sabato 15 ottobre 2016

A modo tuo non sono io.

Eloisa Guidarelli
 
 
 
A modo tuo non sono io
 
Si lo so mi vuoi bene a modo tuo, il problema è il modo tuo.
 
Ho aperto le braccia stanche ho respirato branchie, mi muovo intrappolata nei tuoi ricordi a strascico, e non ho più un fondale davvero mio, neppure per dirci addio, e piedi incapaci per desideri di disadattati, sono caduta di faccia ho messo l’istinto davanti alle mani, le dita stelle marine, macchie gettate aperte rosse come scoperte, a respirare dalle ferite, come labbra sporche di sale, le succhio, sa di ferro e alghe questa domanda che non mi esce dalla bocca ma sosta nel solco lacrimale di un oceano trattenuto nell’eternità di un solo minuto, di questa favola oscena di sirena, tu hai visto appena la mia schiena, che ti avvolga il mito antico perché io ti ho già tradito. Cantavo canzoni oscene nel porto, e leggevo nomi di barche, di donne, di sogni, proiezioni, viaggi, fughe, scoperte. Mi bastava annusarmi una spalla che era restata al sole per ore e l’odore di  erba di macchia e mare mi avvolgeva la faccia, bastava questo per non avere più un nome, mi bastava per perdermi l’identità che finiva per dissiparsi nel vento e io tornavo ad essere tutto, ad essere dentro. Durava poco come è breve l’infinito ma poi potevo tornarci quando lo desideravo, era un sentiero che conoscevo a memoria, la mia storia di strade di polvere e cappelli di paglia, segni di passaggio lasciati da geometrie di pneumatici, la sabbia sollevata dal vento che entra nelle narici insieme a quello che dici, e io sono il resto, quello che avvolge, erba seccata da una giornata senz’acqua, polvere di minerali sulla linfa assetata, salsedine nell’aria, dove sono rimaste tracce di mare, posti segreti, traiettorie più note ai piedi scalzi che agli sguardi.  Tu sei apparso questa notte in un sogno zoppo, che non ho compreso affatto, eri in un angolo, sarai stato di certo vestito di blu, come vesti sempre tu e mi guardavi, guardavi mentre mi avvicinavo a lui, e mentre poi gli rivolgevo qualche parola, e mi ero chinata, perché era seduto, forse mi ero appoggiata con delicatezza a una sua spalla, ma sono dettagli, anche se per te tutto conta, non consideravo troppo nessuno, erano parole vaghe di cortesia, avevano senso di vento, qualcosa che ti sfiora le orecchie o la guancia, come un saluto, una cortesia, un bacio ma di circostanza, parole vuote, senza suono, senza ricordo e senza meta alcuna, gettate solo come una carta di qualcosa, una caramella, una gomma da masticare o un biglietto dell’autobus, parole scadute dopo un’ora di viaggio, parole obliterate e inutilizzate ora, parole come una mano sulla spalla, per passare oltre, con delicatezza, parole biglietto, parole parchimetro, parole per sostare altrove il tempo che mi sarebbe servito, parole che sono come precedenze, come l’ordine da tenere, parole insincere, parole convenzione, parole che sono già atti, forse neppure quelli nostri, abitudine, parole-abitudine, come buongiorno, buonasera ma poi chi se ne frega,  parole per lasciarti alle spalle, leggere come passi di danza, come foglie cadute, stagioni nuove davanti a stagioni perdute, un ex compagno… Ma tu sei sempre stato geloso anche della mia vita passata e io l’ho sempre pensata una grande cazzata, ora so che, non eri neppure geloso di me, ma di quello spazio, di quel sacco amniotico che conteneva ogni mio desiderio prima che divenisse atto, eri geloso di quel mio essere sospesa nelle possibilità di dividere quel tempo, quei minuti, quei brandelli di vita, quella complicità, eri geloso della mia attenzione, tu amavi la mia