Progress - 2016 Dipinto Eloisa Guidarelli
Angeli
suicidi
Senti anima bella,
qui siamo sul pianeta terra, ascolta anima pura non c’è solo cultura, e viso
senza eguali spogliati degli ideali, gettali vicino a noi ce ne rivestiremo poi
nell’ora di andare. Fa troppo male questo lavoro di memoria per lenire il coito
interrotto delle tue intenzioni, che hai lasciato cadere, come chimere
sfuggite, su ali di pipistrelli ubriachi, c’è un minuto d’infinito in cui non
so dove siamo stati. Ma vorrei
tornarci. L’anima del poeta non vale quella del pirata, anima bella qui siamo
sul pianeta terra e dovresti abbandonare liriche condiscendenti per volgarità
più urgenti e pertinenti in certi istanti. Una falsa apparenza di lealtà per la
più sincera istintività, svestirti dei panni dei passati eroi e tornare tra di
noi. Del resto poeti siete tanti e pochi convincenti. I più davvero stronzi.
E mi sono sentita tradita, sempre lo stesso sfondo,
la stessa trama, la stessa vita, mi sono sentita umiliata dalla stessa mano che
mi ha abbracciata, dalla stessa bocca che mi ha sfiorata e poi giudicata.
Sei molto bella… la parola bella è caduta dalle tue
labbra, tutte le volte che la butti fuori, crea distanze e mi ritrovo altrove,
bella, come un bacio finale, un cappotto che con le mani mi chiudi sul petto
con gesto brusco, ma ho freddo lo stesso, è freddo dentro quello che
sento, bella fa parte di un ricordo
rarefatto, ero nuda sotto un largo cappotto, e in quel colbacco con la stella
rossa, portato a Trento per provocazione, stava Rubens il piccione che avevo
raccolto implume fermo sulla neve dove si lasciava morire anche se sembrava non
lo potesse sapere, lo avevo raccolto e lo tenevo con me, andavo in giro con
polenta precotta, una siringa priva d’ago e lo nutrivo in ogni Bar dove
entravo, nello stesso inverno freddo che dividevo con te. Pensare che ero
venuta lì per recitare ed ero invece una portatrice sana di piccione. Varcavo
le osterie come portali di fumo inseguita da sguardi setacci, tenevo questo colbacco come un cestello, lo
avevo chiuso legando i lacci che avrebbero dovuto stringersi sotto il mio
mento, ma c’era lui dentro, lo appoggiavo incurante nei tavoli delle bettole
più oscure dove l’inverno non osava entrare, sentivo sguardi superalcolici
scivolarmi addosso e avvolgermi come nebbia, spogliarmi a ogni costo, mi
sentivo fatta di istinto, sangue e rabbia. Sotto al cappotto largo le mie ali
si sgranchivano per sbaglio. “Bella”, mi faceva sentire la luce rossa addosso,
che oscillava cercandomi il petto, un colpo veloce e mortale che non faccia
male, bella è un baratto, un attacco, un ricatto, uno strappo alla manica per
tirarmi indietro, bella non è nulla di sincero o di vero. Sei bella sai dimmi
in cambio cosa mi dai, sei bella sai puoi chiedermi sempre tutto quello che
vuoi, certo ma poi? Bella ha un peso. Nessuno è illeso, né tu che lo dici, per
come lo percepisci, né io che posso solo ascoltare ma intanto quella parola mi
ha invasa e sempre mi invade, scivola, striscia, scende e sale, brividi
trattenuti, rilancio passivo di segreti, te la vorrei ricacciare in gola se non
l’avessi appena detta ora, l’ha sbarrata il mio sguardo, da sempre in ritardo,
la parola bella cadeva dal tavolo frantumandosi, scivolava come bava da sotto la tua mano che toccava
il mio ginocchio. E’ una parola al posto di un bacio, è una parola ghiacciata
sulla schiena, il mancato canto di una sirena, preliminari stretti addosso
prima dell’ultimo tratto concesso. Bella quel cervello ti costerà più caro, da
adesso devi dimostrarmi ogni giorno di averlo, perché se sei bella non ti è
concesso altro che questo. E’ una parola che mi rende responsabile di un
aspetto che ogni giorno detesto, è una parola aspettativa che può portarti alla
deriva, è una parola tagliente, sotto l’aspetto romantico è sempre indecente, è
una parola gabbia, è una parola profumata, è una parola abusata e naufragata in
