Amazzone sbagliata.
Stavo lì sdraiata quale amazzone sbagliata
seno apparecchiato su cui banchettare,
lo fanno i granchi con le alghe,
avvolti da un fascino teatrale,
e i chirurghi con lentezza e precisione,
prima che arrivi l’onda che li fa solo leggermente spostare.
Alla loro maniera laterale.
Sguardi colgono corridoi bianchi
piedi sospesi inforcano porte
mascherine sul volto
quello sfiorarmi il polso
poiché lì è finito il cuore
e il battito cardiaco è sotto le
palpebre
chiuse
Per la vostra necessità
Vestita di un velo d’acqua verde
Sottile e trasparente come bava
di lumaca
E seni ostriche
Dove affondare le mani
Le vene invase da acqua fredda,
come bocche che non hanno sete
Obbligate a bere
E questa sala operatoria è gelida
Le parole sono distanti
Sembrano dovere superare una
barriera del suono
La paura è l’unica cosa reale che
immobilizza i muscoli.
Fasci di nervi,
Effetto paradosso,
perché lo accetto?
Se fossi un animale sarei fuggita
adesso e loro a inseguirmi
ma siamo esseri umani
abbiamo quella che chiamano
ragione
che non ci fa muovere
non ci fa muovere neppure durante
un’esecuzione
il panico ora è passato dalla
mente al corpo che non smette di tremare
Non voglio più provare questa
paura
Farei qualsiasi cosa
Non sarebbe nulla la morte senza
la paura, è la paura della morte, la paura della paura.
L’anestesista mi dice che non
posso farci niente, con la paura intende, come non era l’esperto delle droghe?
Però l’esperimento è andato male, e dire che mi aveva promesso un mix speciale,
per il quale lo sarei andato persino a cercare, però non ha funzionato, e
l’unico modo è passare all’anestesia generale, che mi sembra di supplicare, il
filo di non so quale liquido che mi invade ora le vene, si è incastrato nel
mio camice sottile come ragnatela, e
sento il primario armeggiare, incazzarsi con l’infermiere e l’infermiere dare
la colpa all’anestesista, che bofonchia e rimbrotta, stanno lì con le loro
facce e le loro chele, il loro avvicendarsi, e le loro scuse. Tanto non
ricorderò un cazzo di quello che mi hanno fatto. A parte questo.
Si desidera essere niente, essere
come all’origine, non nati
il battito cardiaco è fitta
pioggia di tamburi
questa sala operatoria sembra
un’officina
un intervento dei tanti nella
catena di montaggio quotidiana,
una cartella,
una zona da operare,
un file in qualche memoria.
Un corpo a digiuno.
Accuratamente preparato,
esaminato
per la tavola
operatoria
idonea per sopportare un taglio
dal capezzolo all’anima
L’ultimo gesto è quello
dell’aiuto chirurgo che con i guanti infilati, mentre l’anestesista mi chiede
gentilmente se sono pronta a contare le pecore, mi saluta. Il primario che già
vedo sfuocato, stento a riconoscerlo, pare trasfigurato, mi prende la mano,
“Come sta?” “Male” e il mio viso ha ruotato come un pianeta indifferente
sull’altro lato. Non voglio più
spiegare, non serve a niente, mi pare di avere messo in questa arresa senza
sosta anche ogni risposta… “Lo so”-
dice - “Lo so”. “Non lo sai, non lo
sai, non sei tu di qua, come io non lo so come si sta di là tra voi, cosa vi
passa per la testa, io sono una zona e basta, un taglio preciso da fare,
concentrazione, manuale, magari bollette da pagare, o forse già pensate a dove andare tra poco, subito dopo. Che ne so
non esisto da un po’. Magari questo intervento è il prossimo dipinto che sarà
appeso al tuo studio di primario.
Poi il mio corpo sarà spostato,
tagliato, cucito, disinfettato, pulito come i ricordi, ti svegli solo fasciata
con un dolore forte e ogni esperienza è personale. Ma ogni seno è uguale, una
scatola da aprire, togliere quello che non deve contenere e richiudere.
