Linda - Foto Eloisa Guidarelli |
domenica 19 luglio 2015
Never Again - Part nine
domenica 5 luglio 2015
Se fossi
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Eloisa Guidarelli Foto M.M |
Se fossi
Catapultata in un’estate Corsa, avvolta dall’erba di
macchia, con il frinire delle cicale, che vorrei mi riempisse anche il cuore e
che l’anima diventasse un suono ripetitivo e uguale, dove potere dormire, dove
potere restare. Stavo così, dietro un vestito da sera che mi superava di dieci
dita l’ombelico, per il resto passavo la giornata nel campo nudista, distesa
come offesa a una morale che si allontanava come spettro nel mare, quella
morale piatta come le onde, dove la gente si confonde, che ha una piega
rassicurante, cade elegante e composta, cade austera, rigida e risoluta. Priva
di carne e di ossa.
Io ero tra tante senza costume a godermi
un’abbronzatura di sguardi ruminanti, occhieggiare pigri, nulla di erotico,
quando sei nuda sotto il sole a tutte le ore, circondata da gente nuda, nuda a
scrivere, nuda a leggere, nuda a parlare, quando volevo provocare mi andavo a
vestire, così potevano di nuovo guardarmi male. Tanto per non stare alle
regole. Il giorno tutti nudi distesi, la sera tutti vestiti e segreti, la gente
si lancia occhiate lascive, immagina con quell’erotismo pigro e limitato,
sguardo in tralice, tangente a pezzi di nudo, a tracce di pelle, trasparenze,
un capezzolo duro, ma sono brani di luce raccolti senza eccessivi sforzi, dopo
il bar, dopo un gelato, con tutto questo caldo! Una masturbazione light, senza
pretese, si cerca di intravedere quello che hai sotto il vestito, avuto sotto
gli occhi per l’intero pomeriggio, pomeriggio finito. L’uomo ha bisogno di non
vedere per desiderare, perché vedere non è immaginare, serviva la notte per
trasformare animali al pascolo in bestie disposte a sbranare, per vedere la
trasformazione sotto la luna di una persona, e si liberavano desideri. Tanti
tavolini bianchi, vestiti da sera, scarpe, tacchi, musica e profumi, i corpi
vestiti a dissipare bugie lente che ti avvolgevano dalle gambe alla mente.
Strane notti artefatte, dalle quali volevi prendere distanza, o attraversarle
in fretta, con la sensazione che occhi fossero mani aggrappate ai vestiti, con
la netta sensazione di essere preda e parte di una enorme bolla di sapone, di
un teatro sul mare dove non si è, dove si appare. Ero quello che non ti seduce,
il cappello di paglia sul pube, ero l’ironia del sesso, e non ero innamorata,
ero un panorama d’insieme guardato senza catene, ero la libertà additata come
strega, quando questa se ne frega, ero l’albicocca che la tartaruga ti
strappava a morsi dalle mani, e poi ero il suo collo antico che deglutiva, e
poi ero la tua schiena nuda, mentre mi davi le spalle, le mani dell’alba che ti
poteva toccare, l’odore di rosmarino, e poi ero sandali pieni di polvere che
disegnavano semicerchi, mondi aperti e sepolti, insenature, golfi, soste nei
porti, dove le partenze sono i ritorni, e poi ero disperazione sopra ogni ragione
e dettaglio perché non ero io, ero sempre l’altro. Posavo lo sguardo che volava
da una parte all’altra come farfalla seguendo i tuoi gesti, con distacco. E
devo averti detto in un inglese indeciso, che il mondo stava soffrendo e stavo
soffrendo anch’io. Mi scendevano lacrime, che tagliavano le guance cotte da
giornate di sole, attraversavano lentiggini scomposte, come un fiume che scorre
su ombre di sassi, come ricci la notte, percorrevano veloci tratti, non privi
di rischi, code di pesci erano pensieri che correvano a nascondersi nel fondo
fangoso, sotto pietre rotonde, avevo sponde per arginarli, e guidare gocce
parallele come binari a sfiorare labbra offese e ferme, bagnarsi agli angoli.
