mercoledì 8 novembre 2017

Maturità

Eloisa Guidarelli



Maturità
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una maturità che si avvicinava, cinque anni in un istituto che a me era sempre parso un carcere, con compagni di cella, alcuni da seguire, altri da ignorare e quelli da evitare. E secondini i professori, secondini di opinioni , attendevamo il momento per spaccio di sentimenti di contrabbando che non c’entravano con l’ordine e l’educazione quasi mai. Portavo sempre i pantaloni, e per cinque anni non sono stata un nome, ma un cognome, presente o assente, giustificata o ingiustificata, sono stata il buon voto e il cattivo voto, la correzione a lato, il sissignore e il vaffanculo. E se c’è un posto dove si impara il pregiudizio è tra i banchi, sono gli stessi professori a farsi un’idea di te i primi giorni e giusta o sbagliata, tu sarai sempre “quello” o “quella”, capito questo nessuno cercava più di convincere nessuno, eravamo voti, profili registrati, più o meno indisciplinati, quell’ultimo anno c’erano quelli che già si vivevano la nostalgia del non essere più studenti, io li credevo sinceramente “svitati” o era la sindrome del carcerato che teme improvvisamente la libertà. Troppo ossigeno in una volta, quando ti è stato concesso solo a piccoli sorsi meritati. Può nuocere alla salute. Io contavo i giorni, ancora lo ricordo il grandissimo respiro seguito da un “FANCULO” e l’addio a quei muri interni, a quelle scale, a tutte quelle sale, ai registri, ai professori, ai libretti delle giustificazioni, alle fughe alla Montagnola, chissà perché tutti quelli che saltavano la scuola a Bologna si ritrovavano alla Montagnola, l’immenso parco dove si diserta, si spaccia e ci si bacia nell’erba, e le macchine della polizia che rallentano a ogni audace palpeggiamento, ma  tutto il resto fuori da quell’edificio era da respirare, era meglio perché era diverso, nuovo e inoltre era come cambiarsi identità, non ero più la studentessa di grafica pubblicitaria, potevo essere altro, potevo essere qualsiasi cosa daccapo. Naturalmente non avevo messo bene a fuoco che quel microcosmo carcerario era esattamente una copia del macrocosmo che con aria di sfida stavo affrontando con le ali alla schiena, con il mio cambio-scena. In pratica un Icaro pieno di fiducia e ottimismo prima del salto. Ma mai ho respirato vita come quella volta che dopo la maturità ho girato le spalle a portone e istituto. Adesso nel registro delle presenze sarò assente giustificata per sempre! “Adesso” sentivo quel tempo, lo sentivo nella saliva, negli occhi, nelle scarpe e nei nuovi passi, è adesso, è adesso, cosa c’è di più affascinante del presente, cosa sono io se non Adesso non c’è nessun altro tempo, è dilatato questo “Adesso”, sono io, solo io. Adesso.
 
Ma prima di questo c’era stato il resto, quello che eravamo, la ridicola scusa della maturità, come se ci fosse un tempo esatto per maturare e non fosse un viaggio infinito, ogni giorno un’iniziazione, quando sei giovane eppure già stanca come una scusa e ti chiedi con sguardo limpido se riuscirai per una volta a fregare “il sistema” e sei sempre fuori tema.
 
Avevo la mia borsa militare a tracolla, consumata, con sopra ogni tipo di scritta, come si usava, cuori, amori, dediche, la scritta “make love not war” e il simbolo della pace un po’ ovunque, parole
 criptate che solo io e la mia migliore amica potevamo decifrare, una borsa tatuata di vita, speranze, amore e noia, ma anche paura, rabbia, un’arma di offesa di massa, un antistress tra le dita, la sua tela grezza militare, quando sotto i polpastrelli carichi d’ansia e parole che non venivano, la potevo toccare, ero lì, portavo a tracolla me stessa ogni giorno, infilando Via Ca’ Selvatica , si cercava molto la propria identità in ciò che si indossava, non erano borse, pantaloni, non era il rossetto o la matita nera negli occhi, che un po’ colava a fine giornata e sembravi una Cristiana F, uscita da un romanzo tragico fatto di concerti Rock e droga, non erano vestiti, trucchi messi a caso, la passione per David Bowie, Doors, Guccini, Vasco Rossi, Sting,  erano messaggi, era che avevamo l’esigenza di presentarci con uno sguardo, nient’altro. Non volevamo parlare di noi, era troppo complicato, volevamo essere decodificati al volo! Noi con i nostri maglioni larghi e sformati su un paio di Jeans ci sentivamo “Farewell” di Guccini, sognavamo su quelle parole. Era lì che nascevano i fumatori, quelli che per atteggiamento… poi forse avrebbero fumato tutta la vita, perché il gesto del fumare era adulto ed era fico, e poi si amava scandalizzare, non per ferire qualcuno più per affermare “sono qualcuno, ma qualcuno che vuole vivere con le regole sue” e questo era paradossale perché per andare contro le regole ci costruivamo altre regole, ferree e forse anche più spietate. Comunque io non fumavo e per darmi un tono dicevo che mi drogavo e mi godevo immensamente lo stupore sulla faccia dell’altro, per poi scoppiare in simultanea risata. Nessuno ci credeva. Avevo una faccia pulita, che tentavo di fare diventare donna truccandomi molto,  con labbra che traboccavano di rosso, eyeliner o matita nera, il risultato era uno strano ibrido di lolita che teneva lontani i miei compagni di classe e mi attirava tutto il resto, non avevo ambizioni lì dentro, ero l’assenza di ambizioni, contavo i giorni, sapevo nuotare e mi iscrivevano a gare per tutta la scuola, “io dovrei rappresentare chi o cosa? Ma a me non me ne frega niente” ma mi ricattavano, si mi ricattavano, se non avessi partecipato mi avrebbero bocciato in educazione fisica o messo 2, è la democrazia che impari a scuola, mi allenavo seriamente e il giorno della gara facevo sempre schifo, va detto che magari mi allenavano a rana per mesi e il giorno della gara succedeva che mi dicessero “Guidarelli lei ci rappresenterà con il delfino” “Un momento ma mi avete allenato a rana, cronometrata a rana!” “Purtroppo non abbiamo chi sa nuotare a delfino, mentre abbiamo chi può fare rana” “ma io faccio schifo a delfino, lo facevo solo quando me lo imponevano per punizione!” “Beh lei faccia il delfino!” Mentre gli altri si riscaldavano i muscoli facendo ruotare braccia e spalle a bordo vasca, io bighellonavo lungo tutta la corsia, mentre gli altri avevano ansie da prestazioni e sognavano medaglie, io mi incantavo come un automa a osservare il riflesso sull’acqua della vasca, la T nera da percorrere obbligatoriamente perché ogni libertà era alla fine di un ricatto, la libertà era dopo qualcosa che andava fatto, mio padre era un insegnante di educazione fisica, e mi sentivo spacciata, lo avevo sorpreso parlare con l’insegnante di educazione fisica della scuola: “Non vede tutti sono ad allenarsi ma a lei sembra non fregargliene niente”. Una ferita mi si allargava, perché costava tanto essere dentro me con il mondo fuori costantemente rifiutato. Mio padre “sei arrivata penultima” “penultima non è ultima”, ribadivo filosofeggiando la mia immancabile figura di merda, “sei arrivata penultima perché l’ultimo è annegato, lo hanno tirato su in tre, si è sentito male”. Questo confermava la mia opinione in base alla quale lo sport agonistico fa male, in effetti il fatto che l’ultimo non mi avesse superato mi pareva strano, da metà corsia non l’avevo più visto, mi ero illusa che ci fosse almeno uno che andava più piano quel giorno. Adesso che ci rifletto deludevo mio padre in ogni cosa, mi sembrava che non gli andasse mai bene niente di me, ero troppo magra, hai il culo di un ragazzo, mi aveva detto quando avevo solo tredici anni, non è normale non ti sei ancora sviluppata, avevo sempre tredici anni, porti le tue amiche sulla cattiva strada, io una strada non l’avevo neppure trovata, figurati se potevo preoccuparmi se fosse buona o cattiva, e se mi guardavo le spalle non trovavo questo seguito, mancavo di discepoli, ero una bambina a bordo vasca indifferente alla vittoria.
 
