Eloisa Guidarelli Foto
Per vedere il mondo come vuoi
vederlo tu, ci vogliono occhi molto grandi, sproporzionati nel volto, occhi per
contenere un ricordo. Per i tuoi occhi
liquidi.
E io mi incantavo, come solo si
incantano i ribelli, sull’armonia della sua bocca, un taglio orizzontale che
faceva male, e avrei voluto chiedergli
senza muovere le labbra, ma con le intenzioni esplicite come parole limpide,
“come si sta dentro di te, cosa provi quando sollevi le gambe, per andartene
altrove, vorrei essere i tuoi muscoli, sentire le tue articolazioni, spostarmi
attraverso le tue ore”.
E mi mangiavo con la curiosità
quello spazio d’aria che ci avvolgeva e divideva, e udivo per prima, ne sono
certa, ogni rumore che ci circondava, come una scoperta, avevo quell’attenzione
totale propria di un animale, e assoluta concentrazione su ogni gesto e parola,
la deglutizione, le palpebre che abbassava, l’accenno della piega di un
sorriso, e movimenti delle sopracciglia a narrare la storia, ali nere di
rondine sospese alla fronte, voli bassi, disegnavano a tratti sentimenti, che
sembravano nascere da traiettorie di vento, piume nere di bolina come scafi
leggeri, soltanto un attimo prima, davano un respiro diverso a quel magico
volto, una dissolvenza incrociata, tra acqua e filo spinato, fino ad oggi dove
eri stato? La sua maschera perfetta, fuori e sotto la superficie d’acqua, e io
assetata di punti interrogativi e pause, pause che buttava nei discorsi
all’improvviso, il tempo di un respiro e profonda contemplazione, ma diavoli
alla sbarra suggerivano il suo nome, percorsi interrotti, come ponti caduti,
dove di colpo macchine che sfrecciavano a tutta velocità, avrebbero inchiodato,
e sarebbe rimasto un segno nero di copertone bruciato sull’asfalto di quello
che aveva tralasciato di dire… a rischio di morire.
Narciso perfetto incatenato nel
tuo specchio d’acqua e piccole onde che ti increspavano il sorriso, come
polpastrelli gelati di fate da te rifiutate. Troppo preso dal tuo incanto
soltanto. Tu e la sabbia, tu e il gioco, tu e la gelosia, e io avevo dentro le
cicale in un’orchestra totale, di seduzioni e rimandi di stagioni, di
sensazioni senza nomi, ero troppe persone nella mia stessa pelle, non ero mai
sola, ero parte del vento adesso e allora, ero parte di un tutto dal quale non
mi sono divisa mai, ho perduto uomini in giro, ma non ho perduto mai il mio
respiro all’unisono con il mondo, e ci sono andata affondo, ero troppo viva per
essere tua, ero troppo curiosa per essere soltanto mia, avevo bisogno di
conoscere, di sapere, mi drogavo ad ascoltare, ogni ricordo del mondo visto da
un altro all’angolo della sua vita, mi scendeva lento dentro, le sue
motivazioni mi stringevano la pelle come laccio emostatico, il dolore
dell’altro, le sue intuizioni, la vita, le scelte, cicatrici, sfondi, fondali,
dipinti, racconti, personaggi, attori. Ragioni. E io a inglobarmi mondi,
mettevo la pianta dei piedi su quelle orme lasciate da altri e ne indovinavo i
pensieri. Sentivo l’eco di risate e pianti e siamo sempre stati in tanti dentro
me. In quanto alla fine della nostra storia, cosa ci vuoi fare, non sono una di
quelle donne che corrono da un amore all’altro, come molluschi senza
conchiglia, in cerca di scuse usate abbandonate come case, o chiese sconsacrate
dove rifugiarsi con preghiere abiurate e
bestemmie represse, per alibi e concessioni, buoni di educazione da
spendere in pausa pranzo, soltanto. Non sono mai stata arrotolata in un corpo
molle a chiedermi solo di percorrere lenta corridoi a chiocciola perché tu da
quel mare pieno di occasioni bussavi alla mia porta. Ho tenuto antenne delicate
per l’alta e bassa marea della nostra estate. Mi difendevo dalla corrente, e
quando ascoltavo tutta la tua perfezione d’un fiato, il tuo posare del volto,
che sembrava cercare la luce giusta, che rimanesse impresso nella memoria,
anche questa volta, perché la storia sono fotografie, le tue e le mie, ed eri
direttore d’orchestra di gesti e parole e sguardi, regista, attore, scenografo,
drammaturgo, ti guardavo dentro a lungo, al di là della superficie, e non
potevo fare a meno di chiedermi, sovrastata dall’incanto, e travolta dal
destino, ma sto parlando con un genio o con un cretino.
