lo stesso amore e la stessa paura, solo non la stessa fortuna, ecco
perché ogni guerra, ogni respingimento del mondo a chi sta andando affondo è
una grande bestemmia sulla vita tradita, è una vergogna talmente infinita, che
mi sento cadere le ginocchia, mi sento sciogliere le ossa e mi monta una
rabbia, un senso di impotenza, una tale incoerenza morire circondati di colore,
nelle acque turchesi, negli odori, non arrivare mai in tempo, non arrivare mai
in tempo. E non siamo in tempo neppure sulla nostra vita, da tanto l’abbiamo
tradita, pensando che ci sarebbe bastato il nostro piccolo giardino curato,
privato, non calpestare le aiuole, non
mi basta, non mi è bastato mai, senza di loro non sento di essere noi, c’è una
famiglia di sangue e di feste e c’è una famiglia che sceglie il tuo cuore, la
mia famiglia è su tutte le rive, negli occhi di tutte le vite respinte, oltraggiate,
derise, in corpi fatti a pezzi da pregiudizi e preconcetti, la mia famiglia è
sparsa ovunque, e questo è un fatto, coerenza con quello che sento, che mi
nasce e mi cresce dentro, devo potere guardarmi allo specchio, quello che sono,
quello che ero, e dirmi adesso, solo adesso mi vedo. E questo non è un percorso
dove un cuore passa illeso.

Eloisa Guidarelli
Foto Andrea Moretti
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