Oggi non posso fare a meno di parteggiare per chi la gara non la vuole fare, per quelli che perdono o arrivano ultimi e chissà perché hanno sempre vinto dentro di me.
 
Solo una volta in vita sua mio padre fece il padre e ci rimasi di merda, non ero preparata e fu uno shock anche per lui, mio padre era sempre stato uno che non si preoccupava di dove fossimo io e mio fratello, questo a qualsiasi età, potevo pure rientrare tardi, non si preoccupava, per lui non c’era nulla di pericoloso, “sarà stata in giro, a fare esperienza”, ecco mio padre non avrebbe mai denunciata la mia scomparsa a “Chi l’ha visto”, perché lui per primo non ci cercava, semmai ero io a chiedermi chi avesse visto mio padre. Una notte, eravamo al  Lago di Garda, con la nostra barca Carpe Diem, e io avevo appunto colto l’attimo ed ero stata fuori tutta la serata con un ragazzo che mi piaceva, ero rientrata silenziosa come un gatto sulla barca ormeggiata placida come una balena, il gniccare di corde, rumori ordinari, ci correvano sopra anche i topi del resto ogni tanto, non pensavo certo destassero quel buon marinaio di mio padre, invece fuoriuscì dal boccaporto come un Nettuno incazzato, mi fece una piazzata, una piazzata incredibile “Ti sembra l’ora di rientrare eccetera…” E io ero allibita, pensavo lo avessero sostituito gli alieni, quando mai si era preoccupato di orari? Ma aveva aspettato i miei 17 anni per svegliarsi e proprio quella cazzo di notte? E si arrabattava con rimproveri che sembrava cercasse in esperienze altrui ed eravamo sinceramente stupiti entrambi, alla fine decide persino di punirmi, una cosa patetica, assurda, mi dice che non posso scendere dalla barca fino a quando non lo deciderà lui, e che cazzo faccio Ulisse? – Il giorno dopo io avevo un broncio lungo una casa e le mie amiche e i miei amici facevano una triste fila davanti alla barca, sembrava il CUP, io parlavo loro dalla prua, ridevano. Io meno. Gli ho inciso sulla barca un piccolo cuore con il nome del mio amore, non se ne è mai accorto, penso l’abbia venduta anni dopo così, qualcuno si sarà chiesto chi cazzo è M?
 
Il tuo fidanzato comunque non mi piace.
 
Non gliene sarebbe mai piaciuto nessuno. Fino a quando ho semplicemente smesso di presentargliene, dichiarandomi una single a vita, una scelta di fede quasi. Ancora oggi lo preoccupa il fatto che io non abbia mai nessuno. “Perché non ti piace? Non fa niente di male” “Tiene le mani in tasca quando parla” “ E per questo lo giudichi? Uno sarà libero di tenere le mani dove vuole,  nei limiti s’intende”. Battaglie perse, tutte, inesorabilmente e dopo avere vissuto anche l’esperienza dell’esilio, passata in prua attaccata alla sartia della barca, ondeggiando insieme allo scafo nella complicità della noia, mi apprestavo come tutti i reclusi ad accettare di perdere battaglie ma a sognare di vincere la guerra. E tutta la vita ho anelato alla grande fuga.
 
Erano gli anni 80 ma a me sembrava di essere una creatura degli anni 70 che ha sbagliato portale, era come se io e gli anni 80 non avessimo niente da dirci, ogni mattina era lo stesso latte, lo stesso zaino, l’angoscia di interrogazioni a tappeto, espedienti, la via Nosadella fatta di corsa perché eravamo sempre in ritardo, il ragazzo che ti piaceva che prendeva ogni tuo pensiero, e il suo nome proiettato sempre davanti al tuo sguardo, su ogni pagina di diario, giornate di cultura tolte a una sana masturbazione, quindici, sedici, diciassette anni, guardati dal finestrino di un autobus, ma più spesso amavamo stare dietro dove il vetro era più grande e vedevi la strada scorrere via, e c’era quella mezz’ora per dirsi e confessarsi se si era ancora nel gruppo delle vergini o dall’altra parte, quali materie hai? Ci troviamo all’ora della ricreazione? Sai ho una novità, indovina, non so come dirtelo, ora sto dall’altra parte, e si apriva un baratro nello sguardo delle vergini rimaste, una distanza incolmabile, e ti pareva che così ora avevi preso la tua vita in mano e sapevi cose che altre non sapevano, ti pareva che si leggesse sul tuo viso, che tutti potessero capirlo dal tuo sguardo nuovo, diverso, pensavo sempre che chiunque osservandomi potesse capire che avevo appena fatto sesso, era un qualcosa che si poteva intuire, un qualcosa che ci legava tutti, come se gli altri potessero fiutarti, non cambiava se eri vestita, truccata, lavata, e neppure se era stato il giorno prima, perché ti si leggeva in faccia, forse gli altri non lo sanno mi dicevo, non possono saperlo, ma lo sanno a livello inconscio, qualcosa tipo feromoni, qualcosa. Hai qualcosa dopo. Qualcosa di diverso da prima. E quindi mi pareva di varcare la classe nuda, con la mia borsa militare tracolla ma con un’altra storia.
 