una tua pausa, è una parola colpa di cui ti hanno avvolta, ma è solo una parola, che avresti dovuto
mettere in un gesto piuttosto, stringermi tra le tue braccia adesso, farmela
sentire indosso. Ci sono troppe parole estetiche stanno sospese al posto dei
gesti, sono come troppe descrizioni nei testi, sono attaccate ai fili sopra le
culle delle bambine ingenue che percepiscono solo le ombre, ruotano in senso
orario sullo sguardo nascoste come giostre, sagome mostruose immortalate in
sorrisi di cavalli a dondolo, clown e fate, sono mostri da Luna Park, trottole,
e pericolose montagne russe, sono corde di burattini impiccati nelle mani di
burattinai astuti che li fanno muovere e parlare a piacimento, stanno come decorazioni
natalizie, fittizie, lì appese a se stesse, perfette, sterili e neutrali. Ho bisogno di fatti, di un atto concreto, di
silenzio totale, quello mi può abbracciare, della morte delle parole, le parole
le vorrei respirare, le vorrei sudare, le vorrei bere, le vorrei toccare,
perché così non potrebbero mentire, perché così si potrebbero sentire, le
parole le vorrei vedere, le parole dovrebbero essere passi, gesti concreti,
tempo che passa, strada che avanza. Ma oggi ho gli occhi di una Cassandra stanca,
stanca di giurare che è vero che il peggio deve ancora venire, che sì ci
dobbiamo divertire, prima della fine. Che siamo tutti girati di schiena per un
tuffo nel vuoto all’indietro, i nostri piedi si bilanciano su un muro di
cemento. Stai attento perché potresti vivere anche quando sei morto dentro. Si
incrociano calici di spumante, come spade in un giorno solenne, per un patto
importante, e occhi negli occhi prima di piccoli sorsi distratti e interrotti,
le parole si spezzano in gola d’un fiato come scaglie di cioccolato, sono
dolci, sostano sulla lingua per un tempo breve e poi tutto scende lieve con la
sete e desideri inespressi salgono come bollicine verso l’alto da mondi
profondi, concessi e repressi.
Se Ginevra avesse detto a Lancillotto non posso, o
lui avesse detto a Ginevra “Sarebbe tutto perfetto ma non adesso” non ci
sarebbero sogni, illusioni e canzoni da cantare, ma sarebbe solo reale. Il
reale che non lascia tracce. Il reale che lascia uno spirito deserto,
immacolato come un sentiero di neve mai calpestato. Ma nel reale il sangue
scende dall’alto cade da battiti d’ali, e ci sono castelli a cui sono sbarrate
le porte della fantasia, vietata ogni utopia.
C’era una mansarda che era una casa perfetta, perché
era un covo e basta, c’era una mansarda con il tetto di vetro e io potevo
vedere la pioggia sdraiata sul letto aggredirmi senza bagnarmi, c’era una
mansarda carboneria, dove l’amore immorale si poteva scaldare, c’era questa
mansarda con pochi libri, e c’era a lato il mio ospite pennuto che dormiva nel
suo cappello, il colbacco con falce e martello, entrambi ascoltavamo la
pioggia, io ero innamorata persa, io e il piccione eravamo entrambi prede, con
le ali ferme e richiesta di cibo e amore a tutte le ore, c’era una perfetta
colonna sonora, l’acqua che scendeva, sui nostri occhi e sulla neve sporca,
c’era una perfetta sintonia eravamo spettatori entrambi degli inevitabili
eventi, per questo dormivamo uno accanto all’altro, come quando ci si trova per
sbaglio. E occhi verdi e arancioni pieni di intenzioni.
Certa come una pista d’atterraggio illuminata è
questa mia solitudine voluta.
I miei legami sono molto forti, ma non ci possono
essere accordi, compromessi, linee guida, soprattutto disciplina, non ci può
essere senso di patria, di appartenenza, gruppo, partito, schieramento che
sento, perché sono l’assenza di questo, sono terra senza confini, senza
fratelli e senza famiglia di sangue, ho fratelli e sorelle di provenienze
diverse, stessi capillari, stesse vene e arterie, senza differenze. E quindi
oggi sono dilaniata, oggi sono sola e isolata più che mai, da quando gli ideali
sono solo guai, sono documenti falsi che ti porti addosso e la tua colpa è la
resistenza a ogni costo.
