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Foto-grafica Eloisa Guidarelli |
"Oltre" Acrilico su Osb - 2013 Eloisa Guidarelli |
Un momento di verità
Se un momento di morte dev’essere un momento di verità
pregherei questi sorrisi pieni di paura e falsa premura, queste maschere a
cappella dalla sconveniente postura su un letto di morte come su una culla, di
uscire di la’, non c’è eredità peggiore della fine dell’amore, se un momento in
cui appena distingui le ombre è un momento di verità, vorrei tornare a non
conoscere il sapore aspro di questa realtà, lasciate queste giostre di api e
orsetti sopra gli occhi innocenti di questi neonati benedetti a cui da subito
cominciamo a falsare il girotondo di un soffitto in movimento, “guarda non fa male… è un andamento regolare di
sapori e odori, ti ci puoi abituare, è un vento in senso orario di sorrisi e
ammiccamenti, ci vedi, ci senti? E’ anche musicale” E sia… una crescita
d’adolescente irregolare a ciondolare senza ragione per un portico lungo e
dalla prospettiva sbagliata come questa serata, con il rock più forte nelle
orecchie, ali nei talloni, la vita è un salto in alto in senso contrario, avevo
ragioni e collezionavo perdoni, ma nessun interesse a bussare alle porte con
scuse a testa bassa, tutto passa, anche la maleducazione, l’ostentazione
relative a un’età, un mix di adrenalina, di paura, di coraggio e remissione, di
oltraggio e educazione quando è già strategia, intanto ero soltanto mia, e
avevo Bukowski come confessore, con
l’ultimo coltello arrugginito piantato con
la destrezza di una gara di lancio ma prima soppesato tra le dita, la
lama come i piedi di un tuffatore che si molleggia per minuti intensi che sono
ore, poi il tuffo e la tua storia sospesa nell’aorta come meraviglia, sono
finita dal cielo all’asfalto. La definiscono maturità, quando ti senti un
insetto schiacciato di netto mentre ti stavi destreggiando in un volo perfetto,
provato ogni giorno, ogni minuto della tua vita, “guarda come volo, guarda
scendo in picchiata, posso volare creando anelli intorno al vino come un
moscerino”. Seccata. Qualcuno prova anche un po’ schifo perché come insetto non
sei un granché, ma io che vedo da quaggiù… “Sarai bello tu!” E le ultime
parole, finite sotto le tue ali, spiaccicata in un tavolo d’osteria… “Pensavo
d’essere solo mia” Sei stanca di giocare con il tuo entusiasmo a palla quando
non rimbalza, stanca di allacciarsi la censura come una cintura, come
quotidianità… Non sono guarita con l’età da un malcontento che mi avvolge le
ossa come fasce muscolari, e non ho ristretto il campo all’entusiasmo, che mi
prende di spalle come una doccia d’acqua gelata nell’estate afosa di un calendario
qualunque, sarei disposta a ballare con il secondino di turno nell’ultimo
corridoio che conduce all’esatta sentenza di un piano-sequenza che permetterà
ai miei occhi, alle mie labbra e ai miei passi, in definitiva di avere la
prospettiva esatta dell’evasione, e mentre la gioia mi assale, la vita si
assenta per deliberare. E tutto tace. Mi aderisce alla pelle, mi cuce le labbra
e mi restituisce colore e fantasia, roba mia, mi spetta di diritto, gioca con
questo soffitto di palpabili e soffici emozioni, e per il resto che sia
silenzio il tuo momento di lealtà. Nietzsche a proposito della ricerca della
verità sosteneva che fondamentalmente il punto è “quanto” siamo in grado di
sopportare la verità e “quale” verità, c’è un equilibrio leggero e discreto in
queste bugie strette d’assedio nella quotidianità, “oltre” cosa perciò? La
verità migliore è quella che si adegua alla comunità, al mostro grasso della
società, madre eterna che pensa e detta legge per te, siamo trasportati, siamo
amati, vestiti sempre per l’occasione e con una spinta alla schiena ogni
mattina ci accordiamo come strumenti musicali e parole in rima, fluiamo. “Hai
fatto merenda?” “Non nuotare hai appena mangiato”, “Non ti toccare è peccato”,
se vai molto indietro con questa registrazione di vita incasellata come un
alveare, dove sei disposto e alternato con il miele, modellato a cera d’api,
dove pensavi di sostare ma non puoi scappare, hai un cuccio dato di traverso,
uno scappellotto secco e duro perché hai le dita nel naso, non è bello, ne’ educato,
“Saluta”… e se non voglio salutare… questo bambino cresce male! Ma se nello