Chi è giovane ama gli estremi,  “Suora” era più offensivo che “Troia” e le vie di mezzo sembravano non essere degne di terminologie… Chi è giovane ama le categorie quindi dovevi appartenere a qualcosa, c’erano i Dark, i Metallari, i Paninari, un altro gruppo che ora non ricordo ma riguardava l’appartenenza dei più fighetti, gli snob di Bologna, quelli che vestivano certe marche e solo in certi negozi, come mi collocavo io? Il mio primo trauma è stato quando il mio primo ragazzo di cui ero molto innamorata mi ha definita “Freak” ma con un certo disprezzo… “ Tu sei una freak , usi quelle scarpe, quei pantaloni, sei così” Il termine mi piaceva avevo sedici anni, solo che capivo che lui evidentemente non amava il genere, un altro innamorato un anno dopo, (un anno al  massimo duravano le mie relazioni, nove mesi per l’esattezza, il tempo di una gestazione mancata, e poi cambiavo compagno, ero metodica) mi avrebbe detto: “ Dovresti depilarti le gambe” “Perché? Sono peli biondi.” “Sono biondi ma sono lunghi tre metri”.
 
Gli uomini sembravano nati apposta per venire a creare complessi a ragazze libere e fiere dei propri peli.
 
E ancora: “ Insomma ma tu, tu sei così perfetta con quel maglione dal collo alto bianco, hai mai spaccato una vetrina? Ti sei mai fatta una canna, hai mai osato qualcosa?”
 
Cazzo, questo era il mio maglione preferito, e questo stronzo per me era pure orientato a diventare un fascio, “Senti no, non ho mai spaccato vetrine, mi dispiace immensamente di darti questa delusione, e questo mio maglione è il mio preferito e sai qual è il problema che un altro potrebbe trovare molto bello come vesto! Vaffanculo!
 
Fine di una relazione, la cosa che mi aveva offeso più di tutte non era la storia delle canne e delle vetrine, ma ci avevo messo un casino davanti allo specchio a scegliere quel maglione, che per altro trovavo così sexi con il collo alto e quelle due trecce sottili che passavano sul seno.
 
A trent’anni compiuti avrei sconvolto una compagnia teatrale durante quei flussi di autocoscienza e di libere confessioni, rompendo il silenzio e dicendo “No io non ho mai visto un film porno, in realtà non mi sono mai fatta una canna,  ma per il resto ho fatto tutto”.
Chiaramente tutti scoppiarono a ridere e io capii quello che passava loro per la testa, non ebbi mai tante proposte per un eventuale passaggio a casa. Era stato un salto temporale, ero sempre quella ragazza eppure c’era stata in mezzo una vita da adulta.
 
Appurato che alle scuole superiori il mio orientamento era freak, c’era nella nostra classe una ragazza bellissima, che aveva un viso incredibilmente perfetto e che sembrava anche meno bambina di me, era Dark e aveva poche amiche che si sceglieva, io andavo d’accordo con lei, in fondo neppure io facevo parte della massa, aveva una cresta incredibile, era magrissima, vestiva di nero, più buchi nelle orecchie, un orecchino nel naso, solo a volte metteva un maglione giallo, diceva che il giallo era consentito, ero affascinata, anche se mi sembrava una gabbia, ma in fondo era l’età in cui per contestare gabbie te ne costruivi di tue, per contrastare divieti ti creavi divieti, era l’età che per odio della corrente non capivi che il tuo andare contro-corrente era sempre una corrente, solo imposta da te. Si faceva croci sui polsi con le lamette, molto spesso, non sapevamo come trovare le parole giuste per non fargliele fare, e infatti non le trovavamo, perché quello che lei si faceva sulla pelle era quello che in altri modi noi facevamo sulla nostra anima, tutti ci creavamo ferite, e se nelle nostre il sangue non si vedeva, lei portava al polso in quella croce di sangue raggrumato, il tribale tatuaggio delle parole che a noi non uscivano, di dolorose censure, e di tutte quelle paure. C’era intorno a lei un rispetto sacro, qualcosa che non oltrepassavi, il fatto è che era comunque più grande di noi, in quella chiusura in se stessa, c’era un mondo che celava qualcosa per il quale noi apparivamo solo matricole della vita. Ascoltava i Cure e rimase incinta a vent’anni, smise di essere Dark , divenne ragazza madre e la sua fu una vita ordinaria. Spero felice.
 
E poi venne la gita a Parigi, Amsterdam e varie entusiasmanti tappe di crescita.
 
A Parigi con i professori di Video, avevamo questa materia, si imparavano montaggi video e i segreti di un mixer, di una messa in onda, ce ne fregava quasi come della materia di religione, nessuno ascoltava, nessuno studiava. Dove ci hanno portato a mangiare a Parigi? In un ristorante cinese, il peggiore ristorante cinese di Parigi, dopo sono stata male, ero piegata in due, ed ero stata trascinata letteralmente in spalla dalle mie compagne di classe, ero anche vagamente brilla, ricordo ancora di essermi bloccata sulla scala a chiocciola dell’albergo, chissà perché mi hanno sempre inquietata, provocato una sorta di panico, non riuscivo né a salire, né a scendere, le mie compagne di classe non sapevano se ridere o preoccuparsi, poi come al solito mi hanno aiutato vedendo che si rischiava di passare la notte sulla scala a chiocciola, in albergo mi riprendo, suona il telefono, eravamo in 4 in camera, 4 ragazze, tutte molto legate, e ci chiediamo chi può chiamare in camera di notte, rispondo io, e dall’altra parte del telefono sento una voce, quella del mio professore, io non credo sia possibile e mando a fanculo quello che penso essere l’artefice dello scherzo, ma subito dopo, sentendo risata e imbarazzo dall’altra parte, capisco che ho appena mandato affanculo il mio professore, aggiungo “prof, mi scusi pensavo fosse,  si è sbagliato allora…” “No, non mi sono sbagliato volevo sentire proprio te” . Durante quella gita a Parigi mi aveva poi dato tra le mani un bigliettino, una specie di dedica d’amore, lo avevo fatto leggere alle mie amiche che avevano già sentenziato all’unanimità “porco” e non mi mollavano mai sola, era imbarazzante, il professore che ci accompagnava tutti in gita  e ci provava con me. Naturalmente a me non piaceva, anzi mi disgustava proprio, era viscido, mellifluo, e tornati dalla gita per facilitare tutti quanti alla maturità, ricordo che era una materia in cui tutti o quasi avevamo pessimi voti, perché eravamo disinteressati, nessuno si applicava particolarmente, ma neppure i professori devo dire, si applicavano di più a notare le allieve, bene per venirci incontro, lui diede il sei politico a tutti, a tutti anche quelli ben lontani dalla sufficienza, ma non a me. Era chiaro che mi puniva perché non avevo ricambiato a Parigi, e le mie amiche lo sapevano tutte. Con una di loro andai a parlargli personalmente, in due gli chiedemmo ragione di questo accanimento verso di me, la mia amica aggiunse “non è giusto che lei non abbia il sei politico che ha promesso a tutti per facilitarci, così le rovinerà la media, a lei cosa cambia, è l’ultimo anno, ha la maturità” E lui, disgustoso, disse “Eloisa non ti danneggerei mai, ma proprio non posso farci nulla” Tagliai corto “Io e lei sappiamo bene il motivo, mi risparmi questa recita e faccia come vuole, non mi interessa più, però le volevo dire soltanto che io so perché, io so perchè”
 
