martedì 10 novembre 2020

Il terrore corre sulla penna a sfera


 

 

Il terrore corre sulla  penna a sfera

 

 

Ospedale S. Orsola Bologna, i bolognesi sanno che per muoversi al S.Orsola di Bologna e trovare il padiglione che si desidera, occorre una mappa, che prontamente ti consegnano, la cosa però non facilita, al S. Orsola di Bologna ti perdi certamente persino con la mappa, e quando diventi un esperto di orienteering e felice cammini spedito verso il padiglione che dopo innumerevoli tentativi hai imparato a conoscere, più che altro muovendoti di istinto su orme note come un indiano, certamente, la persona che cerchi è stata spostata di padiglione, come i chirurghi con i quali devi parlare, una giornata per trovare il padiglione giusto, dove le persone con le quali devi parlare si sono appena spostate a un altro padiglione, sono come i granchi che si spostano tra gli scogli e li si acquattano, e così via in un inseguimento senza speranza, ogni padiglione misura della temperatura, ogni piano misura della temperatura, ogni padiglione e ogni piano gel a profusione nelle mani, e tutti ci muoviamo spostandoci in nuvole di amuchina, i medici e gli infermieri non possono più di tanto aiutarti ad orientarti perché loro stessi conoscono la rigorosa mappatura della micro-zona dove abitualmente si muovono, e ti guardano con quella faccia come dire, ma io questo nome non l’ho mai sentito, e ti viene il dubbio che il chirurgo con il quale devi parlare non esista, non si conoscono da un piano all’altro, da un padiglione all'altro, mi è persino capitato non si conoscessero sullo stesso corridoio. Loro stessi ammettono il labirinto, diciamocelo chiaramente, se hai un appuntamento al S. Orsola anche partendo ore prima non è garantito che tu possa arrivare puntualmente. Io mio padre e mio fratello siamo stati convocati da una equipe di medici per discutere della possibilità a breve di un intervento chirurgico che dovrebbe affrontare mio padre, quindi siamo in fila all’esterno dell'ospedale, ci misurano come di prassi la temperatura e avanziamo all’interno, a questo punto dobbiamo salire al secondo piano dove ci attendono per il colloquio, ma ne nasce un caso, si mobilitano uno o due vigilanti con ancora tra le mani le p38 a temperatura dicendo che non possiamo salire in tre, io rispondo che siamo convocati in tre e che se il problema è salire insieme, possiamo ovviare salendo separatamente e tenendo distanze, ma la cosa non sembra tranquillizzarli, una addetta all'accettazione si mette in contatto con il secondo piano, ma naturalmente non riesce ad avere conferma del colloquio anche perché chiede informazioni di un chirurgo che porta il cognome di mio padre che è il paziente, allora la correggo, dicendole, che le ho dato il cognome del paziente, non se ne viene a capo, i minuti passano e rischia di saltare l’appuntamento, nel frattempo mobilitandosi per il nostro caso, i vigilanti muniti di pistola a temperatura hanno girato le spalle all’entrata per quella frazione di secondi decisiva a fare scivolare dentro persone che ci passano tranquillamente alle spalle, portatori sani di possibili varianti dal 37 in su, compresa l'assurdità della situazione, sicuri del nostro 36 e mezzo come passaporto, saliamo lasciando quella dell'accettazione tentare di mettersi in contatto con il secondo piano, ci infiliamo in tre in un ascensore, siamo un nucleo famigliare del resto, qualche spiritoso ha scritto con pennarello sulle pareti dell’ascensore “qui c’è stato il Covid” come fosse il passaggio di un vecchio leader da ricordare, finalmente arriviamo, capiscono chi siamo e siamo di nuovo in fila, secondo piano, infermiera munita di fogli che dobbiamo compilare, gel e temperatura, questa volta la temperatura viene presa dall’orecchio, temperature regolari, ora dobbiamo rispondere tutti alle seguenti domande:

 

Da quanto indossate la mascherina?

Avete avuto sintomi?

In famiglia qualcuno ha fatto tampone?

 