attenzione non me, tu amavi la mia attenzione su di te. Poi non credo di essere mai stata amata, solo desiderata, e qualche vita di proiezione ha fatto insieme a me confusione, un film con un finale lasciato sospeso, siamo usciti dal cinema delle nostre vite senza averle capite e soprattutto ci sfugge il finale. Anche gli uomini che ho avuto occupavano ricordi, pensieri, spazi, qualcosa che ti veniva tolto, qualcosa che io ti avevo tolto per paradosso anche quando non ti conoscevo affatto, come osavo avere avuto un passato che non comprendesse te e perché.  Se non avessi avuto quei tuoi occhi incollati alla schiena, tu che stavi là a gambe aperte, bello come sempre, vestito di blu, perché il blu eri tu. Ma io ora dovevo calarmi in quel tombino, che mi prendeva le esatte misure e scendere in verticale, per quel pozzo stretto di pietra viva, quasi privo di scale, dovevo scendere appoggiando i piedi su sporgenze naturali, lo facevo abitualmente, abitualmente rischiavo, era una sorta di pausa da qualche cosa di teatrale, perché se c’eravate tu e lui doveva essere così e anche perché indossavo assurdi tacchi a spillo, doveva essere una parte da interpretare, per usare i tacchi a spillo qualcuno mi deve obbligare, e con quelli scendevo nel pozzo stretto, sembrava scavato sulle mie proporzioni esatte, era senza fine, buio, non avevo paura,  stavo solo attenta a non inciampare. Se avessero potuto i tuoi occhi mi avrebbero seguito fin dentro il pozzo ma il sogno ci aveva diviso, anche lui come la vita. Mi sto per calare e poi grido che devo risalire, ci sono pantere nel fondo, che girano in circolo, minacciose. Risalgo, non è il momento per il passaggio, per dove? Lui poi l’ho censurato con il volto di un altro uomo ancora di minore significato, insegnava ad allievi, teatro, immagino, mi abbracciava affettuosamente, mi presentava, ma io ero assente, non me ne fregava niente, e sai come finisce ? Tu che sei avido della mia attenzione come l’affamato di un boccone, sai come finisce questa storia onirica fatta di pozzi scoscesi bui stretti e neri come uteri pericolosi, e dove alla base pantere si muovono in una visione dall’alto come squali in attesa, mi sposto a mio agio nel mio inconscio, solo sto attenta ai due enormi gatti neri di guardia… e se è il caso risalgo. Finisce in una passeggiata, con un’amica, al buio, in un bosco, un sentiero polveroso che conosciamo, alberi tutto attorno, parliamo, è una compagna evidentemente non importante al ricordo o forse tanto da censurarla totalmente perché non saprei dire chi era, non ricordo niente, solo che eravamo amiche e stavamo parlando, inoltrandoci in questo bosco, non si vedeva alla distanza di pochi metri, poi mi blocco e vedo una di quelle enormi pantere che stavano in fondo al pozzo, che gira su se stessa lentamente, con una eleganza spropositata per una morte annunciata, un’altra le è a fianco e al rallentatore ci vengono incontro, io dico alla mia amica di voltarci e tornare indietro con calma, di non correre, altrimenti ci attaccheranno, e così, lentamente giriamo le spalle e le pantere camminano dietro e sento a ogni passo che non c’è nulla da fare, solo camminare piano e attendere, la loro voglia di attaccare o sperare che siano sazie,  niente dipende più da noi, la nostra vita  è sospesa, siamo solo ombre nere davanti a due grossi felini che lenti ci seguono senza fretta tenendo la giusta distanza. Ci lasciano per gioco il vantaggio di qualche metro. E si va a passi lenti con confidenze rarefatte dall’ansia e il sudore congelato alla pelle, con pantere dal pelo lucido uscito da una notte d’olio per sbranare.
 