Siamo scatole da aprire e questa
sensazione non se ne vuole andare.
Portantini, dietro a portantini,
una catena di montaggio, un formicaio preciso visto dall’alto, api operose, ma
siamo a digiuno di miele, non c’è dolcezza qui.
Che cos’ ha?
Quanto dolore ha da 1 a 10?
Perché non contemplate fino a
cento? Dieci, dieci.
Antidolorifici, lenti, troppo
lenti, una canzone diceva per il dolore è abbastanza un minuto.
Ma nella cartella clinica poi
avete scritto dolore uguale a 6.
E siamo animali nati in cattività
abbiamo perso gli istinti nell’allevamento intensivo dei nostri giorni quadrati
e ordinati, l’importante è calcolare esattamente la superficie, che tornino
conti e numeri, ma ci siamo persi appetiti più urgenti, annusiamo l’aria
circospetti e non sappiamo più cosa sia sbranare spazi, amiamo i recinti e
sbarre ci deresponsabilizzano esattamente come le preghiere e un Dio molle che
esiste perché funzionale a ogni giorno da capire, l’ordine rassicurante, e
l’abitudine una medicina amara da prendere, l’abitudine visionaria.
E attendevo un autostop nel
deserto per destinazione altrove
Forse è l’umanità che sta subendo
l’ anestesia generale poiché non sente il dolore, un giorno si alzerà con forte
nausea per ciò che vedrà.
Al momento sono talmente
dimagrita che dentro le mie mutande ci ballo e penso soltanto che si nasce e si
muore in un solo giorno. E penso all’anomalia del tempo, un’operazione di una
trentina di minuti, con l’autobus arrivo da casa mia al centro, nello stesso
tempo mi aprono e chiudono il seno e mi tolgono quello che devono, cos’altro
succede in trenta minuti nel mondo? Trenta minuti sono più di quello che penso.
E confondo il drammatico con
l’erotico in questa visione dal basso all’alto con occhi proiettati per errore
alla cappella più vasta che è quella dipinta dal cielo delle intenzioni sospese
come nuvole scese e poggiate su labbra aperte da un filo di spazio, un filo
spinato di censura che ho appena scavalcato, distratta, a torto senza passaporto,
priva di identità al ricordo, e la rabbia sembra acqua sporca dopo un
temporale, rassegnata e raccolta in pozzanghere, specchi testimoni dei passi,
come degli atti. I volti sono distorti e sono ricordi, avvolti e arrotolati
come serpenti in pozzi profondi, hanno lingue biforcute che vibrano
nell’umidità buia senza luce, sono radar quelle lingue e si conquistano spazi
saettando verso l’alto, come le bolle liberate dalle bocche dei pesci, risalgo,
sfruttando la spinta, è il tocco di un’infermiera alla spalla, “abbiamo
finito”. Se non l’avesse detto, se non mi avesse toccato sarei rimasta
indietro, mi serviva quella sensazione tattile che ha fatto aprire un portale
tra l’esistenza e il resto. Dall’altra parte si stava bene a non esistere.
Adesso è diverso e tutto mi si riversa
addosso come un’onda che porta avanzi che il mare non si vuole ingoiare. E
neppure io. Mi pesa il nome, la coscienza, l’esistenza e questo dolore.
E voi che fate figli per
riempirvi la pancia dei loro futuri sogni
E i figli non sono altro che
diavoli equilibristi costretti su dirupi scoscesi dai quali non sarebbero mai
scesi
E i figli non sono altro che
angeli dannati che siedono su nuvole in cemento, dondolando le gambe, nella
noia di un paradiso previsto, da dove si possono osservare quelle passeggiate
sul lungomare, per confondere una leggerezza illusoria che potrebbe appartenere
solo a chi è privo di storia.