 E non so invece  perché non lo denunciai, avevo i testimoni, avevo il suo bigliettino, ha telefonato in camera dove eravamo in 4, aveva già una storia con una minorenne conosciuta da tutti nell’istituto, ed era chiaro che se avessi risposto al suo corteggiamento avrei avuto altri voti, ma avevo solo la nausea, era l’inizio di una serie di ricatti più o meno sessuali che mi sarebbero capitati anche in futuro, ma ne avevo fatto la prima conoscenza in quel momento.
 
E si cresceva.
 
 
Crescere a scuola.
 
I miei genitori mi avevano consigliato la scuola di Grafica Pubblicitaria, perché all’Istituto D’Arte girava voce si facessero le canne. Nella nostra scuola se le facevano sui tetti.
 
L’insegnante di educazione fisica dei maschi, si era divisi in maschi e femmine, mi corteggiava, soprattutto da bambina, uno strano modo, velato, sessuale, era bello, tutte noi lo trovavamo bello, era il Figo della scuola, vestiva sempre elegante, ma aveva chiaramente molti più anni di noi e il suo corteggiamento è cominciato quando avevo sui quindici, sedici anni, mi diceva che assomigliavo a Nastassja Kinski e mi chiamava sempre così, ciao Kinski, ciao Nastassja,  e mentre faceva l’appello con i ragazzi davanti, “tu , ti puoi spostare che non la vedo.”
 
Ma siamo sicuri che dovevamo prenderla noi la maturità? Al di là di queste battutine era innocuo, va detto che quella era l’età in cui le ragazze, tutte noi scoprivamo il nostro corpo, ma ancora ci muovevamo come bambine, ovvero ti metti una gonna, ma stravacchi le gambe, ti metti una maglia senza reggiseno e ti chini a quattro zampe e tutti ti vedono fino all’ombelico, quando il tuo corpo cresce ma tu non hai ancora quei comportamenti per celare questa crescita, perché lui è in anticipo rispetto a te. Lui è in anticipo rispetto a te, è così.
 
 
 
 
 
 
 
 
Poi è arrivato il fatidico quinto anno, quello della Maturità, ma ci fu una mattinata a scuola, in un giorno di ordinaria follia, che rischiò di pregiudicare il mio ultimo fondamentale esame.
 
Avevo attraversato Via Ca’ Selvatica occhi a terra, come sempre, tenevo un basso profilo,  mi guardavo le scarpe come se fossero loro a muovere i passi perché io mai li avrei mossi in quella direzione, ero entrata come per automatismo dalla porta a vetri dell’istituto e mi ero messa lì come ogni mattina, in tutti quegli anni ad aspettare le amiche, per fare gruppo, chiacchierare. Ma mi rendevo conto che tutti mi guardavano come se venissi da Marte e che c’erano sorrisini maliziosi, bisbigli alle orecchie, occhiate in tralice, fino a quando una mia amica, mi viene incontro con altre, mi prende per un braccio, mi scuote dalla mia apatia: “Ma tu non ti sei accorta di niente? Perché non è possibile non accorgersene” le altre ridevano, io non capivo, cominciavano a spaventarmi “No, di cosa dovevo accorgermi?” , questa mi guarda allibita e mi trascina fuori dalla scuola fino al portone gigante, dove a vernice rossa su tutta la grandezza della porta è scritto il mio nome seguito da un TI AMO, mi si mozza il respiro, la mia amica mi trascina ancora fuori e mi dice “e quello non è niente!” Facciamo tutta via Ca’ Selvatica, la strada della scuola, sopra i vetri di tutte le macchine parcheggiate è scritto a vernice il mio nome seguito dalle parole “TI AMO” , è scritto persino su una statua della Madonna in fondo alla via, quelle saranno tutte le macchine dei professori, del preside, non respiro più, sono pallida, comincio a balbettare “Beh potrei non essere io” , ma la mia amica mi riconduce alla realtà “Sei ELOISA, ti chiami così soltanto tu, in tutto l’istituto” Cazzo!! Questa creatività nei nomi, se mi chiamavo Barbara ero a posto, era pieno di Barbara… Era tutto così, la via, il portone enorme, le macchine, dovunque il mio sguardo si posava ELO TI AMO, ELOISA TI AMO, sui vetri delle auto ci stava solo Elo ma per sicurezza, non fosse chiaro, le scritte erano su tutti i lati, parabrezza compreso, ero spacciata. Non volevo entrare, da parte delle donne ero diventata una specie di leader dell’amore, i ragazzi erano stupiti, una mia amica, la stessa che mi aveva accompagnata dal professore di video cercava di farmi passare la rabbia, “Ma dai è romanticissimo, ti ama” “ Ma ti rendi conto? Le macchine dei professori? E se mi chiedono chi è? E se mi obbligano a parlare? E se non è vernice lavabile? Questo stronzo lo ha fatto stanotte, può averlo fatto solo questa notte, merda sono nella merda!” Le amiche : “Telefonagli” Gli telefono, telefono a gettoni della scuola, la moneta che scende, quel rumore che precede la comunione dei respiri, quel tuffo nel pozzo che concede la parola, quel filo attorcigliato nelle mie dita e la gola deglutire ansia e rabbia, risponde, lo aggredisco “Ma che cazzo ti è venuto in testa?” “Cosa?” “Non fare il coglione!” Ride, è orgogliosissimo “Senza il palo non avrei potuto riuscirci, abbiamo corso un grande rischio, l’abbiamo fatto di notte, poi all’alba abbiamo… in alcuni punti ci serviva la scala, e allora…” “Ma sulle macchine e ovunque, io ho la maturità in questo posto, ti rendi conto?” “Ma tu digli che non sai niente! Oh mi raccomando mica fare il mio nome! ” “Mi chiamo così solo io qui dentro, solo io!” “Ma ti piace?” “NO!”
 