Poi è suonata la sveglia le pantere mi avevano lasciata viva per un’altra giornata di merda!
 
E adesso devo uscire da questa pioggia sottile, dal tuo passato, varcando il confine, e devo nuotare più che camminare in questa umidità, mi viene da boccheggiare come un pesce pescato, se penso al teatro e alle maschere che ancora dovrò incontrare. Ai passi, ai miei passi commoventi a trainare un corpo che rifiuta eventi, sorrisi, un corpo che finirà come sempre per cavarsela benissimo senza me. Io sono sempre stata a parte, a contorcermi nell’attesa di uscire da tutto, di sbattere porte, scavalcare balle e fuggire con il vento che mi tocca le spalle, come un amico che si affretta con te “hai fatto bene perché…” Perché non fai parte di niente. Di sorrisi panoramiche, della competizione che attende il colpo di pistola, mentre fasci di muscoli sono una sola cosa, delle medaglie, dell’egocentrismo e dell’inno nazionale che ti sale dallo stomaco alla gola, questo minuto dura un’ora, ho sete di cause perse, di occasioni diverse, ho provato cosa significa sentirsi soli e anche rimanerci quando credi in qualche cosa, e sei il solo a crederci, e ti dici che la maggioranza sembra stia tutta di là, sempre dove non sei tu, persino le persone di cui ti fidavi, pensavi. Fa male. Si ma poi si sale e si capisce che essere soli può essere qualcosa di esaltante, rimanerci, sentirsi, e capire quanti, quanti sono rimasti soli con quelle tue sensazioni orribili, tangibili. Siamo rimasti soli in tanti, non lo sapevo davvero cosa si provava, voglio dire, quando tu sei lì che lotti e ti voltano la schiena, abbozzano un sorriso, uno sguardo condiscendente che sa ridurti in un attimo in mutande, di quelle che cascano lente. Umiliante. Già è così. E io non c’entro niente qui, non c’entri niente nella società quando davanti a un gruppo e distese di vino finisci per non ascoltare più i discorsi, ma ti soffermi sui denti, su movimenti lenti e tutti sembrano in un acquario, persino un po’ sfuocati e l’unica cosa che cattura definitivamente la tua attenzione e con sincera costrizione e preoccupazione è quel dannato moscerino che annaspa nel vino. L’unica cosa che avrebbe senso nella serata, toglierlo da lì, asciugargli le ali soffiando delicatamente, lasciarlo in un angolo di tovagliolo di carta, vicino alle frasi scritte sulle tovaglie delle osterie, in questa biblioteca di fumo e cibo, salutare e andarsene via, con un dio di riserva, quello che puoi tirare fuori quando il primo ha bucato e tu non sei più in grado di andare avanti da solo. Da solo. Ah vento sei l’unica cosa che sento,  l’umidità ora è un bacio sulla faccia, posso tornare a me stessa senza fretta, sentendomi tutta, ossa per ossa, cartilagine per cartilagine, mi sembra di distendermi dentro il mio stesso corpo, di stirarmi come un gatto, di avere lasciato fuori quella minaccia ordinaria. Cazzo sono asociale. Poi devo piantarla di considerare tutti gli oggetti portali. Anche se sono più in orario dei treni, e non ci sono controllori, solo ricordi, odori. Tento di dormire, è sempre un metodo valido per attenuare paranoie, ci riesco, non sono nulla adesso, solo quello che decide il mio inconscio, suona il cellulare, contratto telefonico, chiudo il telefono in faccia alla persona che ha chiamato, mi riaddormento, suona il telefono, e non posso più dormire ci sono troppe persone da mandare a cagare. Anche questo è lavorare, qualcuno lo deve pure fare. Quindi scrivo per vedere se sopravvivo, prima abbozzo l’idea di un dipinto che sento dentro e anche questo mi innervosisce, se non mi ci metterò presto mi batterà contro la cassa toracica, insistente, peggio delle compagnie telefoniche, anche l’arte manda i suoi, a bussarti nel cervello, le idee le hai che fai? Siamo tutti qui come cristi ad aspettare, come in ospedale con i codici di urgenza, si ho un dipinto con un codice rosso che deve uscire adesso. Altrimenti sarà morto per colpa mia, sento già la polizia nella mia testa. Un dipinto non nato sei accusata di omicidio premeditato. Cerca ordine nel delirio, chiamalo figlio. Si anche l’arte ti entra dentro con i suoi cavalli di Troia, tu li fai entrare e allora è l’invasione totale.
 
