venerdì 15 settembre 2017

L'ira degli Dei


Eloisa Guidarelli - Foto





L’ira degli Dei
 
Come raccontarti del percorso osceno della gioia, ora.
Come della giustizia che è una puttana che decide da chi farsi sbattere, o di puerili e pochi idealisti che si muovono come uccelli con le piume a raccogliere tempeste e vento contrario, come spiegare ogni sbaglio, mentre piedi nudi solcano la sabbia, nell’antico gesto del raccogliere conchiglie, necessario a dimenticarsi, per collezionare parti di noi e risate di bambini saccheggiate dal vento, ormai da tempo, branchie sgomente e stupite dell’amo, annaspano in preghiere d’ossigeno, fino a quando anche il dolore diventa ovatta, e gente sorda deambula sul lungomare, che appare pieno di fantasmi traditi da sguardi pratici e uno stomaco da gestire in orari prestabiliti. E lì su quella parte di riva,  conchiglie rotte, chele di granchi, ossi di seppie, ho potuto pensare senza interruzioni ai tuoi capelli bianchi come nuvole, che ti spostavo dietro le orecchie con parole leggere, leggere come ragnatele, dove le intenzioni rimanevano impigliate e arrese.
 
Prima di dedicarti ogni luna piena, mi ero resa distante, solo perché c’era qualcosa di sbagliato quanto di perfetto nelle tue mani.
 
 
 
Non voglio ricordare le tue dita ferme, ma mentre si muovono a creare, non voglio pensare i tuoi occhi fissi al soffitto e al vuoto, li voglio pensare  a scrutare, capire e ascoltare…
 
INCANTATI
 
 
I tuoi occhi curiosi a cui hanno tolto tutte le domande, erano come una città dopo un bombardamento
 
La tua incredulità mi ha ucciso, come sempre mi uccide la speranza che muore.
 
Ti voglio bene, non ti dimenticherò mai, dove sei, oltre una stanza piena di bombole d’ossigeno, come missili poggiati lì a puntare verso l’alto in una guerra persa per la vita, nell’ennesima battaglia che tutti, io per prima, desideravo vincessi, ma tu avevi capito la resa, la serenità e la necessità dell’arrendersi, il conto alla rovescia, un salto da volere spiccare, ma pareva che anche per quello mancassero le forze, come era una lotta l’atto di respirare, perché è paradossale, ma la morte si fa anche implorare, eppure tenevi questo filo sottile, come si tiene un aquilone, e io sfioravo la pelle trasparente delle tue mani come acqua di pozzanghera, dove specchiarmi come Ofelia capovolta, ancora una volta, “rimani” . Ora sei tu che dipingi la luna ogni notte, sei tu che non te ne sei mai andato del tutto, a mandarmi la voce di tuo figlio, uno sconosciuto per me, che porta il tuo cognome, sei tu che fai camminare coccinelle sulle mie tele ancora da dipingere, non mi perdo un tuo messaggio.
 
“Sei a casa tua adesso, sei contento?” non potrò mai dimenticare il tuo sguardo pieno di stupore e orrore e allo stesso tempo di obiettività “Non la riconosco più” . Ho capito cosa intendevi, non l’ho solo capito, peggio, l’ho sentito e queste tue parole non se ne andranno mai, anche se tu, tu sei un abbraccio senza fine, tu sei un abbraccio senza fine.
 
UN ABBRACCIO SENZA FINE , se lo provi nella vita non lo dimentichi.
 
Athena si rifiuta di difendere una città che non accoglie e così raccoglie le sue armi e la sua stanchezza e lenta e bianca, passo dopo passo, si avventura nel mare, che a lei, dea immortale, si apre, il suo nudo nascosto dallo scudo.
Lunghi capelli,
punte bagnate a sfiorare le natiche,
adamitiche fruste,
occhi delusi,
blu liquidi,
segreti come anfratti di rocce,
incostanti come maree,
dove la malinconia e la distanza eterna giocherebbero in un equilibrio raro di erotismo e disperazione,
caduta illusione,
un solco tra le labbra di marmo a disegnare l’amarezza suggerita dallo sguardo.
 
Passo dopo passo,
onda dopo onda,
con la determinazione che dà la rabbia,
il senso di giustizia che porta alla vittoria,
indignazione a inseguire calunnia,
con le ferite aperte,
tutte aperte
a respirare il sale come frutti di mare,
come piante carnivore dalle bocche esperte nel deserto,
dove il tuo pensiero è erba di macchia, che anela guerra come acqua.
 