Ora so che è stata una delle cose in effetti più romantiche che abbiano fatto per me, illegale e romantica, ora so che tutte le donne mi invidiavano, che le mie compagne erano folli per questo principe azzurro della bomboletta, ma allora non potevo esserne felice, ero paralizzata dai professori e da quello che poteva succedere. Immagino anche in quanti abbiano pulito la macchina mandandomi accidenti.
 
Il professore di fotografia era un tipo strano con l’aria da tossico, una sigaretta incollata sulle labbra, arrivava sempre con una decappottabile verde bottiglia sportiva che parcheggiava all’interno della scuola. Appello, un silenzio agghiacciante. “Bene – picchietta sulla scrivania – Guidarelli, non per farmi gli affari suoi – sorrisino malizioso – deglutisco, mi sento come di fronte a un plotone e spero solo mi uccidano subito  ma che cosa fa lei agli uomini?
 
Balbetto un -  “Io, niente, niente, non saprei” Intuisco però che la sua macchina non era tra queste, altrimenti non l’avrebbe presa così.
 
La lezione continua, qualcuno fa una battuta che lui non gradisce e vedo volare il registro a un millimetro dalla mia tempia e colpire in pieno il compagno dietro.
 
Professore di religione, al quale fin dai primi giorni avevo confessato di essere atea e gli avevo chiesto tentando di non offenderlo se potevo cortesemente disertare, e andarmene in giro a trovare la mia fede un po’ dove mi pareva, aveva acconsentito. Aveva persino acconsentito che mi facessi fogliettini per i compiti in classe, così da copiare meglio, era la mia ora di carboneria. C’era un rispetto reciproco.
 
-         Guidarelli? Va bene l’amore ma… anche sulla Madonna…!
 
Tutti a ridere.
 
Non ce la facevo più.
 
E ancora, il professore di italiano:
 
- Guidarelli lei sa chi è stato?
 
-         A fare cosa?
 
Risate
 
“ A scrivere il suo nome a vernice ovunque”.
 
“Ma non sono io, insomma sarà una che si chiama come me.”
 
Risate
 
“In questa scuola c’è solo lei”
 
“Magari sarà una non di questa scuola, magari non sono la sola ad avere questo nome”
 
“Non sa chi è quindi?”
 
“No”
 
pensavo chissà se passeranno  alle torture
 
“Non conosce nessuno che potrebbe fare una cosa di questo tipo?”
 
“No”
 
Ogni professore le stesse domande, archiviavano di fronte alla mia ostinazione e quando lui passava a trovarmi a scuola tutte le mie amiche lo guardavano dalla finestra e cominciavano a truccarsi, “Elo c’è il tuo ragazzo, lo salutiamo noi mentre tu ti prepari” un cicaleggio continuo, un chiocciare infinito, seni schiacciati contro la finestra aperta, incavo di gallerie morbide e vellutate sotto le ampie scollature,  lui sotto con il suo sorriso da schiaffi, immerso in quel soffitto di tette a urlarmi “Elo perché non ti affacci, stai facendo religione, preghi?” E il professore di religione mi guardava con una pazienza che era arresa disarmante nei miei confronti, “non è neppure colpa tua è la tua età” sembrava dirmi quello sguardo,  e lui faceva il ruffiano con tutte le mie amiche e loro: “Elo c’è il tuo ragazzo, che simpatico” “Niente male, Elo”  e io : “Prego, prego!”
 
Capivo che era arrivato a scuola e mi aspettava quando vedevo le mie amiche rifarsi il trucco e mettersi il rossetto.
 
 
E penso che forse ti amo solo per come hai detto “andiamo”
e sul serio sento tutta la pressione espressa dal tuo desiderio,
devo tornare dentro me ma non conosco più la strada,
ci sono le tue labbra,
le tue mani davanti,
come porte chiuse,
come scuse,
ho capelli nuvole di neve e labbra cotte al vapore.
 
 
 
Eloisa Guidarelli


 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 15 settembre 2017

L'ira degli Dei


Eloisa Guidarelli - Foto





L’ira degli Dei
 
Come raccontarti del percorso osceno della gioia, ora.
Come della giustizia che è una puttana che decide da chi farsi sbattere, o di puerili e pochi idealisti che si muovono come uccelli con le piume a raccogliere tempeste e vento contrario, come spiegare ogni sbaglio, mentre piedi nudi solcano la sabbia, nell’antico gesto del raccogliere conchiglie, necessario a dimenticarsi, per collezionare parti di noi e risate di bambini saccheggiate dal vento, ormai da tempo, branchie sgomente e stupite dell’amo, annaspano in preghiere d’ossigeno, fino a quando anche il dolore diventa ovatta, e gente sorda deambula sul lungomare, che appare pieno di fantasmi traditi da sguardi pratici e uno stomaco da gestire in orari prestabiliti. E lì su quella parte di riva,  conchiglie rotte, chele di granchi, ossi di seppie, ho potuto pensare senza interruzioni ai tuoi capelli bianchi come nuvole, che ti spostavo dietro le orecchie con parole leggere, leggere come ragnatele, dove le intenzioni rimanevano impigliate e arrese.
 
Prima di dedicarti ogni luna piena, mi ero resa distante, solo perché c’era qualcosa di sbagliato quanto di perfetto nelle tue mani.
 
 
 
Non voglio ricordare le tue dita ferme, ma mentre si muovono a creare, non voglio pensare i tuoi occhi fissi al soffitto e al vuoto, li voglio pensare  a scrutare, capire e ascoltare…
 
INCANTATI
 
 
I tuoi occhi curiosi a cui hanno tolto tutte le domande, erano come una città dopo un bombardamento
 
La tua incredulità mi ha ucciso, come sempre mi uccide la speranza che muore.
 