E intanto lavoro a testimonianze partigiane, ed è
dura ascoltare parole spezzate da sospiri, pause di ricordi e sofferenza, una
boccata lenta nell’aria, prima di ricominciare, un sorso di the e sento
deglutire da quel registratore una donna eroica che vive le stesse ore, oggi
altrove. Avverto la vita venire a galla insieme alla paura, agli odori,
privazioni, mancanza, e amori. Fame e polvere da sparo, non potersi curare, non
potere mangiare, persone che ami ma devi abbandonare. Tessere di partito
stracciate, ideali traditi che hanno lasciato cicatrici come frustate. Scene
atroci ti si disegnano davanti allo sguardo ed è una sceneggiatura scritta in
ritardo oggi su questi diritti crocifissi, su questa costituzione tradita,
sempre e solo ferita. Cos’è questo carosello zoppo e cruento, di quello che
ascolto e di quello che sento dentro. Cosa siamo. Oggi. Quali responsabilità ci
pesano sulle spalle, quali balle che ci facciamo raccontare invece di tenere
alto il nome di chi ci ha regalato la libertà, in cambio della propria vita.
Siamo qui a proporre un Olocausto al posto di un altro. Ma è passata, è
passata, ha vinto la Costituzione, meno male, dannazione ce la siamo vista
brutta, ora il governo è caduto nell’attesa che si rialzi, non parli. Ho un
dipinto che nasce quando la mente percepisce l’ultimo tratto del dipinto precedente,
c’è folla di idee nella mia testa, è come un mercato in festa, braccia si
allungano per afferrare merce fresca, e le voci si fanno più forti sulle altre
voci, come pesci che sembrano esplodere in aria per un sovraffollamento
sott’acqua, un fatto di branchie che ricercano ossigeno, e i tuoi polsi avanti
come acquedotti stanchi, tangenti alle ginocchia, mentre sei immersa in una
vasca d’acqua rossa, con fiori assetati sbocciati per abbracciarti tutta,
quello che resta adesso di questo progresso che avanza senza rispetto, si fanno
le prove, si cade e si muore in questo teatro volgare ma lo spettacolo s’ha da
fare, vi giro le spalle in eterno. Eccolo l’angelo caduto con i polsi tagliati
condotti davanti al tuo sguardo, la testa reclinata di lato, ali sporche, ecco
l’angelo drogato con tagli nelle ali stanche, seduto a gambe aperte, eccola
come bianca falena notturna, con occhi neri, pozzi cerchiati da occhiaie rosse
come deserti, eccolo il volto scoperto da siccità di lacrime, di polvere e
scosse, eccoli i polsi stanchi, le braccia lunghe come oleodotti poggiate alle
cosce, il resto è un pavimento di sangue senza ferite certe, perché le ferite
sono interne, ecco l’angelo dello scandalo perché il suicidio non era
contemplato, né perdonato nel tuo presepe in nero, nel tuo paradiso inventato,
eccolo il fascino del mistero, l’anima non pentita disposta a vincere la guerra
finale nell’ultima battaglia mortale. Ecco la tua devastazione, la tua
prigione, la tua ragione, eccola ridotta a questo, il tuo progresso un suicidio
perfetto. Ti punta con occhi di denuncia.
C’è stato un momento esatto, ma forse eri
fatto, in cui il tuo sguardo ha cercato
il mio per dirmi la verità su tutto, a cominciare dal tuo desiderio represso, e
in quell’istante ho avuto occhi pronti come cesti a raccogliere verità uscite
dalla camera oscura della tua censura, ma i tuoi cecchini avevano già sotto
bersaglio le intenzioni più vere fuggite per sbaglio, quindi c’è stato troppo
poco tempo degli occhi negli occhi, per qualsiasi reazione, i miei erano porte
aperte di scatto a quelle verità fuggite dalle gallerie infinite delle tue
pupille liquide dove se c’eravamo stavamo fuggendo per mano, ma tu hai solo
avuto paura, hai pensato fuggirà la verità, fuggirà da me, crollerà la recita
infinita di tutta una vita, ti sei concesso un solo attimo, prima di
riprenderti tutto, il tuo sguardo è scivolato sulle mie gambe, dove per un
momento il desiderio ha sostato e mi ha immobilizzato, sentivo di scendere le
scale al rallentatore, di essere nuda d’improvviso, solo perché tu lo volevi e
lo avevi deciso. Ma all’amore o alla sua idea, al desiderio hai mandato
secondini, alla polizia hai fatto la spia, hai proibito a qualsiasi cosa di
cominciare, le tue dita hanno lasciato le mie lentamente, le illusioni si sono
arrese, e al muro le hai giustiziate.