Non ho figli meno male, non si
sono mai svegliati e mai si dovranno addormentare per una mia decisione, per
una mia proiezione, per quell’atto di crudeltà che cela persino la maternità,
questa moneta a due facce, dove ci ostiniamo a vederne soltanto una, quella
dell’amore, della fortuna, della prosperità, andiamo tutti ad ingrassare questo
mondo fecondo, con la falsa allegria di qualcuno che non potrà salvare nessuno.
E dire che è bastato un nome per
buttarci nel mondo, tutti, a turno.
E dire che è bastato avere un
nome per digerire un giorno un addio, perché ci appuntassero un lutto come
medaglia al petto, come prova da superare, come una cicatrice da accarezzare e
mostrare in ogni giorno perfetto.
E pensare che quel nome è un
peso, un ingombro, un dolore, un frammento di quello che ho dentro e sento.
Una nuvola di capelli al vento
disperdersi come nido di rovi immobili, persino nel giorno dell’addio, dalle
gambe nude sotto il vestito le mani del vento, saliranno delicate, e saranno
percepite come giornate disperate, disposte
a scongiurare le tue gambe, per suggerire senza parole, che persino la
felicità si detesta perché può prenderti di sorpresa, quando ti eri arresa.
Quella brezza distratta e costante come una mano poco elegante a cercare sotto
il tavolo un angolo di inguine, come un padrone, senza interessarsi dei tuoi
sguardi, della tua volontà e delle tue rondini pensieri a pelo d’acqua, della
tua sete e dei tuoi labirinti dove ancora rincorri istinti che hai perso di
vista. La giornata di lutto anticipata, e sei una scultura bloccata dove il
tempo ti ha baciata le labbra con pensieri amari e rugiada e tu rimani fino a
quando gli uccelli più belli faranno nidi nei tuoi capelli e bevendo lacrime
salate, condurranno proteste oscene su code di sirene a un Nettuno coperto di
conchiglie e ferite sulla pelle indurita dalle maree come pelle di balene
costrette a morire insieme, giungerà la tua missiva dalla sabbia del fondale marino, mentre valuterà con gli occhi di
pietra di un Michelangelo perduto ogni tuo assassino, masticando frutti di mare
e sorseggiando vino pregiato da qualche relitto sfondato, dove con fare
elegante, code di pescecani valuteranno le stanze, come maggiordomi adeguati,
scenderà nell’abisso e alla prossima onda perfetta cavalcherà la tua protesta.
Ma questo mondo non ha mai
imposto il vostro massaggio cardiaco come accanimento sulle nostre vite tradite,
questo mondo ci ha dato un momento da gestire dove confondere la gioia con
squarci di puro orrore, perché è in quella corsa veloce di traiettoria il senso
di tutta una storia. Non è pioggia e né temporale è quell’odore di terra
bagnata che raggiunge il tuo inconscio da un punto profondo che avevi lasciato
dimenticare. Ah, quindi esisto, mi riferisco.
Ed è per questo che angeli di
pietra hanno voltato la schiena alla città, e hanno il volto invaso da
burrasche e acqua salmastra, mani dentro le cosce e sono senza risposte, da
tempo iridi di selce hanno rifiutato di concedere soste di preghiera, sono
solo state scolpite nel vento per guardare lontano, di spalle al faro con occhi
quadrati come acquari, dove pesci si agitano perché sentono la corrente delle tue
idee, e vene attraverso la roccia della scultura immortalata e tesa si agitano come
tentacoli di polipo, si allungano come tendini, si fanno strada nel marmo rosa,
divengono sottili come un foglio, qualsiasi cosa pur di raggiungere un oceano
eterno e sentire la rabbia del fulmine sull’acqua. Niente oasi di pace per gli
incapaci ad affrontare burrasche, stanno fermi lì, sopra ogni destino, e non
decretano la fortuna, solo tutti i giorni uguali con lo stesso sole, la stessa
luna e cicli ripetitivi e mai interrotti dentro i tuoi increduli occhi.