Ho precipitato a lungo
nell’insonnia più profonda.
La mente.
Non aveva respiro, ma proiezioni
infinite,
non avevo un angolo dove cadere
esausta,
per una pausa.
Sudore e vapore acqueo,
attaccarsi a lenzuola che sono vele, incubo di tempeste, temere l’alba come un
vampiro e il cinguettare degli uccelli come sentenza di luce. Che il cuore
impazzisca del tutto, si sfracelli con la sua alta velocità e mi lasci priva di
coscienza, perché da sola non so arrivarci. L’insonnia scarnifica e raddoppia,
triplica, la mia immagine nel letto in posizioni da precipizio al suolo. E non
muoio. Come in un tunnel di specchi il mio corpo è moltiplicato e a pezzi. Sono
costretta, occhi sbarrati a questo teatro volgare del passare di ore, minuti,
secondi tondi come biglie metalliche che mi scorrono sottopelle, poi rabbia
cieca, perché ho bisogno di tregua dalla mia stessa mente, che crea visioni al
cortisone, salgono in aria come anelli di fumo, frantumano arte, in parte mi
catturano e mi trascinano, spettatrice di un cinema all’aperto che conosco, a
ogni costo, e il significato di tutto, resta nel silenzio perfetto bisbigliato
solo dal vento all’orecchio, e tanto pubblico
proiettato nello sguardo di uno schermo eterno, ognuno solo con il
proprio paradiso in questo inferno. Per fortuna che non ho avuto figli e di
conseguenza non ho condannato a morte nessuno. Esistere pesa, da sempre, per
chiunque abbia una coscienza. Devo averlo già scritto, già detto, devo essermi
già sciolta in questa sentenza. E tu sei in ritardo con questo gioco d’azzardo.
Poi mi cadono lacrime, la mia pelle le assorbe come qualcosa di strano,
qualcosa di umano. Guarda esisto, mi riferisco.
E’ commovente, sapere di non
essere niente.
Vado a ritoccare le mie
lentiggini sotto il sole, e lascio spazio alla fantasia e all’arte, afrodisiaci
naturali, feromoni per se stessi, lo stesso effetto che fa il mare e
l’immaginare. Sto qui e lascio che il mondo si insegua e minacci, o faccia il
gioco di mordersi la coda, girando su se stesso, sto qui con la gioia di
piccole cose scontate al passaggio, come la gente che cammina le sere d’estate,
e tu ti fermi a osservarle da un muricciolo vicino al porto, e passano, colori,
profumi, odori, assenze. Sto qui a
centellinare il sapore dei minuti e tanti saluti alla paura di turno, che bussa
alle spalle, sono uscita e non intendo tornare subito. Ho un appuntamento con
il sole soltanto, devo accompagnare la mia pigrizia altrove, lontana da scuse e
inviti a cui non saprebbe dire di no. Già lo so. Devo portare il mio cinismo
ferito, esistito per parare fendenti a casaccio, avevo il cuore scoperto dalle
mie solite guardie del corpo, e lui s’è persino vantato del massacro, che tanto
non lo colpiva, che tanto non lo scalfiva, posso restituirti piano la frequenza
giusta del battito cardiaco, bisbigliandoti parole di nettare all’orecchio,
come tutto fosse perfetto, e allontanarmi per sempre da quel tipo di solitudine
che scarta persino l’artista, per la solitudine fiera e onesta, data da scelte
di testa e non altrui. Ho passi solitari da un tempo infinito, so come ci si
sente, nello stupore di chi ti cammina a fianco, quando tu da sempre sei tua
soltanto. Mi sento come una Giovanna d’ Arco stanca, a cui pesano tutte le
stragi, quanto la spada, sento le voci come sempre, ma sono un coro di balle.