Ci sono solo testimoni intatti nei miei occhi esterrefatti, che ho
inclinato subito a terra, insieme ai tuoi, perché per un momento troppo lungo
eravamo stati noi. La verità è qualcosa
che fugge, è scaltra perché porta da sempre una taglia, la possiamo nascondere,
possiamo uscire con lei la notte a farla pisciare in zone non viste, rientrare
in casa e metterla vicino a una stufa, a un camino, è sottile epidermide
sull’anima, va difesa dalle intemperie, dal freddo, dal caldo, da stagioni
diverse, da voglie perverse, teniamola al coperto che non prenda freddo, che
sia senza traumi il suo risveglio. Domani sarà a lutto, a festa, con fiocchi in
testa, lancia in resta, domani la vestirò
di tutto punto, ciò che si consente e si deve per sopravvivere, per passare il
confine, perché non ci trovino nascosti nelle cantine a barattare false
identità. Come un mollusco la verità troverà il suo guscio e potrà strisciare,
orientarsi con i suoi occhi distanti negli abissi, che chi va piano va sano e
va lontano e questo alla fine è quello che conta, la passione brucia, incatena,
fa fare gesti avventati di cui poi ci si pente, ascolta gli amici fidati e
rientra nei ranghi, un conto sono ballate e poesie, lì possiamo anche osare e
esagerare ma non nella vita reale. Sii prudente, indifferente, cercati prima
ogni attenuante, che l’anima tanto è lì coperta e nascosta, un’altra storia
condurre una vita irreprensibile e onesta, abbassa la testa. Fai l’eroe dove
puoi. Non concederti mai, di base evita i guai, sii irreprensibile come una
facciata e lava i panni sporchi di ogni giornata nella tua vita sacra e
privata.
Cos’ho io di sbagliato che non l’ho mai capito, che
non l’ho mai accettato.
Mi sono crollati affreschi in testa dalla Chiesa sconsacrata
della tua irreprensibile condotta, lo ammetto avrei preferito dannazione ti
fossi preso questa occasione, che poi qui si aprirebbero eterne disquisizioni
su chi tradisce con il corpo o le intenzioni, quasi si potessero o dovessero
necessariamente separare, come potessi mandarmi il tuo sesso ma senza
partecipare e lui potesse dirmi “guarda mi ha mandato quel tale” “ambasciatore
non porta pene, ma a volte invece succede” così a tua moglie che aspetta a casa
o chissà alla tua fidanzata, puoi
sempre dire “pensavo a te, la mia mente del resto non è andata” oppure “lo
faccio con un coinvolgimento totale e mentale però non mi si alza a livello
sessuale” “è che tu sei diversa perché…” “No, guarda lasciamo stare perché con
le scuse si può solo peggiorare” io il tradimento nelle intenzioni non l’ho mai
concepito, voglio dire se lo devi fare, fallo al completo, non è che siccome te
lo sei proibito ne esci più illeso, più puro o illibato. A me pari più fesso e
irritato, dilaniato da voglie represse, per altro sempre le stesse. Ho tradito
perché ne avevo desiderio completo e non me lo sono proibito, e stare lì
attendere il terremoto finale con un orgoglio totale, sarebbe un altro morire,
quanto meno senza strisciare. Farlo senza cercare scuse, prendersi ogni responsabilità,
irriducibili fino alla fine e faccia fronte all’uragano che sta per arrivare
come si attende la brezza dal mare, con sprezzante romanticismo. E’ davvero
così difficile essere onesti? Accettare tutte le conseguenze di atti, pagare
l’istinto, le passioni e gli innamoramenti senza diventare doppiogiochisti
scaltri che si muovono con la paura addosso, con quegli occhi che dicono
“vorrei ma non posso” siate uomini almeno nei tradimenti. Non ci sono più
uomini limpidi, ma uomini sposati e annoiati, repressi con guinzagli lunghi o
corti ma pure sempre guinzagli, uomini tristi e donne spesso con la paura di
perderli che accorciano e accorciano quei guinzagli senza rendersi conto che a
forza di controllare la vita del marito non hanno vissuto un solo loro privato
minuto, rilassatevi, e accettate l’unica verità da accettare siamo per natura
tutti poligami, lo siamo per forza di cose perché l’amore non è un contratto ed
è questo il suo bello e perché l’amore finisce, non solo l’innamoramento,
finisce anche l’amore e di preciso quando comincia un innamoramento altrove.