Le tue censure hanno un percorso
subacqueo fatto di ventose, dove arrischi prese, per spostarti da scoglio a
scoglio, da parete a parete, da fondale a fondale e getti inchiostro nero sulle
risposte da dare, le tue dita stelle marine hanno scritto una biografia di
rabbia, che sapevi immediatamente leccata via dalla sabbia, tutto si muove
costante e lento per cancellare quello che hai dentro. Arrischi a strisciare a
quella maniera sinusoidale, vivi il tuo mondo irrisolto e capovolto, ti sposti
leggero nel buio del tuo inconscio dove hai percorso da esperto dune di sale,
la tua pelle sa gestirsi gli sbalzi di temperatura, ha squame ora la tua paura.
Ci sono pesci come te che hanno luci per gli abissi e pelle fluorescente, c’è gente
che vive al buio perché ha la luce dentro di sé .
La mia cartella clinica prenotata e pagata è una grassa
bugia burocratica, non c’è scritto dentro né quello che mi avete fatto né
quello che sento, avete fatto risultare una locale con sedazione, perché questo
vi avrebbe permesso senz’altro di omettere altro. Ora che le tue mani che non
operano si trovano in uno spazio di pelle sbagliato, ora che c’è un conflitto
d’interesse perché improvvisamente hai trovato che sono un numero attraente, un
codice a barre che ha un nome e quando lo pronunci incredibilmente ti dà una
sensazione, preferivo rimanere il braccialetto al mio braccio, nome-codice
fiscale – data di nascita e un chirurgo a cui appartenere meno di 24 ore, per
dovere. Della tua tracotanza e poi imponenza, della tua seduzione e della tua
attenzione, della tua protezione, del tuo doppio gioco, del tuo amore dato
negli angoli come uno spacciatore, del tuo fare quadrato con gli stessi
colleghi traditi per un momento privato, del mio intuire lo sporco dietro senza
per questo cambiare sentiero, perché mi serviva un “come stai” quotidiano, un
rito da piegare e riporre nel cassetto ogni sera, un taglio da osservare allo
specchio e che tu o qualcuno mi volesse bene lo stesso. E oggi, adesso, sempre
e domani “ti voglio bene” è pronunciato da squali, dietro quelle parole ci sono
occhi ciechi neri come pozzi pronti a rivoltarsi verso l’alto mostrando il
bianco e a divorarti, vampiri hanno sorrisi fieri, appuntamenti in agenda e
telefonate da fare per rassicurare, non ti accorgi che ti vogliono sbranare,
indossano cortesia e simpatia, se ora non sapessi che dietro quei camici
bianchi aperti che prendono vento e si allargano come ali per decolli improbabili nei corridoi bianchi
che sanno di disinfettante e paura, si nasconde la fregatura. Sto qui
all’angolo dei perché con le tue parole tagliate male per l’occasione, che
invece che rendere l’effetto speciale mi lasciano lì a morire.
Ora so che c’è uno spazio di nulla dove si resta come a
galleggiare e non è la cosa peggiore che ci possa accadere, ora so che quello
spazio è stato l’inizio come sarà la fine dove non c’è un nome e un corpo da
portare, ma questo non è male. Lasciare la propria storia sulla soglia, come le
scarpe in una casa giapponese, entrare scalzi e nudi daccapo in quello che in
fondo è già stato prima di prendere coscienza quando si era solo
assenza. Farlo con educazione proprio perché non abbiamo più nome. Cosa ero davvero
di là? Senza ricordi, senza abitudini e memoria. Perché ho pianto e mi sono
avvilita quando è da questa parte che sono tornata. Guardato il mio recente
taglio, come per accertarmi del passaggio.
Al mio risveglio l’anestesista era fuggito. Mi hanno
congedato su mio esplicito immenso desiderio, preferivo continuare a sentire la
nausea a casa mia, il loro brodo vegetale non mi poteva aiutare.
Come vedi non ho mandato la polizia nei tuoi nascondigli
segreti, perché penso che la polizia sia dentro di te.
Mentre ti illudi con me che le tue parole scaldino ancora
ma hai neve dentro la gola.