Ti voglio bene, non ti dimenticherò mai, dove sei, oltre una stanza piena di bombole d’ossigeno, come missili poggiati lì a puntare verso l’alto in una guerra persa per la vita, nell’ennesima battaglia che tutti, io per prima, desideravo vincessi, ma tu avevi capito la resa, la serenità e la necessità dell’arrendersi, il conto alla rovescia, un salto da volere spiccare, ma pareva che anche per quello mancassero le forze, come era una lotta l’atto di respirare, perché è paradossale, ma la morte si fa anche implorare, eppure tenevi questo filo sottile, come si tiene un aquilone, e io sfioravo la pelle trasparente delle tue mani come acqua di pozzanghera, dove specchiarmi come Ofelia capovolta, ancora una volta, “rimani” . Ora sei tu che dipingi la luna ogni notte, sei tu che non te ne sei mai andato del tutto, a mandarmi la voce di tuo figlio, uno sconosciuto per me, che porta il tuo cognome, sei tu che fai camminare coccinelle sulle mie tele ancora da dipingere, non mi perdo un tuo messaggio.
 
“Sei a casa tua adesso, sei contento?” non potrò mai dimenticare il tuo sguardo pieno di stupore e orrore e allo stesso tempo di obiettività “Non la riconosco più” . Ho capito cosa intendevi, non l’ho solo capito, peggio, l’ho sentito e queste tue parole non se ne andranno mai, anche se tu, tu sei un abbraccio senza fine, tu sei un abbraccio senza fine.
 
UN ABBRACCIO SENZA FINE , se lo provi nella vita non lo dimentichi.
 
Athena si rifiuta di difendere una città che non accoglie e così raccoglie le sue armi e la sua stanchezza e lenta e bianca, passo dopo passo, si avventura nel mare, che a lei, dea immortale, si apre, il suo nudo nascosto dallo scudo.
Lunghi capelli,
punte bagnate a sfiorare le natiche,
adamitiche fruste,
occhi delusi,
blu liquidi,
segreti come anfratti di rocce,
incostanti come maree,
dove la malinconia e la distanza eterna giocherebbero in un equilibrio raro di erotismo e disperazione,
caduta illusione,
un solco tra le labbra di marmo a disegnare l’amarezza suggerita dallo sguardo.
 
Passo dopo passo,
onda dopo onda,
con la determinazione che dà la rabbia,
il senso di giustizia che porta alla vittoria,
indignazione a inseguire calunnia,
con le ferite aperte,
tutte aperte
a respirare il sale come frutti di mare,
come piante carnivore dalle bocche esperte nel deserto,
dove il tuo pensiero è erba di macchia, che anela guerra come acqua.
 
GUERRA COME ACQUA
 
 
 
Athena arresa, offesa, tradita, rifiuta ogni cittadinanza perché è stanca di guardare verso l’alto, sentire nelle grida dei gabbiani gli ultimi disperati richiami, speranze di uomini frangersi contro gli scogli, Athena pallida di conchiglie e granchi che le hanno scavato il corpo in piccoli tunnel senza passaporto, Athena che non può esportare amore, embargo di emozioni, la polizia sopra il cuore, dove le maree hanno cantato a lungo e in privato di sogni, di spuma, come amanti che recitano poesie sui seni salati,  Athena innamorata di rifugiati e migranti, straziata di dolore, si rifiuta di difendere una città che odia e non accoglie, Athena apolide, apolide Athena, mostra impronte digitali senza confini e occhi che hanno scavalcato da tempo il filo spinato, crescono stelle marine per croci clandestine mai piantate e mai arrivate, stillano come cinque dita di sangue.
 
 
Posto di blocco,
documenti,
burocrazia che travolge i sensi,
non ricordo il mio nome,
forse non l’ho mai avuto
poiché qui
qualcuno
nella sua divisa
mi sta dicendo
che non esisto
solo
non ricordo
da quanto tempo
ho una lettera d’amore che non arriverà mai
 
 a lei
 
 
Oceanine abbracciano quei volti e quei corpi come risorti tra dita delicate, Calipso da tempo pensa di trattenere qualcuno da amare con la forza del mare, ma quando a portarglielo via è un foglio di via, è disposta a impugnare l’arco della rabbia, creato nella solitudine e nella costanza, e scavalca, come solo sa fare lei, uomini e dei, si pone faccia a faccia alla vostra inerzia, le basterebbe uno sguardo soltanto, come a un uccello, per intuire l’origine del vento, per decretare tempesta, su ogni vostra testa, perché il piccolo uomo ricordi che solo gli dei stabiliscono confini tra il finito e l’infinito, che è solo a loro dispetto e gusto, osservare pazienti o distruggere tutto, che non sei tu, piccolo essere umano, a stabilire i confini su ciò che io amo.
 
Calipso si muoveva come una belva offesa, si rifiutava di tessere come una Penelope e ascoltare storie d’altare  nella sua grotta e reggia, le prudevano le mani, gli uomini si permettevano di stabilire confini ma erano loro ad avere sconfinato, “Non ci sono condizioni, né leggi, non ci sono rifugiati, schiavi o padroni, sono tutti esseri umani e da tempo immemore sono tutti nostri schiavi, solo noi decretiamo fato e destino di chi ci è vicino!” E siccome stava montando una questione grave, da quando gli esseri umani stabilivano zone di confine, le ninfe del mare erano stanche di sentire il dolore dei morti annegati, di sogni perduti, di amori finiti, e finirono loro stessi, gli dei, per sentirsi burattini, rifugiati, interdetti, allontanati, decisero tutti dopo una riunione a porte chiuse con Poseidone che avrebbero atteso uno a uno i responsabili dei confini, di accordi inumani, come tutte quelle persone che, con la loro indifferenza, alimentavano questo flusso di coscienza, li avrebbero sterminati, così le maree furono cavalcate da dee  che tenevano a galla con costanza ogni imbarcazione che portava verso la speranza e affondavano senza nessuna pietà ogni imbarcazione che si muoveva per respingere, sparare, impedendo che tutte le persone offese dalla vita potessero arrivare, ci furono problemi perché le dee si innamoravano dei migranti, Calipso era una di queste, o qualche altra oceanina, prendendo troppo a cuore un bambino o una bambina, si convinceva che era meglio tenerlo con lei, perché lo vedeva più a rischio a riva, e dovendolo rilasciare, come una madre angosciata, seguiva con ansia il suo destino, nuotandogli sempre vicino, quando aveva difficoltà, facendolo respirare.
 