spazio di memoria vai improvvisamente avanti e salti trastulli e spazi
pubblicitari, ti trovi davanti a una realtà nuova, a quel giorno di prova, in
cui starà soltanto a te dire si, dire no e saperti spiegare il perché, viene il
giorno in cui una scelta sarà già un fatto di identità, e forse sarai la
persona più furba e leggera di questo mondo o magari sarai in quel fumo
irrisolto di lacrimogeni e paura, di rabbia come unica cosa sicura, di ideali
finiti nelle tue braccia cascanti, striscianti, dove le riserve delle tue
ultime energie spazzate via saranno disposte nel tuo corpo a croce, di un
cristo moderno ma sempre preso di scherno, perché un ideale è a volte un reato,
un sorriso può diventare offensivo, e se tiravi sampietrini con l’entusiasmo di
un figlio che sventola in alto un tema giusto e ben scritto, ora sei stato
portato da due poliziotti, uno per lato, che sicuri e certi di stipendio,
penseranno a correggere il tuo malcontento. Siamo violini, suonati dalla
dittatura, dall’ordine e dalla paura, siamo dietro le righe, siamo
“Sissignore”, siamo tanti “devo” siamo tanti “prego”, siamo “Vuoto”… siamo
confini e filo spinato, siamo passaporti e carte d’identità, siamo permessi
concessi, del resto essere schiavi è qualcosa di noto, di costante, di intimo
come le mutande, è persino consolante, è deresponsabilizzante, corroborante,
conveniente, il rapporto tra schiavo e padrone masochisticamente seducente.
Amiamo il nostro cattivo odore e ci piace andare a dormire in lenzuola pulite
con i talloni neri di polvere di strade contorte ma piene di storie. E non ci
sono impronte digitali su queste vite tradite, non c’è identificazione di chi
le ha colpite. E sappiamo incassare pugni e ferite. Siamo camaleonti, cambiamo
colore e ci adeguiamo al sapore, abbiamo la vista a 360 gradi si tratta di
affari, ma è un concetto di sopravvivenza, di resistenza, cosa c’è di sbagliato
a nascondersi tra gli scogli quando non è astuto trattare con un mare forza 8,
è al di sotto delle possibilità, nascondiamoci e attendiamo tempi migliori e
poi mi arrivano odori rassicuranti di cucina, tutto torna sempre come prima. Il
movimento lento delle tue chele che pranzano nella tovaglia apparecchiata di
sale è teatrale. La società ingrassa e ti presenta il delitto perfetto, senza
un difetto. L’anima non mostra lividi e contusioni, anche quando cova
ribellioni, poi i ribelli sono pochi e finiscono male, hanno quel fascino
letale che trascina, ma muoiono giovani e tutto rientra nella norma, torna come
prima. Allora attendo questo livellamento come alta marea non basta farsi
un’idea, bisogna avere vie di fuga necessarie, e intanto pensieri all’arsenico
danno espressioni alle mie sopracciglia, i tuoi sentimento yo-yo, salgono e
scendono, deglutisco, obbedisco, mi ferisco, striscio tra i muri, nello spazio
angusto di due ruote, percepisco l’assenza, la frequenza dei pettegolezzi delle
foglie, il soffio del vento per un momento ha dato brividi al mio collo, si è
piegato lento come un ramo sottile sotto le zampe leggere di un passero. Mi
sono trovata un rifugio sul mare ho diviso cibo con gatti del porto e gabbiani,
stavo dentro uno scafo rotondo, avevo le onde a sbattermi contro le orecchie e
la culla naturale, acqua che scende che sale, vivevo di quell’odore di
marcio e di pianto che senti al
mattino, “aveva piovuto, aveva goduto della giornata senza timone, senza
ragione”, le bandierine segnavento degli alberi del porto tintinnavano di
continuo all’unisono, il direttore d’orchestra era il vento, il sangue scorreva
allo stesso ritmo, ero sola al momento e non avevo neppure esattamente un sesso
perché faceva lo stesso, sfogliavo la rabbia di Henry Miller, e finivo col
portarmi quell’erotismo aggressivo all’altezza di ombelico, nei passi sciolti e
indipendenti di tutti i miei momenti spesi nel tragitto del ricordo tra la
città e il porto. Se sentissi le viole del pensiero nero nella gola e capissi
il bisogno della parola ancora, o un camion di “non ti scordar di me” diretti al
mattatoio, facessero in tempo a imprimerti il colore turchese della meraviglia
che mi rimane nelle ciglia, come un collirio vischioso che appanna lo sguardo…
avevo diritti, dove adesso ci sono persone in colonne con il capo basso sotto
il vapore acqueo che non mi fa vedere chiaro, se sentissi la mia voglia di
vita, se sentissi quello che sentono i miei giorni privi di rinuncia, se