 Camminando con te, ti direi cose che si finiscono per dire a un’amica, ovvero una verità censurata, e sfiorerei con le dita i lembi della ferita aperta e pulsante, ogni sorriso nato per rassicurarti provocherebbe un’altra emorragia, così prima di dissanguarmi me ne andrei via, congedandomi con una scusa, tenterei di stare molto dritta solo perché dentro sono piegata e azzarderei disinvoltura contro la mia anima impacciata, perché dentro sarei attanagliata dalla paura, e tu penserai di conoscermi un giorno perché non avrai mai avuto neppure lontanamente idea di quali orchi mi divorano da dentro. Ogni momento.
 
E comunque sento arrivare le sirene della polizia, ero all’angolo e spacciavo verità, ma è vietata in questa società, ha pesanti effetti collaterali, come gli ideali, e si finisce per morire, sempre. Una vita da tossicodipendente, dammi un po’ di verità, quanto te la devo pagare? Dove la posso trovare? La verità uccide. La verità é perseguibile per legge, la verità non ti protegge, ti espone a ogni rischio, ti annusano a distanza, come se la portassi a tracolla, ti perquisiscono verità, le mani addosso, ho verità che non posso… ho verità in manette, che poi è così che siamo cresciuti “non accettare verità dagli sconosciuti”, la verità è sotto tortura, braccata da sempre, la verità è una donna a gambe aperte dove l’ordine si diverte. La verità è qualcosa che si paga salato, è il peggiore reato, la verità va nascosta, portata via, imparata a memoria, tramandata di generazione in generazione, deve sfuggire alla dittatura, la verità fa troppa paura. Per questo smetto qua, non posso dire la verità. La devo portare lontano, in un mondo diverso e più umano, la devo portare in un posto migliore per liberarla e farla volare. Altrove.

 

Agli angoli delle città spacciatori di verità rischiavano la pelle. Oggi confessioni virtuali che vagano nell’etere, sembrano corpi abbandonati nell’universo costretti a girare all’infinito come tombe sospese tra comete, stelle cadenti, desideri inespressi e inferno.

 

 


 

sabato 8 ottobre 2016

Non intendiamo dimenticarci di Emmanuel Chidi Nnamdi

Quaestio - Eloisa Guidarelli - 2016




Non intendiamo dimenticarci di Emmanuel Chidi Nnamdi
 
Riflessioni: Non intendiamo dimenticarci di Emmanuel Chidi Nnamdi (Eloisa Guidarelli)
 

Emmanuel Chidi Namdi e la compagna Chinyery erano arrivati al seminario vescovile di Fermo lo scorso settembre, fuggiti dalla Nigeria dopo l’assalto di Boko Haram a una chiesa. Nell’esplosione erano morti i genitori della coppia e una figlioletta. Prima di sbarcare a Palermo, avevano attraversato la Libia, dove erano stati aggrediti e picchiati da malviventi del posto. Durante la traversata, Chinyery aveva abortito.
 
Il Fatto Quotidiano
 
 
”Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emmanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emmanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista (…) L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia (…)». Con un post drammatico pubblicato su Facebook (che in poche ore è stato diffuso centinaia di volte sl web), Massimo Rossi, ex presidente della provincia di Ascoli Piceno, ha raccontato la storia di Emmanuel Chidi Namdi, 36enne nigeriano morto dopo una violenta colluttazione con un italiano avvenuta a Fermo, nelle Marche il 5 luglio . Il responsabile dell’attacco, identificato Amedeo Mancini.
Il Corriere della Sera.
 