Athena scatenò guerre senza pari a tutti gli stati  e le città che non accoglievano, anche perché da apolide ne faceva una questione personale, e la Libia tra questi se la vide molto male. Qualche rifugiato accettò l’immortalità, gli dei mischiarono le razze  e diedero ad ogni razzista l’immortalità, decretando che per tutti i giorni della loro infinita vita avrebbero dovuto vedere un mondo di tutte le razze crescere e crescere, gonfiandosi in numero esponenziale, come un cavallone del mare, con forza e determinazione centuplicate, così da essere sbeffeggiati per l’eternità, l’umanità si sarebbe mischiata al punto che sarebbe stato impossibile e inappropriato parlare di razze, finalmente si sarebbe dovuto accettare che la razza è una, quella umana, per questo erano già morti uomini e donne di valore, gli dei disprezzavano i vigliacchi e osservavano dall’alto, seppure con i loro capricci, quegli uomini soli, davvero soli, spesso contro tutti,  gli dei del mare, inoltre, erano stanchi di morte, non si trattava di naturale incidente, del quale diciamocelo chiaro, non gliene fregava niente, per quanto drammatico e ingiusto anch’esso potesse sembrare, era pur sempre selezione naturale, gli dei del mare e le ninfe, erano stanchi di vedere “respingere”, era la morte degli ideali, era la morte dell’umanità, era una morte inconcepibile anche per lo sguardo pigro e cinico dell’immortalità, ma la cosa che li fece reagire e attaccare tutti i mortali fu che l’unica lezione che potevano insegnare è che non è mai l’uomo a comandare.
 
 
 
E così gli cancellarono per sempre dal volto questa illusione, quasi per sempre, perché non avevano considerato che l’essere umano è recidivo.
 
Mandarono alluvioni, uragani dai nomi di donne fatali e brutali, e così era del resto, gli dei avevano decretato che il clima si sarebbe ribellato fino a quando l’uomo non avesse avuto di meglio che sprecare il suo tempo con zone interdette e filo spinato.
 
Si ostinavano a dimostrare che è la natura stessa a decidere chi vive e chi muore, quando l’uomo ha la presunzione di accorciare i tempi di ogni già precaria e fragile vita, facendosi prendere la mano per megalomania, avidità, desiderio di potenza, gli dei lo prendono per un affronto personale e la natura a quel punto non sta più a guardare.
 
 “Se vuole la natura uccide più del terrorismo!”, imprecò un Nettuno stanco di portare sulle spalle bare con nomi fatti di vento, “ma all’uomo non basta e gioca sempre di anticipo!”.
 
 Ed è così che gli dei si offesero a morte e decretarono una delle più grandi e sanguinose guerre all’uomo, lasciarono devastazione e dolore, e l’essere umano, da piccolo quale è sempre stato, imprecò contro l’atroce destino, la cattiveria della natura, ombra era la sua stessa paura, neppure nella devastazione più totale e profonda si ricordò di quanto male, di quanto male nei secoli, solo per esigenza di conquista, ambizione, aveva causato, gli dei si stupirono alla fine dell’Apocalisse da loro scatenata, di dovere ammettere che non erano giunti allo stesso numero di defunti creato dall’essere umano, un piccolo e ignobile mortale.
 
L’uomo non sa vivere, l’uomo non sa amare, l’uomo non sa apprezzare, l’uomo non sa dare, per questo non è immortale.
 
 
Sulla spiaggia i turisti sono informati ogni istante dal Bagno Gildo, al massimo volume stereo, degli eventi della Grassa Romagna, in modo che possano avere una vasta scelta su come passare la serata, poi in mezzo agli spot di dubbio gusto che celebrano all’unanimità l’umanità cretina ma leggera e disimpegnata come deve essere in vacanza, uno spot dal tono serio, che avvisa che chi verrà trovato a comprare merce in spiaggia, quindi non dai locali o anche ad accettare massaggi da gente improvvisata, subirà una multa, di venti euro mi pare, e poi con affetto rinnovato, seguendo il perfetto stile bastone/carota, specifica che questo permetterà la legalità, e aggiunge, giocando sull’orgoglio personale, che noi stessi contribuiremo a difendere il “made in Italy”, sorrido visto che il made in Italy oggi, anche dei più grandi stilisti, è sempre creato con l’apporto di cinesi sfruttati e a basso costo, non solo cinesi è vero, sfruttati e a basso costo, ma ci accontentiamo di ogni latitudine, siamo per l’accoglienza in questi casi,  e poi riparte la pubblicità della piadina romagnola, macchine della polizia sfilano ripetutamente a intervalli regolari sulla spiaggia, in pieno giorno, quindi non per controllare che non ci siano stupri, anche perché troppo chiasso e troppe famiglie e troppa luce non arrischierebbero neppure il più assatanato degli stupratori, ma probabilmente proprio per assicurare il made in Italy, made in Italy che spesso non fornisce scontrino fiscale in Romagna, la Grassa e Accogliente, e se lo richiedi a malavoglia te lo battono, scusandosi con poca convinzione della sbadataggine o distrazione made in Italy.
 
Facciamo anche armi made in Italy, ma siamo pacifisti, le esportiamo solo, ma non capiamo poi perché tutta questa gente arriva da noi? Ci offriamo di aiutarli a casa loro, ecco qui mi sfugge, perché da una parte li vogliamo aiutare a casa loro, ma casa loro l’abbiamo distrutta noi, quindi che facciamo, gliela ricostruiamo e poi gliela bombardiamo?
 
Ora magari il concetto made in Italy se fosse onesto andrebbe pure bene, ma non state razzolando male? Ho dubbi anche sul concetto, mi ricorderò tutta la vita di un massaggio fatto da un pakistano in spiaggia, gli ho comprato anche un anello bellissimo e il mio corpo non è mai stato tanto meglio in vita sua, questo era veramente bravo altroché, incredibilmente rispettoso e bravo, ai miei muscoli, alle mie ossa, ai miei brividi e alla mia mente che si librava e sconfinava  nel Nirvana senza visto e con impronte digitali farfalle non gliene fregava nulla, assolutamente nulla che non fosse italiano.
 
La dispettosa Calipso si travestì da mortale e si mise sulla seconda fila del Bagno Gildo che dava sul mare. Che orrore pensava, per rabbia aveva mandato meduse a costeggiare tutta la spiaggia e bagnanti uscivano saltando con abrasioni e non osavano avvicinarsi all’acqua.
 
 La dispettosa Calipso poi non capiva sinceramente perché queste donne umane stavano a pagare cifre esorbitanti per fanghi e impacchi di alghe contro la cellulite, quando lei, quel pomeriggio, aveva offerto loro un mare pieno d’alghe e se la rideva quando le donne entravano per un tuffo in acqua e se ne uscivano coperte di alghe verdi urlando.
 