GUERRA COME ACQUA
 
 
 
Athena arresa, offesa, tradita, rifiuta ogni cittadinanza perché è stanca di guardare verso l’alto, sentire nelle grida dei gabbiani gli ultimi disperati richiami, speranze di uomini frangersi contro gli scogli, Athena pallida di conchiglie e granchi che le hanno scavato il corpo in piccoli tunnel senza passaporto, Athena che non può esportare amore, embargo di emozioni, la polizia sopra il cuore, dove le maree hanno cantato a lungo e in privato di sogni, di spuma, come amanti che recitano poesie sui seni salati,  Athena innamorata di rifugiati e migranti, straziata di dolore, si rifiuta di difendere una città che odia e non accoglie, Athena apolide, apolide Athena, mostra impronte digitali senza confini e occhi che hanno scavalcato da tempo il filo spinato, crescono stelle marine per croci clandestine mai piantate e mai arrivate, stillano come cinque dita di sangue.
 
 
Posto di blocco,
documenti,
burocrazia che travolge i sensi,
non ricordo il mio nome,
forse non l’ho mai avuto
poiché qui
qualcuno
nella sua divisa
mi sta dicendo
che non esisto
solo
non ricordo
da quanto tempo
ho una lettera d’amore che non arriverà mai
 
 a lei
 
 
Oceanine abbracciano quei volti e quei corpi come risorti tra dita delicate, Calipso da tempo pensa di trattenere qualcuno da amare con la forza del mare, ma quando a portarglielo via è un foglio di via, è disposta a impugnare l’arco della rabbia, creato nella solitudine e nella costanza, e scavalca, come solo sa fare lei, uomini e dei, si pone faccia a faccia alla vostra inerzia, le basterebbe uno sguardo soltanto, come a un uccello, per intuire l’origine del vento, per decretare tempesta, su ogni vostra testa, perché il piccolo uomo ricordi che solo gli dei stabiliscono confini tra il finito e l’infinito, che è solo a loro dispetto e gusto, osservare pazienti o distruggere tutto, che non sei tu, piccolo essere umano, a stabilire i confini su ciò che io amo.
 
Calipso si muoveva come una belva offesa, si rifiutava di tessere come una Penelope e ascoltare storie d’altare  nella sua grotta e reggia, le prudevano le mani, gli uomini si permettevano di stabilire confini ma erano loro ad avere sconfinato, “Non ci sono condizioni, né leggi, non ci sono rifugiati, schiavi o padroni, sono tutti esseri umani e da tempo immemore sono tutti nostri schiavi, solo noi decretiamo fato e destino di chi ci è vicino!” E siccome stava montando una questione grave, da quando gli esseri umani stabilivano zone di confine, le ninfe del mare erano stanche di sentire il dolore dei morti annegati, di sogni perduti, di amori finiti, e finirono loro stessi, gli dei, per sentirsi burattini, rifugiati, interdetti, allontanati, decisero tutti dopo una riunione a porte chiuse con Poseidone che avrebbero atteso uno a uno i responsabili dei confini, di accordi inumani, come tutte quelle persone che, con la loro indifferenza, alimentavano questo flusso di coscienza, li avrebbero sterminati, così le maree furono cavalcate da dee  che tenevano a galla con costanza ogni imbarcazione che portava verso la speranza e affondavano senza nessuna pietà ogni imbarcazione che si muoveva per respingere, sparare, impedendo che tutte le persone offese dalla vita potessero arrivare, ci furono problemi perché le dee si innamoravano dei migranti, Calipso era una di queste, o qualche altra oceanina, prendendo troppo a cuore un bambino o una bambina, si convinceva che era meglio tenerlo con lei, perché lo vedeva più a rischio a riva, e dovendolo rilasciare, come una madre angosciata, seguiva con ansia il suo destino, nuotandogli sempre vicino, quando aveva difficoltà, facendolo respirare.
 