Lo sguardo al soffitto, la disperazione totale, piena, pesante, caduta addosso
senza preavviso, come cala di colpo una zanzariera in estate. Forse il giorno
dopo sarei stata estremamente felice, perché è naturale, spesso la gioia più
forte è disperazione totale. E’ la capacità di toccare le sponde opposte,
cercare le stesse risposte. E tu che non conoscevi bene l’italiano mi hai
risposto nello stesso inglese strano: “Dovresti leggere Sartre” Non ho mai
desiderato tanto parlare in francese come in quel momento, non per poterti
davvero capire, per poterti mandare a cagare, perché odiavo litigare in
inglese, io stessa non ne capivo le offese. Ma Sartre, consigliarmi Sartre in
quel momento, era la spinta che occorreva a un suicida che contemplava il
vuoto, come un volo nuovo, e cosa avremmo potuto fare io e Sartre se non volare
abbracciati volteggiando in sensazioni uguali separate da generazioni,
ricongiunte per sprofondare nello stesso abisso. Nelle stesse domande umane,
volte ad arrovellarsi la coscienza fino a sminuzzarla come scienza, senza
trovare antidoto migliore, al tempo, alle ore, al sano disprezzo umano, a
osservare un sogno che quando muore non fa rumore, come il dolore. Cosa poteva
dirmi Sartre? Che già non mi scivolasse davanti allo sguardo, lentamente, come
molliche di pane gettate nel fondo del mare,
luci fioche e bianche che lente finisce per inglobare, cosa sarebbe
cambiato del fatto che bocche di pesce avrebbero chiuso di scatto quel gesto in
un atto, e avrei dovuto trovare altro per anestetizzare lo sguardo, dopo il
sipario. Fare scorrere i pensieri, e trovarmi daccapo in percorsi inesplorati,
dove avrei camminato con certezza ma senza direzioni, per muovere le gambe,
strusciare i talloni, quali intenzioni avevo verso quella giornata, di
incontrarti per caso, di fuggire da ogni casa, di entrarci solo come una ladra,
e cosa poteva dirmi di questo tempo dilatato, di queste immagini in
dissolvenza, lenta e logorante come la speranza, come una preghiera atea e
sincera, per un Dio fuori da una chiesa, per un Dio in esilio, offeso e perso
nel deserto del suo abbaglio. Per un Dio in punizione umiliato dietro a una
lavagna, perché questa vergogna non è intelligenza. Per un Dio venduto ai
mercenari, per un Dio clandestino, arrivato a piedi sull’acqua, superato il
confino. E perché me lo avevi proposto come si dà un’aspirina a una che ha la
febbre: “sto male”, “leggi Sartre!” Ti avrei forse risposto, quando avevi
voglia di fare l’amore, leggi Catullo? Avrei potuto farmi scivolare la
scrittura in gola, con tutta quella paura, ingoiarmi la vita di uno scrittore e
aspettare il tempo esatto, che mi facesse effetto. Anche se è educativo non
conoscere le lingue, si torna animali, si parla attraverso i gesti e si
traducono istinti in personalissimi atti verbali. Potevo semplicemente
appoggiare la testa sopra il tuo petto ed era perfetto che tu non capissi un
cazzo. Assolutamente perfetto. La tua
intelligenza non mi avrebbe riguardato affatto, come donna poi il fatto che non
parlassi era l’incarnazione del sogno del maschio. Ma sì, sono certa che l’uomo
alla donna è inferiore, lo vorrei dire senza offesa, senza sessuale
competizione, solo per prenderne atto, come che oggi è caldo, come che
governano sempre teste di cazzo, è il vostro sesso, che vi ha ubriacato di
potere, vi appanna lo sguardo, un ego stracolmo, la vostra mente non formula
ragione, formula erezione. Potevo fare l’amore solo cominciando, e capire
miliardi di cose non dette molto più precise e perfette, intuire intenzioni, e
piccoli gesti, atti, sguardi, come tante costellazioni, osservarti come si
osserva un cielo nero, con diamanti gettati a caso. Traiettorie di stelle