Dopo la cosa giusta da fare sarebbe accettare, ma lo fanno in pochi, sarebbe un
comportamento troppo equilibrato, i più negano, impazziscono, cancellano
tracce, ricuciono, i più, colti sul fatto, uno perso nelle cosce dell’altro
balbettano con la coscienza in ritardo “Non è come sembra tutt’altro” e ancora
donne danno colpa alle donne che sono tutte troie, e difendono i loro compagni
anche se le hanno umiliate, ma non è colpa del mio compagno, non voleva, è
stato attratto, sedotto, come quello stronzo di Ulisse, sono le sirene puttane
con le loro canzoni oscene, lui si era legato! Certo come no, lento però! Gli
uomini danno colpa alle donne che sono tutte troie, le donne danno colpa alle
donne che sono tutte troie. E sembra che l’unica certezza sia una cospicua
esistenza di troie. E’ tipico maschile dare ogni responsabilità alla donna, se
ha l’amante è perché lo ha costretto la moglie che non lo rende felice, se ha
ceduto alla tentazione è colpa dell’amante che è l’essenza stessa della
seduzione, colpevole di adulazione, provocatrice, manipolatrice, attraente. Il
tradimento poi si sa è giustificato da strabordante virilità, così non è una
colpa semmai un vanto maschile,
qualcosa che la donna deve accettare in quanto il maschio è tale. E così si
avvicina il prossimo Natale nel bene e nel male, quest’anno i miei auguri vanno
a tutte le amanti che si sono vissute momenti importanti, le vere donne
resistenti che si prendono solo le colpe ma anche in fondo i migliori momenti,
perché almeno una volta chiusa la storia a loro non rimangano da lavare mutande
e calzini, la mia simpatia va all’amante lasciata, offesa, umiliata, alla
distruttrice della famiglia ipocrita già distrutta da tempo, lei del resto ha
solo la colpa di avere dato uno specchio, un po’ di sesso, l’atto finale, la
verità che fa male, la mia simpatia va a lei avvolta da una coperta calda che
si consola con una cioccolata in tazza e che magari analizzando la cosa si dice
che vabbè in fondo quel sesso non era un granché, e questa è la solitudine
migliore, una vita sole e libere da gestire senza dovere perdonare o capire chi
giorno dopo giorno si impegnerebbe a mentire e tradire, perché tanto si sa la
donna più interessante è sempre quella che non si ha.
E’ che non sopporto più le gabbie, e la noia che si
prova dentro, non sopporto di girare intorno senza sentimento, non sopporto
quest’agonia del niente che ti avvolge in spirali di nebbia, la vita è nell’istante dilatato che ho toccato, è solo
nella sua fine che viene percepito, ma noi non sappiamo gestirci l’infinito, e
così siamo quel poco che conteniamo. A noi la morte dà equilibrio, perché noi
per nostra natura abbiamo bisogno di misurarci con la paura, l’eternità ci
serve solo per fantasticare, nella vita non la potremmo affrontare, per questo
la pensiamo al di là. Noi abbiamo bisogno di iniziare e finire, noi abbiamo
bisogno di finali, li cerchiamo da sempre nelle favole, nei film e persino
nelle nostre relazioni, il “per sempre” è qualcosa di astratto e assente e poi
quale vero significato potrebbe avere in un eterno mutare e marcire, se anche
noi dobbiamo finire. E allora finiamo. Non sappiamo finire, non sappiamo
gestirci l’infinito, né il passato, né il presente, né il futuro, perché alla
fine questa cosa qua che siamo qui per un passaggio nel mondo ci sembra davvero
troppo in fondo, una presa per il culo, neppure un sadomasochista arriverebbe a
tanto e quando glielo hanno detto ha pianto, possiamo solo drogarci o reagire e
la prima va per la maggiore.