So dei guai di chi non ti comprenderà mai, eppure ne è affascinato, il mistero
della solitudine cercata, desiderata, voluta, si indossa come un vestito osceno
che lascia scoperta la schiena fino alle natiche, si intravede il seno e invade
la scena, vorresti tenere tutti distanti e sono già potenziali amanti, negarsi
è peggio che darsi, senti lupi avvolgerti in cerchi che si restringono veloci,
li sento come corde stringermi agli arti, un coro di ululati sulla tua
indipendenza che ti avvolge le spalle, per difenderti dalla sera, dalla brezza,
dalla condanna universale, quando è il prurito degli altri a dichiarare il tuo
male, all’unanimità è strega non si adeguerà. E allora arriva la seduzione a
precedere la prigione. Mi annoia da morire la storia che si ripete, senza
troppi colpi di scena, uguale a se stessa come un fatto di ordinaria burocrazia
della polizia, alla quale tu hai fatto la spia, per la serenità. Hai fatto il
mio nome e io l’ho sentito addosso, dappertutto, hai fatto il mio nome e ne ho
sentito lo schiaffo, hai fatto il mio nome e hai sporcato tutto, hai fatto il
mio nome e mani mi hanno stretto le spalle, hai lasciato che ci perquisissero
il cuore, che cercassero in ogni stanza e buttassero in aria biancheria di
ricordi, e così quello che era stato sensuale ed evanescente dalle nostre
labbra ritornava niente, hai trattato il nostro amore da vigliacco, te l’ho
detto, te l’ho urlato, te lo sei rimangiato come un peccato, come qualcosa di
cui ti sei vergognato, è bastato ti suggerissero “la fedeltà alla tua
moralità”, ed è per questo che una bella storia ha perso la sua dignità, e io
ti ho guardato con occhi di brace anche se non mi potevi vedere più. Tu. Non
lottare per me, sarebbe come lottare per qualcosa che non c’è. Non puoi tenere
né un coltello, né una pistola con le dita sudate del tuo imbarazzo, nemici
scaltri ti sputerebbero addosso, quindi tieni le mani in tasca e la poesia
sulla punta della lingua, da sibilare a qualcun’altra un po’ più ingenua nella
tua prossima vita. Arresta l’amore che credi di sentire, manette ai polsi
dietro la schiena, ferma agli occhi lacrime inquinate perché le nostre guance
potrebbero morirne, piuttosto lasciale assetate. Non lo capisci dal mio sguardo
che sei in netto ritardo, non capisci dal mio sguardo che quando ti vedo
continuo a cercarti, ma non c’è nulla da fare, non posso, perché non ti
riconosco. Devo avere amato un altro. Quello che ho davanti è un uomo come
tanti a cui io non ho nulla da dire, da raccontare, sono innamorata della mia
passione, dei miei ideali, ho sposato con loro una solitudine colma di persone
di nessuna nazione, ho sposato l’infinito. E non mi ha mai tradito. Soltanto
con te ho conosciuto la solitudine più profonda, l’eterna distanza, la morale
volgare, in un paradiso di giochi inventati da due innamorati impotenti sui
propri sentimenti, non hai scelto mai, l’ho fatto io al posto tuo, per
entrambi. Non posso amare gli uomini che non sanno scegliere, perché fare una
scelta è avere un’identità e perché tanto si sceglie sempre anche quando non lo