cadenti. Senti. Se potessimo parlarci con facilità saremmo qui a scegliere le
parole, a tentare di passare una qualche censura, a mentirci per paura, ad
essere scaltri, poi essere altri. Invece a cosa serve. Quando abbiamo questo
unico linguaggio universale, che sa cosa dire
e cosa tacere, cos’è naturale. Trovarsi senza appuntamenti, trascinarsi
lenti, uscire da una porta senza salutare, rientrare senza appuntamento, avrei
un calendario perfetto dentro, delle giornate spese, in fughe dai miei
appuntamenti, amo non essere presente a me stessa, stupirmi a fare del caso un qualcosa di ordinario a
cui si fa caso per sbaglio. Se divento solo odore, se divento solo rumore, versi, corteccia e polvere e sassi e vento,
il mondo non mi può toccare, il dolore non mi può arrivare, come passa sulla
terra quando l’attraversa. Che mi spalanchi come una finestra aperta, che danzi come il vento con le pieghe di una
gonna, che si gonfia, che si apre, che sale, come medusa dal mare, dove si esce
e dove si entra, che sia mare mosso tra gli scogli, acqua implacabile sotto i
ponti. Tanto sarei pura assenza, che mi sbatta come una porta, da dove si fugge
o da dove si origlia, che mi trattenga come un segreto o che mi sputtani
ridendomi dietro, che mi sospenda in alto come un mulino di foglie, che mi
trattenga sulle labbra, esitante come le voglie, se fossi solo il frinire delle
cicale non sentirei il male. Se fossi qualcosa di ripetitivo e di costante, un
rumore rassicurante a uguali cadenze, se potessi con questo invadere la mente.
Lasciare un biglietto al dolore di turno “Torno subito” , il tempo di
prepararmi al male, di indossare l’armatura, di fare della paura un fatto
d’orgoglio, il tempo di deglutire, di un amore sepolto e mai dimenticato che si
porta come il fato nello sguardo. “Questa malinconia che hai negli occhi la
sento” “E’ il cuore spezzato che ci galleggia dentro” Se fossi un metronomo
nuovo sull’orrore che provo. Ritmo e nient’altro. Tempo e vuoto. E così mettermi
a guardare. E’ liberatorio non capire, ancora di più non impegnarsi a farlo,
traduzione simultanea dallo sguardo, e tradurre malamente un inglese a nostro
desiderio e vantaggio, comprendo di te esattamente l’idea che voglio farmi, ti
impongo proiezioni, e sì forse volevi dire così, che rassicurazione, la
comunicazione al di là della comprensione è sempre stata a una via, la tua o la
mia. Si parla al proprio specchio, l’occhio ci aggiusta per difetto, anche
mancasse una parte del tuo viso, una linea del profilo, nella mia mente sta
l’immagine capovolta e risolta. Non c’è un cazzo da fare siamo sempre noi
quelli da amare, cerchiamo nell’altro una sorta di “viaggio”, qualcosa che
faccia funzionare bene il nostro meccanismo interiore. Forse ci dobbiamo solo
sintonizzare, forse ci manca campo e ci accostiamo ad un altro, “scusa non
prendo bene me stesso, devo capire se con te ci riesco” “E’ perfetto accanto a
lui vedo la mia pornografia” Pensare che da solo non ci potevo arrivare, devo
regolare l’antenna e captare. Riesco a rintracciare le mie reti proibite, che
vanno a rincorrersi nelle tarde ore, le cose di me vietate ai maggiorenni,
quelle censurate ai mondi interiori, quelle nel fondo nero che intravedo, più
nero del vestito che di dieci dita supera il mio ombelico, più nero degli occhi
di Al Pacino, della paura di un bambino, più nero della fine di un amore, del
dolore al petto che porta un odore, più nero del desiderio che si espone
beffardo allo sguardo di un altro, più nero di questa giornata, più nero di una
notte priva di stelle, più nero di una donna che cavalca la faccia della luna a
gambe aperte, più nero delle tua barba, più nero dell’impotenza, più nero del