Athena scatenò guerre senza pari a tutti gli stati  e le città che non accoglievano, anche perché da apolide ne faceva una questione personale, e la Libia tra questi se la vide molto male. Qualche rifugiato accettò l’immortalità, gli dei mischiarono le razze  e diedero ad ogni razzista l’immortalità, decretando che per tutti i giorni della loro infinita vita avrebbero dovuto vedere un mondo di tutte le razze crescere e crescere, gonfiandosi in numero esponenziale, come un cavallone del mare, con forza e determinazione centuplicate, così da essere sbeffeggiati per l’eternità, l’umanità si sarebbe mischiata al punto che sarebbe stato impossibile e inappropriato parlare di razze, finalmente si sarebbe dovuto accettare che la razza è una, quella umana, per questo erano già morti uomini e donne di valore, gli dei disprezzavano i vigliacchi e osservavano dall’alto, seppure con i loro capricci, quegli uomini soli, davvero soli, spesso contro tutti,  gli dei del mare, inoltre, erano stanchi di morte, non si trattava di naturale incidente, del quale diciamocelo chiaro, non gliene fregava niente, per quanto drammatico e ingiusto anch’esso potesse sembrare, era pur sempre selezione naturale, gli dei del mare e le ninfe, erano stanchi di vedere “respingere”, era la morte degli ideali, era la morte dell’umanità, era una morte inconcepibile anche per lo sguardo pigro e cinico dell’immortalità, ma la cosa che li fece reagire e attaccare tutti i mortali fu che l’unica lezione che potevano insegnare è che non è mai l’uomo a comandare.
 
 
 
E così gli cancellarono per sempre dal volto questa illusione, quasi per sempre, perché non avevano considerato che l’essere umano è recidivo.
 
Mandarono alluvioni, uragani dai nomi di donne fatali e brutali, e così era del resto, gli dei avevano decretato che il clima si sarebbe ribellato fino a quando l’uomo non avesse avuto di meglio che sprecare il suo tempo con zone interdette e filo spinato.
 
Si ostinavano a dimostrare che è la natura stessa a decidere chi vive e chi muore, quando l’uomo ha la presunzione di accorciare i tempi di ogni già precaria e fragile vita, facendosi prendere la mano per megalomania, avidità, desiderio di potenza, gli dei lo prendono per un affronto personale e la natura a quel punto non sta più a guardare.
 
 “Se vuole la natura uccide più del terrorismo!”, imprecò un Nettuno stanco di portare sulle spalle bare con nomi fatti di vento, “ma all’uomo non basta e gioca sempre di anticipo!”.
 
 Ed è così che gli dei si offesero a morte e decretarono una delle più grandi e sanguinose guerre all’uomo, lasciarono devastazione e dolore, e l’essere umano, da piccolo quale è sempre stato, imprecò contro l’atroce destino, la cattiveria della natura, ombra era la sua stessa paura, neppure nella devastazione più totale e profonda si ricordò di quanto male, di quanto male nei secoli, solo per esigenza di conquista, ambizione, aveva causato, gli dei si stupirono alla fine dell’Apocalisse da loro scatenata, di dovere ammettere che non erano giunti allo stesso numero di defunti creato dall’essere umano, un piccolo e ignobile mortale.
 
L’uomo non sa vivere, l’uomo non sa amare, l’uomo non sa apprezzare, l’uomo non sa dare, per questo non è immortale.
 
 
Sulla spiaggia i turisti sono informati ogni istante dal Bagno Gildo, al massimo volume stereo, degli eventi della Grassa Romagna, in modo che possano avere una vasta scelta su come passare la serata, poi in mezzo agli spot di dubbio gusto che celebrano all’unanimità l’umanità cretina ma leggera e disimpegnata come deve essere in vacanza, uno spot dal tono serio, che avvisa che chi verrà trovato a comprare merce in spiaggia, quindi non dai locali o anche ad accettare massaggi da gente improvvisata, subirà una multa, di venti euro mi pare, e poi con affetto rinnovato, seguendo il perfetto stile bastone/carota, specifica che questo permetterà la legalità, e aggiunge, giocando sull’orgoglio personale, che noi stessi contribuiremo a difendere il “made in Italy”, sorrido visto che il made in Italy oggi, anche dei più grandi stilisti, è sempre creato con l’apporto di cinesi sfruttati e a basso costo, non solo cinesi è vero, sfruttati e a basso costo, ma ci accontentiamo di ogni latitudine, siamo per l’accoglienza in questi casi,  e poi riparte la pubblicità della piadina romagnola, macchine della polizia sfilano ripetutamente a intervalli regolari sulla spiaggia, in pieno giorno, quindi non per controllare che non ci siano stupri, anche perché troppo chiasso e troppe famiglie e troppa luce non arrischierebbero neppure il più assatanato degli stupratori, ma probabilmente proprio per assicurare il made in Italy, made in Italy che spesso non fornisce scontrino fiscale in Romagna, la Grassa e Accogliente, e se lo richiedi a malavoglia te lo battono, scusandosi con poca convinzione della sbadataggine o distrazione made in Italy.
 