Volevo sentire la tua voce morfina, perché era
l’ecografia migliore, dal seno sul battito del cuore, volevo sentire la tua
voce, non le tue parole, di cui spesso non capisco il significato che solo il
suono della tua voce ha trovato, non volevo ascoltare cosa avevi da dirmi,
perché le tue parole parlano sempre altrove, e mai alle mie ferite, non volevo darti il tempo di elaborare, di
pensare e censurare, di cambiare, lenire, giocare, ferire, adulare, volevo solo
il supporto musicale, sentirti parlare, che la tua voce trovasse le mie
proporzioni esatte, scendesse, salisse, entrasse, uscisse, come l’acqua nelle
grotte, ma per questo ho dovuto ascoltare, tralasciare, assorbire una musica
priva di testo, si è meno soli con il canto dei grilli eppure non lo sai cosa
si stanno dicendo, pensi che siano solo trilli, non sai cosa dicono le cicale,
non sai come risponde il mare, non importa quale significato segreto ci sia tra
una risata e l’altra di un gabbiano, eppure ti basta, ti lascia con la
consapevolezza che tanto ogni significato sarebbe sprecato, la mia vita è
questo adesso sono concentrata sul resto, non cerco traduzioni e significati,
ma suoni e sensazioni, attendo che dal profondo mi venga in modo inconscio il
vero significato del mondo, che può solo avvenire senza spiegazione, come una
visione, una rivelazione, una sensazione, l’eterno che non si spiega si assorbe
e ti travolge, nella mancanza di respiro so di cosa sa l’ossigeno puro, non mi
interessano le tue amanti, non mi interessano i miei amanti, i tuoi tradimenti,
i miei tradimenti, la parola fedeltà in qualcuno o qualcosa è di per sé la più
patetica scusa, sento la fatica del tuo complicarti la vita, sento la mia
leggerezza addestrata nel tempo con prudenza e disincanto, plano dall’alto e ti
voglio bene comunque chiunque tu stia amando, chiunque stia amando io, perché
l’importante è altro, non è quello che si dice, è quello che si sente.
Presente.
E all’ultima cena di Natale mi ero vestita da
collegiale del cazzo, poi ho cambiato il mio aspetto e sono andata vestita di
blu, tu vestivi sempre di blu, tu vesti ancora sempre di blu. Ero più a mio
agio in pantaloni maschili, ma forse erano solo i miei pensieri a sentirsi
virili, ho nuotato di taglio nell’onda verso i parenti, paravo fendenti con
sorrisi, che erano stampi di certosini, tutti vicini, distribuiti a oltranza,
ho cercato qualcosa di vegetariano e poi mi sono messa a parlare con mia
cugina, con la quale ho diviso la mia adolescenza, niente esisteva più, ogni
tanto un bambino, il figlio di qualcuno, di qualche mio cugino, afferrava panna
con le mani dai piatti di parenti trasparenti e barcollava, misurando i suoi
primi passi, concentrandosi ad andare a sbattere altrove, a imbrattare
ginocchia esposte come paracarri immobili avvolti di pelle o calze di nailon,
con adulti con braccia lunghe al pavimento per evitarne cadute, mi gestivo la
mia prospettiva di pecora nera, di artista che ha pagato la sua scelta, ero
aggrappata alla mia commiserazione simpatica e vera, alla mia disoccupazione,
alla mia incertezza, precarietà, no aspetta com’è quella parola che rende
meglio, abusata … ero già nella mia flessibilità, e infatti mi sentivo
flessibile, un giunco irresistibile, come al solito me ne stavo a parte a
difendere la mia arte come una figlia, la mia arte, vestita meglio che si può,
ma non accettata, timida, impacciata, con pensieri non in linea con i doni e le
ricorrenze, la mia arte, una figlia con problemi nel gestirsi relazioni, come
Mercoledì della famiglia Addams, la mia arte con trecce nere e broncio eterno,
che gioca con le paure degli altri, che ha fantasmi necessari, e fiocchi neri
sulle trecce perfette, una perversione rara vestita da scolara, sì una che può
solo fare una brutta fine, il perché lo si vede da sé, c’era sempre quella
spietata curiosità a prendermi le misure, a scandagliarmi il cuore, tentativi