desiderio sospeso all’attesa, più nero dell’inconsistenza della resa, più nero
dell’odio, più nero della rabbia, più nero della ribellione, di un pipistrello,
più nero di un pendolo davanti al tuo sguardo catturato in ritardo, più nero
dello smalto alle dita dei piedi, di un tatuaggio sul finire della schiena,
come una porta oscena, più nero di quello che vedi, più nero del segreto, più
nero del rimorso, più nero della tua ragione quando per il mondo è torto, più
nero di una condanna, di una confessione, più nero di un affitto, più nero di
un lutto, più nero della vertigine di un orgasmo, più nero di questa morte e
assoluzione in ritardo, più nero della morale…che male. Più nero del ricatto,
di un pignoramento, di uno sbarco, di un solo momento, di un tradimento, della
pena di morte, dei perduti diritti, di quelli che stanno zitti. Più nero dell’omertà,
più nero di ogni età. La tua lingua
francese e il suo suono sulla pelle sono quello che occorre per il presente. E
la vita non è altro che questo, qualcosa che comincia e finisce da adesso. Se
capissi il tuo francese non sarebbe così affascinante starti accanto, si ama
davvero solo chi ci è il più possibile sconosciuto, si ama la possibilità, non
la realtà, e poi è la solita storia si ama soltanto noi, e solo per una volta,
del resto presto ci stanchiamo, appena ci riconosciamo. Nell’altro. A volte
l’amore mi sembra un granchio senza sosta di quelli che cercano la conchiglia
giusta, ma non per capirla, per abitarla. Noi l’altro non lo capiamo, ci
abitiamo e ci abituiamo, gli entriamo dentro poggiando le chiavi dove
d’abitudine lo facciamo, ci accomodiamo. E’ nostro, e ci stupiamo quando
qualcosa non va per il verso giusto, la nostra casa ci ha sbattuto fuori, privi
di tutto. E dire che noi non facevamo che entrare, buttarci sul divano,
lanciare via le scarpe. Merda, tutto
quello che ero l’ho lasciato chiuso là. Riapri la porta rivoglio me stesso, in
mano ad avvocati quello che siamo stati, fogli, conti in banca, siamo stati
tutto quello che manca. La mia immagine della vita è un cinema all’aperto su
sedie scomode, una condivisione totale
senza che nessuno si possa ferire, ma potersi sentire. L’amore finito in
una birra raccontato a un sordo una sera come un’altra, senza troppa
meraviglia. Abbiamo fatto di noi stessi una proprietà, e abbiamo amato per
incapacità, per incapacità di vederci davvero chiaro in quello che siamo. Non è
cinismo, sono pratica, tangibile, sono dentro quello che sento, una volta tanto
senza danno. Chi cazzo l’ha chiesto di nascere, non è che quando sei un
embrione ti fanno sedere e ti fanno sapere una serie di cose, ma poi qualcuno
di noi, ricorda il momento esatto nel quale ha compreso la grande fregatura,
ovvero che poi arriva la morte, e quella è niente, è il vivere con quella
paura. Lo si sa da bambini, vero, ma a quale età? Vorrei sentire tutte le
risposte, le vostre. Come ve lo hanno spiegato la prima volta, come lo avete
capito? E come ci siete rimasti, rimasti davvero in quello che dico. Certo per
i credenti ci sono gli appetizzanti della vita, si fa schifo l’idea, ma te la
rendo più saporita, se ti spiego che in realtà c’è un’altra possibilità, siamo
di passaggio soltanto, e dovrebbe rassicurarmi questa passeggiata del cazzo? In
cui ho il tempo di inglobarmi di merda, di vivermi ogni tipo di lutto, prima di
lasciare tutto. Anche la reincarnazione, spiegata per sommi capi, può lasciare
obiezioni, perché fondamentalmente la qualità della tua vita dipende da quanto
sei stato coglione in quella precedente… Non so se sia peggio immaginare una
vita davvero finita, che tante vite da cui ricominciare, in un eterno soffrire,
senza memoria di un infinito morire. Le religioni superano ogni lettura