si fa, solo che in quel caso, non sei quello che hai deciso, ma solo quello che
rimane dell’atto di un rifiuto, non vuoi responsabilità, sono quelli come te
che sopravvivono sempre e sono quelle come me condannate in eterno e che non
fanno una bella fine mai. Perché sono quelli come te che fanno felice la
società, che può stare certa, che dietro quelli come te, non ci sarà scoperta,
ma solo un ordine prestabilito, seguito e digerito e predisposto, e infatti con
me hai sconfinato e poi ti sei pentito. Ho persino creduto che mi avresti
seguito. Pensavamo di essere simili o che saremmo potuti esserlo, pensavamo di
essere come i gemelli che condividono tutto questo, ma ora lo sappiamo che non
potremmo avere distanze maggiori e maggiori malinconie. Perché a volte
immaginare fino a credere che possa essere reale, fa davvero male, quando ci si
trova all’improvviso davanti a quella parte di sé, che no, non posso cambiare
perché non sono come te, è come restare l’altro a guardare mentre salta con
prodezza un fosso e comprendere che non lo seguirai più da adesso, perché tu
cadresti giù. Ho provato a fare tutto per noi, ho provato a fare tutto di noi,
un romanzo, una drammaturgia, una storia dove siamo due spie, per confondere le
tue bugie con le mie, ne ho fatto una farsa, ne ho fatto una tragedia, una
vittoria e una resa, e adesso mi sono fatta da parte, ho tentato di salvarci,
ho tentato di barattarci con l’arte, sono passata dal romantico all’osceno,
siamo rimbalzati dalla luna agli abissi, ma adesso non lo so più in cos’altro
potremmo ancora trasformarci pur di non rimanere a guardarci, così, per quello
che siamo. Perché non ti amo. Ho solo metastasi ovunque di te, e davanti agli
occhi un carosello di eroi ripetuti e caduti, di uomini diventati bandiere, di
commemorazioni di vecchie e nuove stragi, gestite da sempre, in fondo, dal
mondo dei grandi affari, degli strateghi al governo, a quel governo qualcuno ce
li ha sempre mandati. Le persone si dividono in fondo soltanto così, gli
idealisti dai cuori irrisolti, che devono avere il sangue di un gruppo speciale
che è raro trovare, che sono da sempre inadeguati, perché si sa, lo è la verità,
e poi gli altri, che hanno risolto ogni possibile questione perché partendo dal
mentire anche a se stessi, al finire
per credere nelle proprie bugie, riescono ad adeguarsi alle bugie degli altri.
In fondo cos’è la verità, quello che si può provare, quello che si può toccare?
E se fossero solo proiezioni a milioni e milioni, come le stelle, verità cadute
che si incendiano e tu esprimi un desiderio se ti fa stare meglio. Utopie,
verità che si possono comprare, verità che devo tacere, verità sepolte sotto il
silenzio, la mota, la merda, il tempo. Verità di dolore e gioia pura, verità di
paura e speranza, verità di premura, verità di panni da lavare in famiglia,
verità di omertà, verità per viltà, verità per fare male ma è per il tuo bene,
verità oscene, verità a oltranza sopra le ferite. Di sangue e sale. Le ferite
se potessero parlare non potrebbero mentire, ma in pochi le vogliono riaprire.