Mentre rispondiamo e le risposte prontamente ci avvicinano sempre di più alla possibile entrata in quel lungo corridoio buio sbarrato da porta che ricorda un  accampamento militare, accade che all’infermiera cada la penna a sfera sul pavimento. SILENZIO. IMMOBILITA’. OTTO OCCHI FISSANO LA PENNA A SFERA A TERRA. Non una mossa, il terrore corre sul filo della penna a sfera, non è una semplice penna a sfera è come una bomba da disinnescare e mancano gli artificieri, guardo la penna, ho sempre pensato che la cultura fosse la più grande arma a nostra disposizione, ho sempre saputo che le dittature più feroci temono la libertà della scrittura, conosco il potere bieco dietro la censura, ma era la prima volta che osservavo una penna a sfera caduta in zona franca seminare il panico, per la prima volta la penna a sfera mi appariva come arma di distruzione di massa, era come un tempo dilatato in un mondo parallelo, come un movimento rallentato nello spazio che mi faceva percepire secondi di pura paura in una zona senza tempo, con l’istinto che mi contraddistingue e nel movimento percepito dagli altri con lentezza di astronauti, ho fatto quello che fa un kamikaze, ho raccolto a mani nude la penna a sfera, guardo la faccia dell’infermiera stravolta come nell’urlo di MUNCH ma senza emettere suono come nel film sugli ultracorpi, mi ero trasformata in una potenziale terrorista a mia insaputa, quella penna era come uno zaino imbottito di tritolo, risalivo come da una apnea e sopra di me erano volti sfuocati in espressione di terrore, una Pompei congelata vista da  Atlantide capovolta, poggio con sorriso scemo l’arma batteriologica della cultura sul tavolo, passano altri minuti di un tempo denso, mio fratello e mio padre sono rimasti con la mano a mezz’asta nel tentativo di partecipare con sgomento al prolungamento della mia azione, attendiamo che all’infermiera tornino le reazioni, è un tempo lungo. A quel punto la donna si riprende e con mani tremanti prende il gel disinfettante, lo spara sulla penna ma quello cade a lato senza investirla minimamente, abbiamo appena sterilizzato i microbi a fianco. Nuova immobilità, da una parte la penna illibata, dall’altra una montagnetta inquietante di gel sprecato, penso che l’infermiera stia mettendo a dura prova le sue capacità di telecinesi, nel tentativo di spostare la penna sul gel ma senza toccarla, io vedo sfumare il colloquio a causa di una penna, poi un gesto rischioso, come una corsa sotto un bombardamento, e l’infermiera cuccia di lato la penna che rotola sul gel, un gesto di scatto come chi si libera da un insetto schifoso, talmente di scatto che non ho visto la mano,  a quel punto le si avventa sopra con crudeltà, neanche fosse una blatta sul pane, e la investe di nuovo gel per tutta la sua lunghezza, con soddisfazione. Vorrei chiederle, è morta? Possiamo andare? Ma capisco il trauma post bellico e attendo, guardiamo tutti la penna inumata da gel e attendiamo con le nostre temperature da pesce. Poi entriamo, entriamo. Mi rendo conto è un mondo parallelo, qui la paura è nell’aria e nelle cose, e ironia a parte è giusta questa paura, è vera. E’ la realtà, cazzo penso a quanti oggetti ho raccolto fuori e li vedo tutti come bombe a mano, il nostro pianeta un intero campo minato, questo virus fantasma che ci uccide e ci tira pure per il culo, una dottoressa mi intima distanza con una mano, ero a un metro ma minacciavo inavvertitamente di avanzare, qui sei in colpa anche per le intenzioni ancora prima che si trasformino in atti, resto con un piede sospeso nell’aria, balbetto “scusi, scusi” lei aggiunge “stiamo distanti, state molto distanti già siamo pochi medici e certo saremo sempre meno”, non è una risposta è un requiem. Facciamo il colloquio, usciamo, la sera porto fuori il mio cane ma non faccio che rivedere la penna caduta, la distanza intimata con occhi di terrore, le loro ragioni, le loro sacrosante ragioni, i loro sacrifici, i loro rischi, cerco nel mio piccolo di ricordarmi tutto, la mascherina, l’igiene , la distanza, ma in quest’altro mondo esterno, vedo un tavolo di legno, dove come ogni sera ragazzi ventenni celebrano ritualmente il loro anarchico assembramento, fumano canne, l’odore di marijuana che mi arriva dritto alle narici filtrato dalla mascherina mi nausea e mi offende anche, forse perché farsi le canne oggi e sbattersene perché hai vent’anni non ha nulla di rivoluzionario, forse perché non sono gli anni 70, forse... E' il 2020, l’anno in cui si celebra l’individualismo, ciò che forse dovremmo dividere storicamente parlando un giorno in termini di  Avanti Covid e Dopo Covid, Avanti Cristo e Dopo Cristo, l’anno dell’ossigeno fatto a gente agonizzante direttamente nelle macchine, come da pompe di benzina, perché gli ospedali sono al collasso, l’anno in cui abbiamo dimenticato gli anziani e li abbiamo lasciati morire, con le loro favole, con il loro amore, l’anno in cui negazionisti proprio come negarano i lager hanno negato le file di morti e di ambulanze, l’anno delle distanze non tanto mantenute, fosse vero, per emergenza, ma per menefreghismo, e quelle sono distanze umane che neppure ti proteggono, l’anno dei senza futuro, l’anno delle mascherine e della fame d’aria, come di sorrisi, respiro marijuana e passo oltre, nel cielo sopra una stanca, stremata, Bologna. E mi torna alla mente il discorso di un tranviere mentre guida l’autobus e parla con un uomo senza speranza "No, a me la montagna fa cacare, io ho bisogno del mare, a me solo la vista del mare mi rilassa, il mare senza nessuno attorno, mi basta quello, ascoltare le onde, mettermi lì, non chiedo altro, mi da equilibrio, sensazione di pace, no, la montagna no, io sono uno da mare” , l'uomo senza speranza risponde "Si ma vedi anche la montagna è bella, dipende con chi ci vai, dipende dalla compagnia" E l'altro "Si, si d’accordo ma la montagna no, a me se uno mi propone la montagna, io no ce la faccio, non dico che non sia bella eh… tutto quello che vuoi..." "Dai raccontami qualcosa... qualcosa di bello" "Che cazzo c'è di bello? Cosa vuoi che ti racconti" "Non so la famiglia, stanno bene?” “Si quelli stanno bene... sì, come mi manca il mare" Il segreto per tirare avanti sono desideri piccoli, anche io penso, vorrei vedere il mare, vorrei vedere il mare e vorrei un ghiacciolo all’amarena. L’autobus si infilava nel braccio della città, attraversava il buio, come l'ago nelle vene di un drogato, con i nostri pensieri come patetici bigliettini scritti a un Babbo Natale inesistente, allo spaccio del capolinea dei sogni.