fantasy. Aggiungerei anche ogni film dell’orrore, il fatto che poi ci siano
servite e ancora ci servano per fare ogni sorta di strage, deve essere che non
siamo delle cime nella traduzione, o il male che possono fare libri di un certo
spessore anche letterario nelle mani sbagliate. E se invece non si vuole cadere
in queste ingenuità, si sa, uccidere nel nome di un altro fa una certa
comodità. Se poi questo è Dio, chi paga al posto suo? Come lo possiamo sbattere
dentro, non è bastato neppure crocifiggere il figlio, anche la vendetta
trasversale è andata male. Ma quale mente di lucida perversità umana ha creato
le religioni, chi si è messo lì a spiegarci che è così, esattamente così. Oh
beh le trascrizioni, i monaci amanuensi, e questo è un logico motivo per
credere vero tutto quello che scrivo? Perché è passato nel tempo? Una bugia a
fuoco lento. Si apre un campo pericoloso e qui apro e qui chiudo. Passo. E
comunque se poi siete atei la vita è dura, per gli atei non c’è censura alla
morte, per gli atei si aprono le porte e neppure quelle di confessioni segrete,
a noi non ci resuscita il prete, noi con i peccati “mai guai”, non ce ne
liberiamo mai, noi siamo tanti Don Chisciotte dalle ginocchia rotte, nella
testa ci ha invaso il vento turbinando dentro da tempo, noi ce la viviamo da
eroi, un’altra vita? Giammai! Ma quando muori dove vai? Polvere, cenere,
memoria, prodezze, passare d’orgoglio alla storia, diventare immortali nei
fatti, altro che c…i!
Ma tornando alla prima domanda, io non me lo ricordo
quando e a quale età l’ho compreso che c’è una fine per tutto, e la cosa più
sconvolgente è che la tua maglietta sopravviverà a te stesso, che le cose, gli oggetti, le case e i sassi che
getti, quasi tutto quello che tocchi, ti batte nel tempo. Non lo so cosa sento.
Cos’è una voce in segreteria, quando siamo morti, per chi la sente, “al momento
sono assente” per sempre? Perché se faccio il tuo numero non mi rispondi? E
questo, solo questo, può portare alla pazzia, non quello che se ne è andato
via, ma la sua voce che puoi risentire per ore, il respiro, le pause, il fatto
che dice che ritorna più tardi. E vestiti e scarpe, tracce di guerre, di passi,
di voli bassi. Cos’è l’odore che rimane, quale stregoneria ci appare, un
filmato, una fotografia, il non esistere più, il non potermi sentire, quali
occhi guarderanno il mondo se non lo guardo io a modo mio, io che da sempre
vedo da qua dentro e osservo, registro, sento. Questa mia vita che può
andarsene dal corpo dopo avere tanto esplorato, ventimila leghe sotto i mari
distante da me, dopo tutti questi abissi svelati. Impossibile concepirci come
nulla. Dovremmo essere tutti in manicomio per questa aberrazione, non c’è
tortura studiata con più attenzione, eppure riusciamo persino ad essere felici,
felici!! Euforici, riusciamo a sentire l’eternità in un minuto, in un odore, in
un sapore, perché ce ne dimentichiamo… No, forse non è così, non si dimentica
davvero una condanna tale, poi ci aiuta vedere la morte come persona e nemica,
è una sciocchezza, il dolore non è nella morte è nella vita. La morte è
quell’antica presenza di quando noi eravamo assenza, quando non avevamo nome e
neppure un’idea, o un progetto di vita o anche una sfiga, non mi sento il
proseguimento di mia madre o di mio padre, ma piuttosto un povero individuo
nato da mancanza di preservativo, o qualcosa di andato storto in un rapporto
che comunque valeva la pena l’orgasmo, se c’è stato, perché in caso contrario,
già la vedrei più dura, intendo una bella fregatura. Non so se sono figlia del
piacere, o della noia da morire, non cambia nulla, sono qui, per vivere e
morire. Non mi fa più romantica la vita se mi dicono “sei stata desiderata”.