 
 
Anpi provinciale di Fermo
 
Era intervenuta anche l’Anpi provinciale di Fermo, per ricordare come Emmanuel e Chinyery, “nostri fratelli e compagni, vittime delle persecuzioni e delle guerre civili nel loro Paese” sono anche “vittime della violenza fascista e razzista in Italia”. Perché, sottolinea l’Anpi, i “due cosiddetti cittadini italiani” coinvolti nella brutta vicenda sono “noti da tempo alle forze dell’ordine come ultras ed elementi della destra fascista”, “stupidi pericolosi sicari generati da un clima di intolleranza, di paura e d’odio innescato volutamente da quanti pensano di far leva sulle angosce e i timori della gente in difficoltà per avvantaggiarsene politicamente ed economicamente”.
Da Il Fatto Quotidiano
 
 
Eloisa Guidarelli
 
Sappiamo poi che quella scelta di donare gli organi Chinyere l’ha fatta, in quelle condizioni, con quel dolore e in quel poco tempo che si ha quando succedono queste tragedie e si deve anche rispondere con lucidità, magari allo stesso tempo cercando di non svenire, di non farsi venire un colpo al cuore, eppure lei lo ha fatto questo gesto di grande umanità, e donare gli organi significa salvare vite, a prescindere da razza, sesso, nazionalità, significa salvare vite. Lei l’ha fatta questa scelta, questa donna che abbiamo visto straziata al funerale del suo compagno, si erano scambiati da poco la promessa di matrimonio, avevano sogni e vita davanti, sogni e vita! E avevano diritti, diritti umani che sono stati calpestati, ignorati. Erano stati accolti dalla fondazione Caritas per richiedenti asilo, perché provenivano da una dittatura che già aveva segnato pesantemente quelle due vite. Era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, in maniera «non regolare» vista la mancanza di documenti dei due giovani. E purtroppo per queste dinamiche burocratiche, non essendo ancora regolarmente sposati, il desiderio di Chinyere e il suo gesto importante di consenso all’espianto d’organi non si è potuto attuare. Ma per noi rimane un gesto, un gesto incredibilmente importante e vorremmo non dimenticarcene. Forse quel gesto è ancora più forte proprio perché reso impotente, dalla burocrazia, dalla legge stessa che regola la donazione degli organi. E ricordiamo che neppure la famiglia di Emmanuel avrebbe potuto dare il consenso, perché Emmanuel e Chinyere se ne erano andati dalla Nigeria dopo l’assalto di Boko Haram ad una delle chiese cristiane del posto: nell’esplosione erano morti i genitori della coppia e una figlioletta. Quindi non c’erano parenti che potessero dare consenso all’espianto venendo incontro al gesto di Chinyere. Dolore che si aggiunge al dolore, impotenza che si aggiunge a impotenza, ha una lapide provvisoria Emmanuel, altre questioni burocratiche, la burocrazia non si ferma, dovrebbe ritornare in Nigeria, sembra dalle informazioni raccolte che anche Chyniere abbia difficoltà a visitare quella tomba perché per essere tutelata è stata trasferita a Pescara, in un centro dove nessuno può raggiungerla e insultarla.
E certo il resto è sui giornali, il resto di cosa? Tutto quello che ancora senza conoscere esattamente i fatti, senza aspettare l’evolvere delle indagini o i risultati dei Ris, giornalisti con solo lo scopo di vendere la notizia e di istigare odio, di dividere, hanno buttato in pasto a tutti, presunte ritrattazioni di Chinyere, su chi brandiva o meno un cartello stradale. L’assassino è così diventato vittima, nel breve tempo di dichiarazioni e testimonianze, così attendibili, che oggi gli stessi Ris stanno smentendo basandosi sulle indagini, perché i Ris non sono di parte, indagano, è il loro lavoro, i giornali, spesso invece lo sono, e si dovrebbe aprire un capitolo persino su cosa è legittimo che i giornali possano pubblicare se guidati solo da orientamenti politici. Quando penso a persone che soffrono, non penso, come si è espressa certa stampa, all’aggressore di Emmanuel che sta dimagrendo in carcere, penso a Chinyere, penso al suo dolore, al fatto che non possa neppure visitare la tomba del compagno, non è sicura, è esposta a insulti, è un rischio. Lei l’ha fatta la scelta di donare gli organi, un gesto di umanità in questa disumanità, una verità in questo scenario volgare di bugie e strumentalizzazioni politiche e istigazioni al razzismo da più parti, dove la vittima diventa il carnefice in base a sommarie indagini, in base a notizie raffazzonate, perché bisogna mettere tutti contro tutti, alzare muri, e allora diventa un orientamento politico contro l’altro. Emmanuel e Chinyere?
E la verità? Perché io da cittadina che voglio essere informata sui fatti a seconda del giornale che leggo devo farmi un’idea diametralmente opposta in base all’orientamento politico della testata, dov’è il giornalismo vero che riporta la notizia dei fatti? Ho letto tutto e il contrario di tutto su questa vicenda, ma ci sono fatti chiari, molto chiari al di là delle indagini, gli insulti razzisti, la difesa da parte di Emmanuel della propria compagna e poi di se stesso.  Certo, si sarà difeso. Si sarà anche difeso, ma non si è difeso abbastanza da sopravvivere: è morto Emmanuel. Due fatti sono inconfutabili: la morte di Emmanuel e il test del DNA realizzato dal Ris sul cartello stradale che non ha riscontrato tracce biologiche di Emmanuel, mentre ha rilevato tracce biologiche del suo aggressore. E’ stato fermato per strada, insultato e ucciso, sarà il processo a stabilire la successione dei fatti, possiamo solo attendere le prossime indagini, ma da cittadini credo che dovremmo comunque indignarci, indignarci del fatto che qualcuno possa offendere gratuitamente, gravemente una donna che passa per strada, strattonarla, una persona che dovrebbe essere rispettata, una persona più debole, fragile, che ha diritto a essere accolta e anche protetta, un diritto inalienabile che ha una donna di qualsiasi provenienza a non dovere subire insulti per strada, offese, in questo caso aggravate dal razzismo.