Facciamo anche armi made in Italy, ma siamo pacifisti, le esportiamo solo, ma non capiamo poi perché tutta questa gente arriva da noi? Ci offriamo di aiutarli a casa loro, ecco qui mi sfugge, perché da una parte li vogliamo aiutare a casa loro, ma casa loro l’abbiamo distrutta noi, quindi che facciamo, gliela ricostruiamo e poi gliela bombardiamo?
 
Ora magari il concetto made in Italy se fosse onesto andrebbe pure bene, ma non state razzolando male? Ho dubbi anche sul concetto, mi ricorderò tutta la vita di un massaggio fatto da un pakistano in spiaggia, gli ho comprato anche un anello bellissimo e il mio corpo non è mai stato tanto meglio in vita sua, questo era veramente bravo altroché, incredibilmente rispettoso e bravo, ai miei muscoli, alle mie ossa, ai miei brividi e alla mia mente che si librava e sconfinava  nel Nirvana senza visto e con impronte digitali farfalle non gliene fregava nulla, assolutamente nulla che non fosse italiano.
 
La dispettosa Calipso si travestì da mortale e si mise sulla seconda fila del Bagno Gildo che dava sul mare. Che orrore pensava, per rabbia aveva mandato meduse a costeggiare tutta la spiaggia e bagnanti uscivano saltando con abrasioni e non osavano avvicinarsi all’acqua.
 
 La dispettosa Calipso poi non capiva sinceramente perché queste donne umane stavano a pagare cifre esorbitanti per fanghi e impacchi di alghe contro la cellulite, quando lei, quel pomeriggio, aveva offerto loro un mare pieno d’alghe e se la rideva quando le donne entravano per un tuffo in acqua e se ne uscivano coperte di alghe verdi urlando.
 
Calipso non è che non si notasse, aveva gambe muscolose e agili da nuotatrice esperta e un seno appena accennato, lo teneva scoperto, la divertiva scandalizzare le famiglie con carrozzine e figli al seguito sulla spiaggia, la innervosiva quella donna media moralista e ridicola, tutta pappine e pannolini che non sapeva parlare di altro, gli sguardi lascivi dei mariti le percorrevano il seno, per battere in ritirata appena sorpresi dalle mogli, sembravano quelle lumache d’acqua che si ritraggono appena le sfiori, ma le mogli, comprensive, fedeli, stupide, schiave del loro ruolo, facevano finta di non dargli peso. Calipso aveva la nausea, ma aveva deciso di passare un giorno tra gli umani, se l’uomo che Calipso si fosse scelta avesse guardato in tralice un’altra Dea, non parliamo poi di una comune donnetta, lo avrebbe incenerito lei stessa.
 
Calipso da quando era successo ciò che era successo con quello stronzo di Ulisse, soffriva della crisi dei 7 anni, arrivata al settimo anno si disfava di chiunque, un tempo ridicolo per una immortale. Ma non accettava di essere lasciata.
 
Dopo l’ennesimo spot sulla piadina romagnola, Calipso ne ebbe abbastanza e si mosse verso il bagno con l’andatura di un felino.
 
Calipso stabilisce un tempo presente dove muoversi adesso, gioca spesso con il tempo, ovvero crea un presente che rimane tale senza che diventi passato mai, una sorta di infinito presente, inconcepibile per noi esseri umani, salvo quando siamo innamorati, ma di regola ce ne dimentichiamo, dilata il tempo come un elastico, blocca in un fermo immagine perfetto il resto. Può, se vuole, aumentare la velocità del tempo e farti invecchiare in un secondo, o bruciare la tua vita con uno sguardo fino a farti tornare nella culla, o ancora prima del parto, o in un atto di sublime perfidia fare sì che i tuoi genitori quel giorno fecero altro e allora tu non nascerai mai più.
 
 Calipso vede tra gli ombrelloni un ragazzo sperduto che si guarda intorno, vorrebbe chiedere ma non chiede, la Dea sente ogni vibrazione, capta il suo imbarazzo, l’ adrenalina che si porta addosso, gli dei sono animali, lui vede questa donna che lo fissa nell’indifferenza della gente, tenta, con timore, un approccio goffo, gli escono mezze parole,  di cui lui stesso non è certo, come le dicesse pentito in anticipo, temendo un rifiuto:
 
 - “Hai qualcosa? Ho fame”.
 