disperati di mondi opposti che si aggrappavano all’educazione, quando non era
compassione, chissà cosa si prova a vivere come lei, senza Dio, senza Dei,
chissà cosa si prova a scommettere la vita puntando così in alto, quando non si
ha nulla in mano ed è un azzardo perfino bleffare, stavo lì come ogni anno,
sola, senza un lavoro ma aggrappata al mio sogno zattera, scendeva la
temperatura e cominciavano a circondarmi squali, e loro stavano lì come ogni
anno aggrappati a un lavoro che avevano barattato con un sogno, e io stavo lì
come ogni anno a chiedermi come sarei stata ad avere un lavoro sicuro,
un’entrata, una casa, e loro stavano lì come ogni anno a guardarmi e a chiedersi
“oggi come starei, se come lei, avessi combattuto a costo di perdere tutto per
stringermi al petto un sogno”, e ogni anno la risposta è uguale, la risposta è
che da ogni lato fa male, la risposta è che questa società chiede comunque una
parte di te, una parte comunque importante, eravamo tutti lì con ali lacerate e
bocche piene di scuse per non lavorare o per non sognare o per lavorare troppo
o per sognare troppo, ironia era che stavamo pagando in modo diverso uno stesso
originario conflitto. Avevamo dato al Diavolo quella metà che esige in cambio
per lasciarti scegliere chi essere. E quella metà se non hai fatto la scelta
giusta finisce per bussare al tuo sterno un conflitto eterno, con la costanza
di un testimone di Geova. Guardandoli, come ogni anno, mi dicevo: “meno male
che sono quella che sono”, che forse era la cosa, che loro stessi,
consolandosi, dicevano a se stessi guardandomi.
Un bicchiere di plastica augurandomi un fantastico
domani mi si è rotto tra le mani, quindi avevo tra le dita uno spumante in
pezzi da montare, che idea uno spumante IKEA e a mia cugina una fetta di torta
alla panna era caduta sul suo vestito, avendo le mani impegnate, non ha potuto
far altro che scongiurare la fetta con la speranza che cambiasse percorso, o
avesse una coscienza, una trafila di “Nonononono” che ricordavano l’inevitabile
corrente che porta alla cascata, ma la fetta non l’ha fatto, non ha ascoltato
la preghiera, la fetta atea si è inclinata tra la sua coscia velata e il
divano, esattamente come noi, si vede che quando abbiamo fatto quelle scelte
avevamo le mani impegnate, è così, avevo le mani impegnate dal tenere stretti i
miei ideali, avevo rabbia, orgoglio, desideri, gioia, sogni, ambizione,
creatività, idee, e mi destreggiavo come un giocoliere, la pittura mi è caduta
addosso e non ho più frenato il resto, la scrittura, il teatro, mi hanno
imbrattato, e tutto quello che possiamo farci adesso è una risata lo stesso,
perché è tardi per i rimpianti che comunque non ho.
Mio nonno ha 102 anni e li porta da Dio, la sua
memoria magari non è sempre perfetta, l’ultima volta mi ha scambiato per la
Madonna, è che non gli andrebbe mai rivolta la seconda domanda, lui ti
riconosce, riconosce tutti perfettamente, ma se dopo averti riconosciuto,
qualcuno gli chiede “lei chi è?” Lui non lo sa più, con il nonno è buona la
prima, ed è triste questo interrogatorio, come fosse un bambino piccolo, cazzo
ha 102 anni! Tu non vedrai mai tutto quello che lui ha visto, quindi invece di
chiedergli con quell’aria da coglione “Lei chi è” ma chiediti chi sei te! E poi
lo stanno studiando, un fatto di mitocondri, di cellule, di alimentazione, di
culo e dannazione, tanto non lo capiranno mai, lui sorride beffardo perché 102
anni o li hai o non li hai, però vedere 102 volte il Natale a me farebbe troppo
male.
E poi mio zio mi ha detto che:
“Ci manchi
tanto perché… alla nostra famiglia manca una come te”
Perché la vita, la vita è in queste banali trame, guardare il mare,
mentre la tua fame divora un silenzio improvvisato con pomodori e pane.
Perché la vita, la vita è questa, atrocità e
leggerezza.
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