Calipso non è che non si notasse, aveva gambe muscolose e agili da nuotatrice esperta e un seno appena accennato, lo teneva scoperto, la divertiva scandalizzare le famiglie con carrozzine e figli al seguito sulla spiaggia, la innervosiva quella donna media moralista e ridicola, tutta pappine e pannolini che non sapeva parlare di altro, gli sguardi lascivi dei mariti le percorrevano il seno, per battere in ritirata appena sorpresi dalle mogli, sembravano quelle lumache d’acqua che si ritraggono appena le sfiori, ma le mogli, comprensive, fedeli, stupide, schiave del loro ruolo, facevano finta di non dargli peso. Calipso aveva la nausea, ma aveva deciso di passare un giorno tra gli umani, se l’uomo che Calipso si fosse scelta avesse guardato in tralice un’altra Dea, non parliamo poi di una comune donnetta, lo avrebbe incenerito lei stessa.
 
Calipso da quando era successo ciò che era successo con quello stronzo di Ulisse, soffriva della crisi dei 7 anni, arrivata al settimo anno si disfava di chiunque, un tempo ridicolo per una immortale. Ma non accettava di essere lasciata.
 
Dopo l’ennesimo spot sulla piadina romagnola, Calipso ne ebbe abbastanza e si mosse verso il bagno con l’andatura di un felino.
 
Calipso stabilisce un tempo presente dove muoversi adesso, gioca spesso con il tempo, ovvero crea un presente che rimane tale senza che diventi passato mai, una sorta di infinito presente, inconcepibile per noi esseri umani, salvo quando siamo innamorati, ma di regola ce ne dimentichiamo, dilata il tempo come un elastico, blocca in un fermo immagine perfetto il resto. Può, se vuole, aumentare la velocità del tempo e farti invecchiare in un secondo, o bruciare la tua vita con uno sguardo fino a farti tornare nella culla, o ancora prima del parto, o in un atto di sublime perfidia fare sì che i tuoi genitori quel giorno fecero altro e allora tu non nascerai mai più.
 
 Calipso vede tra gli ombrelloni un ragazzo sperduto che si guarda intorno, vorrebbe chiedere ma non chiede, la Dea sente ogni vibrazione, capta il suo imbarazzo, l’ adrenalina che si porta addosso, gli dei sono animali, lui vede questa donna che lo fissa nell’indifferenza della gente, tenta, con timore, un approccio goffo, gli escono mezze parole,  di cui lui stesso non è certo, come le dicesse pentito in anticipo, temendo un rifiuto:
 
 - “Hai qualcosa? Ho fame”.
 
Calipso gli è vicina, anche se lui non ha avuto alcuna percezione del movimento, gli dei hanno abilità di vampiri, uno sguardo è una radiografia dell’anima, si muove come se il mondo e il ragazzo compreso gli appartenessero da tempo, come fosse il vento. Lo avvolge e risponde:
 
-         “Ti va di mangiare qualcosa, andiamo al Bar?”
 
Il ragazzo interdetto dopo avere rivolto la stessa domanda per una giornata al controvento dell’indifferenza, dice timidamente “si” e la coppia passeggia verso il Bagno, “Di dove sei”, chiede Calipso squadrandolo, “Sono nigeriano ma vivo a Ravenna, parli inglese? Non parlo bene italiano” Calipso risponde “L’inglese io? No, se vivi qui ora imparerai l’italiano” “Si, vero” aggiunge il ragazzo. Calipso  gli accarezza le spalle e nota la sua cicatrice sul volto, tutto il resto lo sa, conosce tutte le cicatrici della sua vita da prima che nascesse, una lettura in braille, nel totale silenzio di sguardi tangenti tra i due, gli legge maree nello sguardo, addii nel cuore, lotte, rinunce, sogni a un passo dal burrone, ma è attirata dalla sua dignità, Calipso ama le persone che sanno portare la dignità come uno scudo, con quello sguardo che crea distanza, come a dire: oltre questo mio spazio che ti concedo tu non vai, e quello spazio-distanza che indossano gli uomini coraggiosi è rispettato dagli dei, perché gli dei intuiscono che quegli uomini preservano la loro anima, non sono in vendita. Calipso studia il ragazzo, “hanno dignità tutti quelli che vengono dal mare, sono come noi, sono come dei”. Arrivano al Bar, il ragazzo non immagina di essere entrato nei favori di una Dea del mare.
 
-         “Cosa prendi?”
 
C’è un solo bombolone in una teca vuota, le paste del mattino sono tutte state depredate, e lì c’è questo bombolone, solo, in mostra nell’acquario vuoto di zucchero a velo, il ragazzo indica timidamente “Quello”, Calipso - “Vuoi solo quello?” -  probabilmente se avesse chiesto l’universo Calipso glielo avrebbe concesso, lui sempre timido, osa :
 
 - “Si e … una Coca Cola”
 
Calipso con uno scatto felino fissa le pupille del ragazzo dietro il banco e più che chiedere ordina:
 
-         “Quello e una Coca”
 
 Il ragazzo afferra il bombolone e la bibita, Calipso chiede dov’è il bagno, davanti allo specchio tenta di convincersi a non portarlo nella grotta, deve solo dare, solo dare e non deve farsi scoprire, spesso il suo desiderio di protezione, verso chi le piace, la spinge come un animale a portare chiunque nella sua grotta e a isolarlo dall’umanità, a volte se ne innamora, come era avvenuto per quel coglione di Ulisse, a volte vince il suo spirito materno, come stava avvenendo verso questo ragazzo, ma fatto sta che si deve sempre dominare.
 
Uscita dal bagno, trova il ragazzo che mangia con gusto al tavolo e beve la sua Coca, gli lascia qualche moneta, “Sono per un caffè” il ragazzo la saluta con il sorriso e un gesto della mano, Calipso lo saluta con un sorriso carico di speranza, poi guarda il ragazzo dietro al banco con sottile  minaccia, assicurandosi che il suo recente amico non sia disturbato e possa finire la sua merenda in pace.
 
 Non dimenticò mai il sapore di quel bombolone sulla spiaggia, quella giovane donna gli aveva dato speranza, quella che lui stava perdendo.
 
I gesti sono preziosi, a volte sono tutto, nel bene e nel male. Gesti che cambiano l’umore e persino le strade.
 
Calipso, dopo quel gesto, si trascinò pigra nell’acqua, le meduse la seguirono insieme allo sguardo dei bagnini e mentre scendeva negli abissi con grande pace di tante mogli,  assorta si chiese
 

Chissà di cosa sa la  Coca Cola

 
poi il mare si chiuse sulla sua testa come un soffitto d’acqua .
 
 
Calipso - Eloisa Guidarelli
 
Athena - Eloisa Guidarelli




Eloisa Guidarelli . pittrice - Blogger