Calipso gli è vicina, anche se lui non ha avuto alcuna percezione del movimento, gli dei hanno abilità di vampiri, uno sguardo è una radiografia dell’anima, si muove come se il mondo e il ragazzo compreso gli appartenessero da tempo, come fosse il vento. Lo avvolge e risponde:
 
-         “Ti va di mangiare qualcosa, andiamo al Bar?”
 
Il ragazzo interdetto dopo avere rivolto la stessa domanda per una giornata al controvento dell’indifferenza, dice timidamente “si” e la coppia passeggia verso il Bagno, “Di dove sei”, chiede Calipso squadrandolo, “Sono nigeriano ma vivo a Ravenna, parli inglese? Non parlo bene italiano” Calipso risponde “L’inglese io? No, se vivi qui ora imparerai l’italiano” “Si, vero” aggiunge il ragazzo. Calipso  gli accarezza le spalle e nota la sua cicatrice sul volto, tutto il resto lo sa, conosce tutte le cicatrici della sua vita da prima che nascesse, una lettura in braille, nel totale silenzio di sguardi tangenti tra i due, gli legge maree nello sguardo, addii nel cuore, lotte, rinunce, sogni a un passo dal burrone, ma è attirata dalla sua dignità, Calipso ama le persone che sanno portare la dignità come uno scudo, con quello sguardo che crea distanza, come a dire: oltre questo mio spazio che ti concedo tu non vai, e quello spazio-distanza che indossano gli uomini coraggiosi è rispettato dagli dei, perché gli dei intuiscono che quegli uomini preservano la loro anima, non sono in vendita. Calipso studia il ragazzo, “hanno dignità tutti quelli che vengono dal mare, sono come noi, sono come dei”. Arrivano al Bar, il ragazzo non immagina di essere entrato nei favori di una Dea del mare.
 
-         “Cosa prendi?”
 
C’è un solo bombolone in una teca vuota, le paste del mattino sono tutte state depredate, e lì c’è questo bombolone, solo, in mostra nell’acquario vuoto di zucchero a velo, il ragazzo indica timidamente “Quello”, Calipso - “Vuoi solo quello?” -  probabilmente se avesse chiesto l’universo Calipso glielo avrebbe concesso, lui sempre timido, osa :
 
 - “Si e … una Coca Cola”
 
Calipso con uno scatto felino fissa le pupille del ragazzo dietro il banco e più che chiedere ordina:
 
-         “Quello e una Coca”
 
 Il ragazzo afferra il bombolone e la bibita, Calipso chiede dov’è il bagno, davanti allo specchio tenta di convincersi a non portarlo nella grotta, deve solo dare, solo dare e non deve farsi scoprire, spesso il suo desiderio di protezione, verso chi le piace, la spinge come un animale a portare chiunque nella sua grotta e a isolarlo dall’umanità, a volte se ne innamora, come era avvenuto per quel coglione di Ulisse, a volte vince il suo spirito materno, come stava avvenendo verso questo ragazzo, ma fatto sta che si deve sempre dominare.
 
Uscita dal bagno, trova il ragazzo che mangia con gusto al tavolo e beve la sua Coca, gli lascia qualche moneta, “Sono per un caffè” il ragazzo la saluta con il sorriso e un gesto della mano, Calipso lo saluta con un sorriso carico di speranza, poi guarda il ragazzo dietro al banco con sottile  minaccia, assicurandosi che il suo recente amico non sia disturbato e possa finire la sua merenda in pace.
 
 Non dimenticò mai il sapore di quel bombolone sulla spiaggia, quella giovane donna gli aveva dato speranza, quella che lui stava perdendo.
 
I gesti sono preziosi, a volte sono tutto, nel bene e nel male. Gesti che cambiano l’umore e persino le strade.
 
Calipso, dopo quel gesto, si trascinò pigra nell’acqua, le meduse la seguirono insieme allo sguardo dei bagnini e mentre scendeva negli abissi con grande pace di tante mogli,  assorta si chiese
 

Chissà di cosa sa la  Coca Cola

 
poi il mare si chiuse sulla sua testa come un soffitto d’acqua .
 
 
Calipso - Eloisa Guidarelli
 
Athena - Eloisa Guidarelli




Eloisa Guidarelli . pittrice - Blogger