E si boccheggia, si evade, si trovano punti di fughe in prospettive sbagliate,
la sera si torna nell’oscena galera ma la chiamiamo casa, e occhi proiettati al
soffitto, bordi di pizzo che lasciano scoperte ginocchia nate per le scoperte,
sogni scaltri con passaporti falsi. Ed è per questo che ti dico oggi senza
meraviglia, ma con ciglia che sono aculei di riccio di mare, poi aghi di pino,
poi ciglia di cerbiatto, foglie di rosmarino, poi ciglia dipinte ad arte,
sipari neri, come l’inchiostro gettato dal polipo nell’ora di fuggire, lascia
stare, il tuo corteggiamento è arrivato in ritardo, è pigro, è stanco, è fuori
luogo, ti ha travolto il ricordo, ma è un amore di schiena, a rubarti la scena,
non lottare per me perché sono troppo distante, diversa da te, e inoltre non
lottare per me, io ho sposato da tempo una lotta onesta che non ti riguarda,
che ti tiene testa. Molliche di pane, molliche di fame, molecole di me, e tenti
di ricostruirmi, maldestro nei momenti passati e rifiutati, predigeriti e
ordinati, e tenti un goffo volo, e non ci credi neppure tu, perciò è con
sorriso cinico, è con labbra serrate, è con grandi risate e con sorrisi
malinconici, poi con sorrisi ironici che ti dico, lascia stare perché non vale
la pena lottare per me, ci vorrebbe troppa curiosità, troppa attenzione, troppa
verità e troppa narrazione, ci vorrebbero ideali a scorrerti dentro, ci
vorrebbe guerra e malcontento, ci vorrebbe un fiume in piena e poi rabbia e poi
vento, ci vorrebbero pipistrelli a dichiararsi a pelo d’acqua a cancellare
tutti i dubbi sopra la tua faccia, ci vorrebbero scimmie scaltre con le loro
risate a rubarmi tutti i frutti marci
dalle mani della nostra estate, ci vorrebbe una luna oscena, una luna con il
volto d’uomo e una donna a cavallo della sua barba che non gli chiederà perdono, ci vorrebbe ostentazione ed un
pizzico di oltraggio, ci vorrebbe la sfida oltre al solito coraggio, ci
vorrebbe qualcuno che della convenienza non se ne fa un granché, ci vorrebbe
qualcuno che sta dalla mia parte, senza per questo fingere di interessarsi alla
mia arte, ci vorrebbe qualcuno che capisse che io e la mia arte di certo
abbiamo qualcosa in comune, ma questo non significa che… comprando un mio
quadro comprerai me, ci vorrebbe
qualcuno, qualcuno che non c’è, lo dico mentre il viso mi scivola tra le dita
delle mani, che cingono i capelli, ed è li che tu rimani, in una disperazione
intatta, nella precarietà di un gesto, nel respiro spezzato dal tuo cuore
disonesto, come posso essere tua, non sono mai stata mia, un pensiero che detesto, e quindi te lo dico
con polpastrelli pieni di colore, te lo dico con tutte quelle ore passate a
dipingere minuti di tempo, di quello che ho dentro, passate a sfiorare ideali
che nascono come fiori e si allontanano come voli, te lo dico con le lotte
arrestate alla gola, di una giustizia da sempre mano nella mano con il boia. Te
lo dico con ossa spezzate nel mio sguardo, te lo dico con il cuore in ritardo
sul pianto, te lo dico con la rabbia di un ribelle che ha perso tutto quanto,
te lo dico a un passo dalla fucilazione del mondo, e di quello in cui ho
creduto e credo fino in fondo, te lo dico con il più sincero saluto, non
lottare per me, perché dove sono io non puoi essere te. E scrivi sull’epigrafe
della nostra storia, che sono vissuta nel regno intermedio posto tra
l’innocenza e la colpa, e quando porterai fiori, onorificenze e odori raccolti
nel parco selvatico dei sogni che hai bleffato, ricordati anche di scrivere
che:
“…lei si allontanò da me perché le era sempre stato detto, con
mille raccomandazioni, di non accettare pensieri dagli sconosciuti, come
fossero doni”
E Dio scusa, scusa se non ho capito come eri bella, balbetterai su
noi, di una bellezza colma di intenzioni e terra, di quella bellezza
potenziale, che ti entra nelle viscere e ti fa male, di quella bellezza reale
che non seduce, quella bellezza che non si fa ingannare, che non puoi comprare,
che non ti appare, come una viola cresciuta su una ferrovia, di polvere, di
vento, di alta velocità, di vita cresciuta dove nessuno si tratterrà, di lato,
all’oscuro, in secondo piano, che si può notare non per attenzione, ma nella
distrazione, e lì rimane. E da lì quella bellezza a stento ti crescerà dentro,
attraverso un concetto di-verso che si perde nel tempo.