Dobbiamo indignarci per la morte di Emmanuel, perché un uomo che è scampato miracolosamente a condizioni di vita insostenibili nel suo paese viene a morire qui, per mano di un altro uomo accecato dall’odio razzista. E se pensiamo di vivere in un paese civile questo non possiamo accettarlo, perché nel momento in cui lo accettiamo, soprassediamo, pensiamo che non sia più importante certo di altre tragedie da cui siamo colpiti ogni giorno, che è un fatto tragico in mezzo a fatti tragici, allora siamo responsabili, allora uccidiamo anche noi. Uccide oggi il silenzio. E si alzano muri oggi molto facilmente, è facile quando ci sono persone che hanno già alzato quei muri dentro di loro. Dopo questi fatti le persone si sono schierate, responsabile anche un pessimo giornalismo che non dovrebbe esistere, e anche solo verso chi prendeva le difese di Emmanuel, ci sono stati attacchi a dire poco vergognosi e razzisti sui social network. Ci sono invece persone che umanamente, non si sono poste tanto davanti a fatti processuali, ma hanno provato indignazione davanti alla morte di un uomo che non aveva cominciato alcuna lite, che stava passeggiando liberamente, era certamente lontano da lui il pensiero che quello era il suo ultimo giorno di vita, perché avrebbe dovuto pensarlo? Aveva i sogni e la vita davanti, come tutti noi. Si può morire per malattia, si può morire per incidente, ed è già atroce così la vita, ma se questo vuole essere un paese civile non si può morire per omicidio, per la rabbia del primo che passa, perché qualcuno ha deciso che oggi sfogherà tutto il suo odio su di te e sulla tua compagna: non è accettabile, non intendiamo accettarlo. Non intendiamo dimenticarci di Emmanuel, perché oggi dimenticarci di Emmanuel costituirebbe un precedente molto pericoloso, un messaggio subdolo troppo rischioso da fare passare, ovvero che “un nero” si può uccidere per strada perché tanto non si finisce neppure in carcere, perché tanto ci saranno le condizioni, un sistema compiacente, che farà in modo che chi è l’assassino diventi la vittima, e chiameremo “Ultrà” un razzista, perché sembrerà meno grave, chiameremo “ultrà” un assassino, perché sembrerà un “peccato minore” . Saremo abili con le parole. Su questo fatto grave, pesa una responsabilità di tutti, il non dimenticare, non lasciare correre e volere la verità, nient’altro che la verità dei fatti e pretendere una giustizia per un omicidio.
Non so se siamo una minoranza che desidera l’accoglienza, che prova dolore forte e indignazione verso questi fatti di una brutalità agghiacciante. Me lo chiedo spesso, in quanti siamo, in quanti siamo per l’accoglienza, per i diritti umani, per la giustizia, per la verità, in quanti siamo? Non ho risposte ma sapremo tenere viva la Memoria di Emmanuel e pretendiamo la verità processuale non dai giornali di parte, ma dalla giustizia. Pretendiamo diritti umani per tutti, pretendiamo che le persone che vengono qui, da noi in Italia, siano protette, non uccise per la strada, desidero cominciare a parlare di “persone”, non di bianchi e neri, migranti, profughi, quelle sono condizioni, tristi condizioni, che se avessimo “memoria” di un passato, dovremmo ricordarci di avere vissuto. Ma io oggi desidero parlare di persone, con la bellezza e il senso che ha questa parola, perché per me Emmanuel era una bella persona, con un futuro davanti e voleva solo vivere sereno con sua moglie Chyniere. E questo mondo senza lui e senza altri come lui, è un mondo peggiore. Ogni atto di ingiustizia, ogni omicidio, ogni abuso del più forte sul più debole, rende questo un mondo peggiore. E a chi pensa è solo uno, ce ne sono tanti, tanti morti, perché lui? Perché l’attenzione su di lui, io rispondo cominciamo da lui. Cominciamo da Emmanuel, e finiamo di non sentirci parte in causa di nulla, se abbiamo una coscienza allora abbiamo responsabilità, forse sarà più doloroso il mondo così, ma ci apparterrà di più, perché ne faremo parte.
Oggi, dopo essere stati “bloccati” dai giornali che avevano orientamenti politici da difendere, più di Emmanuel e della verità, oggi, chiediamo ancora di sostenerci per una importante petizione, nata per ricordarci di Emmanuel, e per abbracciare come possiamo Chinyere, perché l’Italia non la lasci sola, perché il mondo intero non la lasci sola, tutti possono sostenerci per la richiesta di una Sala di Medicina a Bologna, creata su change.org, alla Memoria di Emmanuel Chidi Nnamdi. Facciamo diventare realtà il gesto che Chyniere aveva fatto, quel gesto così importante, che è stato un esempio di grande umanità partito da lei, facciamolo noi. Un gesto che nessuna verità processuale potrà cambiare, un gesto umano sulla disumanità che non va dimenticato, possiamo farlo, possiamo fare questo, ricordare Emmanuel per sempre. Perché non dimenticare significa anche non ripetere. Non occorre essere da una parte o dall’altra politicamente, non è questo, occorre essere umani. Ricordo che il nostro non è un discorso politico, quello lo lasciamo ai politici e ai giornali, il nostro è un discorso umano e di pretesa giustizia e verità e questa è una petizione al di là di ogni presa di posizione politica.
 