sentissi il suono dei nomi, se dietro ci vedessi sorrisi di bambini, se
potessimo avere anche solo divergenti opinioni al posto di umiliazioni, ho ossa
cave come gli uccelli per volare leggera sopra i momenti più belli, tu hai reti
per catturare, il cinismo si è appoggiato sul tuo volto, la mancanza di
sorpresa, la tua pretesa convinzione lo hanno stravolto, la tua scelta di Sophie…
la mia scelta di Sophie… una mano al seno che non allatta, una mano alla ferita
intatta, alla beffa… della morte dentro e della tua pelle senza tracce delle
guerre, del volo delle cornacchie che devastano nidi in gridi, e angeli
stupiti, quanto stupore questo dolore, quanta poesia nell’incredulità, c’era
una musica classica alata nella colonna sonora portante della tua vita, ho
baciato sulle labbra e sfiorato con la lingua il tabù profondo dell’irrisolto
dentro me, era un volatile spoglio del volo colava petrolio, aveva il collo
ciondolante e sporco, e mentre il catrame mi avvolgeva lo sguardo avvertivo il
ricordo del mare in ritardo, questa morte del Cigno, questo confine puerile tra
l’atroce e il sublime, quanto caduto amore dalle dita, quanto disincanto e il
futuro sono spaventapasseri… stanno abbarbicati come severi proprietari
terrieri impiccati nel vento che sorridono a stento nel tentativo di spaventare
fuggitivi di un’altra scaltra verità, attento a dove metti i piedi straniero,
straniero nella tua terra, straniero nella tua pelle, straniero nel concetto
fresco del sorbetto al limone che si succhia un coglione per la sua digestione,
di una filosofia difficile da digerire… che il tuo grande peccato dipende
soprattutto da dove sei nato, è questa matrioska del destino del più grande che
contiene il più piccino, di questa scala verso l’abisso e il suo fondale ti
guarda fisso, striscio a lato della discussione, ho troppa fame per avere
un’opinione all’altezza delle tavole rotonde immonde, evito anche per tatto re
e regine votati in parlamento all’unanimità del nostro malcontento, diplomati
alla scuola della volgarità, con un master nei valori perduti, madri senza
braccia, come abbattere questo muro di Berlino, come starti vicino, come
abbracciare le spine, come toccare con le dita dei piedi rovine e farne un
souvenir , come fare dei pesanti segreti amuleti da portare sulla pelle, mentre
si corre, mentre si balla, si fa l’amore, ci si ammala, ci si addormenta,
mentre ci si inventa, giorno dopo giorno nell’eterno ritorno di una ricerca di
sé che si smonta da sé, c’è un bisogno
sacrosanto di bugie, ci sono foto di famiglia nella posa migliore poi senti
l’odore di vite andate a male, di segreti custoditi dove sogni inascoltati sono
stati gettati insieme a tante ragioni nelle intenzioni da riciclare sotto
l’albero di Natale, da domani ti capirò, da domani cambierò, da domani cerco me
stesso, da domani salterò con ballerine rosse di vernice nelle pozzanghere di
fango, da domani la mia vita sarà d’oltraggio all’estetica del falso, da domani
cambio l’armadio, perché adesso non ti sai gestire un momento? Perché adesso
non senti quello che ho dentro, perché non capisci che adesso è tanto tempo, è
tutto il tempo più certo che c’è, cosa sai del domani? Di cassetti che apri e
ti restituiscono lingue di lavanda, sapore di casa, di lenzuola e biancheria,
cosa c’è… che ti crea dipendenza da questa bugia, non sei neanche mai tua, sei
un innesto, ben riuscito… sei una capacità di memoria che contiene una storia…
Cosa sai delle immagini alate che come rondini a pelo d’acqua mi invadono la
mente in sorrisi di festa. D’amore non si muore, d’amore non c’è umiliazione,
d’amore non c’è senso di colpa, d’amore non ci sono scuse… Perciò se siamo
tutte figlie di favole sbagliate e narrativa d’eroine che ci vuole vicine al
sacrificio per amore, vorrei che oggi Ofelia alzasse il capo e dicesse “Non
morirò d’amore per te perché sono innamorata di me”, vorrei che Desdemona
anzitutto avesse realmente tradito e che Otello da uomo avesse capito… Vorrei
che Romeo e Giulietta si fossero scelti un’altra eternità… Vorrei che la caccia
alle streghe fosse distante, che non bastasse un dito qualunque, un inquisitore
nel mucchio a manipolare il destino, a glorificare l’assassino, ma soprattutto non vorrei occhi di cerbiatto
dietro il fucile, perché quello stupore un attimo prima di morire… mi uccide.