Non mi hanno comunque interpellata, nasci come desiderio altrui. Prima di
essere solo l’invito in uno sguardo, e forse più consistenti e duraturi, come
gli oggetti, come i muri. E’ un peccato che ci siamo evoluti, allo stato di
scimmie eravamo perfette, di questo mondo salverei ogni forma di vita esclusa
la nostra, questo in tutta sincera risposta, alle qui sopra elucubrazioni, poi
ci ritroviamo questo sentimento “l’amore”, l’unico aspetto immortale, e infatti
non lo sappiamo gestire, noi stessi siamo vuoti a rendere, iniziati a finire…
Come si può capire l’amore, questa astrazione come la passione, che rivoluziona
dalle viscere al cervello, che quello che hai intorno rende magico e bello,
questa stupidità alata, questo sentire irriverente che riduce la tua
razionalità a niente. Che gioca a ruba bandiera con il “Non qui e adesso” perché non è una nostra decisione, e
voglio controllare tutto! Ne parlano di una malattia, dalla durata differente,
a seconda di come ci si sente, giorno per giorno fino a guarirne, la sua
guarigione spesso è quasi un decesso, anch’io sono guarita dall’amore ma prima
si muore. L’amore se è amore finisce con una morte, con un dolore, non c’è
pacca sulla spalla, condiscendenza, non esiste “rimaniamo amici”. Ti amavo, che
cazzo dici? Sono cose diametralmente differenti! E non credo che con il tempo
però… Il tempo non c’entra con l’amore. Non c’entra neppure col dolore, mette distanze, veramente? L’amore non si muove attraverso un tempo,
non è tempo, non dà tempo, non ha tempo, non si conta, non passa, non resta, è
dentro e poi non c’è più. Forse sei solo tu. Ma è davvero questa fregatura
infinita tutto questo senso della vita? Siamo noi stessi circondati da noi
stessi, siamo solo selfie? Che Dio fosse un sadico umorista? Oppure dopo avere
creato un mondo perfetto, si è detto adesso provo una cazzata, e per puro hobby
è nato l’uomo. E certo deve avere pensato “Minchia e adesso?” “Il danno è
fatto, lo metto a tempo, lo faccio finire, tutto sommato presto, e per esserne
certo, non fisso solo una data che sia, relativa all’anzianità, ci metto l’incidente,
la malattia, la catastrofe naturale, insomma più eventualità!” E che abbia poi aggiunto: “metto un ateo di
mezzo, ho bisogno di uno che mi remi contro, per par condicio, metto quest’uomo
senza dio, a rendere difficili le cose, qui come altrove e in lotta perenne con
se stesso, uno che finalmente non mi scongiura e mi prega, uno per dio che se
ne frega anche della maiuscola nel nome mio, di quello che sarà, uno che
si tormenterà però, nel dubbio che non
ci sia altro, anzi in questa certezza, sappia godersi la bellezza del presente
e mi renda orgoglioso di questa vita, che in fondo gli ho regalata, esattamente
come di una giornata iniziata e finita e mai garantita. Certo che scompiglio
fosse stato ateo mio figlio, diceva dio tra sé. E tu con quale religione addormenti le tue paure?
L’amore, l’amore si serve di minuti dilatati che
diventano ali, l’amore non ha paura della morte, forse ci assomiglia, l’amore
tutto si piglia e certo ci fa paura. Non ha alcuna premura di noi, di come ci
lascerà poi, l’amore, invade e attraversa. Neppure è eterno, neppure è per
sempre ma ha il potere che così ci si sente. E questo basta, anche solo nel
ricordo di avere percepito l’infinito nel tempo di un sorso. Che niente è
davvero legato al tempo, così relativo, su quello che sento e quello che
scrivo. E oggi ci hanno creato “Diari” i Social Network, e funzionano alla
perfezione, hanno un grande successo, lo hanno perché l’uomo ha bisogno di un
anestetico profondo, per muoversi nel mondo.
Eloisa Guidarelli |
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