Avremmo anche voluto rispondere da cittadini su un giornale, esprimere il nostro punto di vista, presentare questa petizione, ma anche la morte ha una sua attualità, come il pesce fresco sul bancone e c’erano morti più recenti, del resto si muore sempre, c’erano atti terroristici, foto di bambini morti anch’essi strumentalizzati per la vendita dei giornali, foto di cadaveri, e allora ti fanno capire che c’è morte e morte: c’è una morte da prima pagina e una che non vende più. C’è la macchina bene oliata della notizia che ha supremazia sulle altre, c’è la gara a colpi di tragedie, tragedie che fanno incrementare vendite, c’è un’attenzione breve, anche sui social network, siamo tutti “tutto” ma per pochi giorni, non è colpa nostra, ci sono troppi morti, ci stiamo abituando, sono numeri. Forse quando la morte non avrà una scadenza come la carne e il pesce, e al di là di ogni atrocità, dalle guerre, ai desaparecidos, agli atti terroristici, ai morti per tortura, ai terremotati, ai femminicidi, agli omicidi, forse quando ogni persona sarà riconosciuta come persona e non per la vendita di una notizia, allora potremmo scoprirci come “umanità” e potremmo dare a ogni persona il giusto valore e la giusta importanza. E allora non avremo problemi di precedenza, attualità, perché riusciremo a ricordarli tutti, a non dimenticare proprio nessuno, forse per questo oggi possiamo cominciare da qualcuno. Se a noi passasse il concetto fondamentale che “l’altro sono io” non potremmo mai dimenticarci di nessuna morte per ingiustizia, semplicemente perché significherebbe dimenticarci di Noi.
 