“Maestro, maestro sai perché ti
piacevo da morire?”,
ti rincorrerà inciampando il
fantasma maldestro di un amore, nell’incertezza di troppe cose da dire:
–
“perché in vetrina non mi puoi trovare”, e tu rimarrai
bloccato, lei ti poggerà le mani alla schiena, tu morirai nel sentire i suoi
seni respirare. “Lo stesso motivo per farmi maledire e fumo negli occhi che
sono già fumo, fumo di sciocchi” E poi mi dispenserai perle di saggezza che
sono come guai, e tanto per cambiare tutto quello che mi darai saranno minuti
preziosi nei porci comodi tuoi.
Noi.
E senti
seduzioni che come serpenti scivolano dai tuoi anni che sono tanti, perché noi
eravamo assenti, per ungere quelli che pensi essere miei desideri importanti,
ma niente, non sono presente, non mi riesco a inchinare, mi fa troppo male e tu
rimani così con un respiro e un battito nuovo, per poco, ma prima di andare via
per sempre, tornerai sui tuoi passi, per sistemare fiori caduti di lato, per
sentirti più umano e leggero, per sfiorare con le labbra un pensiero che è
marmo, e lo dovrai ammettere a costo di chinare il capo più giù tra le tue
belle spalle, dove le ali non ci sono più.
Questo amore è morto per un uomo
che ha preferito invece di lottare credere alle proprie balle!
E il mio fantasma resterà lì,
ferma nell’eterno addio, una che non sono più io, lacera e vestita a festa
dell’ultimo ricordo, volutamente sporcata come una figlia ribelle, di more e
mirtilli sulle labbra deserte delle tue promesse, lei resterà lì per sempre a
ciondolare. Vedendo solo la schiena di chi la poteva amare.
Non lottare per lei perché siete
sempre stati come il sole e la luna, la morte e la vita, gli ideali e
l’indifferenza, non lottare per lei, semplicemente perché, dove è lei non puoi
essere te.
Capita che
l’indifferenza sia affascinata dagli ideali e gli ideali siano attratti
dall’indifferenza, che tentino di conquistarsi a vicenda, ma è una storia che
non può durare, perché ci sono baratti che non si possono fare.
I tempi dell’amore
quando sono tempi sbagliati, prima si è innamorati, poi ti lascio io perché ho
scoperto che amo più di te, e quando non ti amo più, cominci ad amarmi tu.
E in ultimo, noi non
accettiamo alcuna morte, alcun addio, noi non comprendiamo che c’è un momento
che muore chi amiamo, che comincia con il rifiutare il cibo, l’acqua, che vive
l’avvenuto, lento, delicato distacco, che mentre noi gli respiriamo vicino, lui
è in equilibrio su un filo e si bilancia sulla distanza, noi insistiamo, quasi
lo violentiamo, non siamo al suo posto e non possiamo sentire che a volte è
dalla vita che si vuole fuggire.
E così il tuo amore ora
mi tiene il capo sulle ginocchia, mi detergi la fronte, ma io rifiuto cibo e
acqua, e sei in ritardo sul mio sguardo aperto altrove.
E perché corri, perché
vuoi che corra? Rallenta, rallenta. Ho bisogno di guardarmi attorno quando
attraverso il mondo.
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