Stiamo rendendo questo mondo un labirinto di muri e frontiere dove siamo e saremo i primi a perderci del tutto, stiamo subendo una divisione che ci è imposta, senza renderci conto che prendere le distanze dalla sofferenza, non significherà non essere i primi a esserne prigionieri. Stiamo limitando la libertà altrui, non rendendoci conto che così ce la stiamo noi stessi negando, vogliamo essere liberi, liberi davvero? Allora non abbiamo altra scelta che decidere di essere i più forti, ma per fare questo ci si unisce contro i poteri forti, non si lascia che questi ci dividano, forse chi fugge da dittature potrebbe farci scorgere dittature che i nostri occhi non sono più abituati a scorgere. Forse potremmo scoprire dittature compiacenti e sorridenti, tranquillizzate dal fatto che le nostre battaglie nascono e muoiono sui social network.
 
Quando gli uomini permettono che si alzino muri per dividere, significa che quei muri erano già dentro di loro, quando gli uomini alzano muri fanno prigionieri da entrambe le parti.
 
Eloisa Guidarelli
 
 
 
E qui il link  all’appello apparso dapprima ne lamacchinasognante.com per una Sala di Medicina alla Memoria di Emmanuel, che abbiamo poi  portato sul sito delle petizioni Change. Anche su Change l’appello  ha  purtroppo subito una battuta d’ arresto, possibilmente da collegare alle notizie false e tendenziose riportate da alcuni giornali. Proponiamo i link agli articoli apparsi su “Il Giornale” qui e  qui    “Libero” qui  sia a luglio, subito dopo l’omicidio, sia nelle settimane successive, in cui sono state diffuse notizie prive di fondamento, come quella della presunta ritrattazione di Chinyere rispetto alla dinamica e sequenza dei fatti. Tale notizia  è stata smentita dal Procuratore della Repubblica di Fermo  che si è premurato di comunicare che Chinyere non era stata sentita una seconda volta dopo il primo interrogatorio e non poteva quindi aver  dato una diversa versione dei fatti., vedi qui    – Ma inutile aspettarsi da certi media la ritrattazione di una notizia falsa: come ci insegnano molti politici, qui e a livello internazionale, l’importante è creare consenso attorno a un’idea, che sia errata o meno non importa, tanto anche se costretti a smentire (cosa che non si sentono minimamente in dovere di fare, contravvenendo a  una pur minima etica di giornalismo), quello che rimane impresso nella mente delle persone è la prima notizia acquisita.  
 
Pina Piccolo
 
 

 
Eloisa Guidarelli è nata e vive a Bologna, diplomata in grafica pubblicitaria, lavora e si afferma come pittrice, attrice e drammaturga. “Come artista sfioro sempre il sociale, in quanto la mia pittura nasce dai miei stessi ideali, da un’idea di rivoluzione che possa partire dalla pittura per arrivare a colpire nel profondo dell’animo umano, scelgo di privilegiare l’universo femminile, perché ne desidero il riscatto sociale, le mie tematiche non vogliono mai essere accuse ma fotografie sui fatti del mondo”.
Foto  in evidenza, quadro di Eloisa Guidarelli.
Foto dell’autrice a cura di Eloisa Guidarelli.