venerdì 29 luglio 2016

Per vedere il mondo con i tuoi occhi.

Eloisa Guidarelli Foto






Per vedere il mondo come vuoi vederlo tu, ci vogliono occhi molto grandi, sproporzionati nel volto, occhi per contenere un ricordo.  Per i tuoi occhi liquidi.

 

E io mi incantavo, come solo si incantano i ribelli, sull’armonia della sua bocca, un taglio orizzontale che faceva male, e  avrei voluto chiedergli senza muovere le labbra, ma con le intenzioni esplicite come parole limpide, “come si sta dentro di te, cosa provi quando sollevi le gambe, per andartene altrove, vorrei essere i tuoi muscoli, sentire le tue articolazioni, spostarmi attraverso le tue ore”.

 

E mi mangiavo con la curiosità quello spazio d’aria che ci avvolgeva e divideva, e udivo per prima, ne sono certa, ogni rumore che ci circondava, come una scoperta, avevo quell’attenzione totale propria di un animale, e assoluta concentrazione su ogni gesto e parola, la deglutizione, le palpebre che abbassava, l’accenno della piega di un sorriso, e movimenti delle sopracciglia a narrare la storia, ali nere di rondine sospese alla fronte, voli bassi, disegnavano a tratti sentimenti, che sembravano nascere da traiettorie di vento, piume nere di bolina come scafi leggeri, soltanto un attimo prima, davano un respiro diverso a quel magico volto, una dissolvenza incrociata, tra acqua e filo spinato, fino ad oggi dove eri stato? La sua maschera perfetta, fuori e sotto la superficie d’acqua, e io assetata di punti interrogativi e pause, pause che buttava nei discorsi all’improvviso, il tempo di un respiro e profonda contemplazione, ma diavoli alla sbarra suggerivano il suo nome, percorsi interrotti, come ponti caduti, dove di colpo macchine che sfrecciavano a tutta velocità, avrebbero inchiodato, e sarebbe rimasto un segno nero di copertone bruciato sull’asfalto di quello che aveva tralasciato di dire… a rischio di morire.

 

Narciso perfetto incatenato nel tuo specchio d’acqua e piccole onde che ti increspavano il sorriso, come polpastrelli gelati di fate da te rifiutate. Troppo preso dal tuo incanto soltanto. Tu e la sabbia, tu e il gioco, tu e la gelosia, e io avevo dentro le cicale in un’orchestra totale, di seduzioni e rimandi di stagioni, di sensazioni senza nomi, ero troppe persone nella mia stessa pelle, non ero mai sola, ero parte del vento adesso e allora, ero parte di un tutto dal quale non mi sono divisa mai, ho perduto uomini in giro, ma non ho perduto mai il mio respiro all’unisono con il mondo, e ci sono andata affondo, ero troppo viva per essere tua, ero troppo curiosa per essere soltanto mia, avevo bisogno di conoscere, di sapere, mi drogavo ad ascoltare, ogni ricordo del mondo visto da un altro all’angolo della sua vita, mi scendeva lento dentro, le sue motivazioni mi stringevano la pelle come laccio emostatico, il dolore dell’altro, le sue intuizioni, la vita, le scelte, cicatrici, sfondi, fondali, dipinti, racconti, personaggi, attori. Ragioni. E io a inglobarmi mondi, mettevo la pianta dei piedi su quelle orme lasciate da altri e ne indovinavo i pensieri. Sentivo l’eco di risate e pianti e siamo sempre stati in tanti dentro me. In quanto alla fine della nostra storia, cosa ci vuoi fare, non sono una di quelle donne che corrono da un amore all’altro, come molluschi senza conchiglia, in cerca di scuse usate abbandonate come case, o chiese sconsacrate dove rifugiarsi con preghiere abiurate e  bestemmie represse, per alibi e concessioni, buoni di educazione da spendere in pausa pranzo, soltanto. Non sono mai stata arrotolata in un corpo molle a chiedermi solo di percorrere lenta corridoi a chiocciola perché tu da quel mare pieno di occasioni bussavi alla mia porta. Ho tenuto antenne delicate per l’alta e bassa marea della nostra estate. Mi difendevo dalla corrente, e quando ascoltavo tutta la tua perfezione d’un fiato, il tuo posare del volto, che sembrava cercare la luce giusta, che rimanesse impresso nella memoria, anche questa volta, perché la storia sono fotografie, le tue e le mie, ed eri direttore d’orchestra di gesti e parole e sguardi, regista, attore, scenografo, drammaturgo, ti guardavo dentro a lungo, al di là della superficie, e non potevo fare a meno di chiedermi, sovrastata dall’incanto, e travolta dal destino, ma sto parlando con un genio o con un cretino.

 

Ho precipitato a lungo nell’insonnia più profonda.

La mente.

Non aveva respiro, ma proiezioni infinite,

non avevo un angolo dove cadere esausta,

per una pausa.

 

Sudore e vapore acqueo, attaccarsi a lenzuola che sono vele, incubo di tempeste, temere l’alba come un vampiro e il cinguettare degli uccelli come sentenza di luce. Che il cuore impazzisca del tutto, si sfracelli con la sua alta velocità e mi lasci priva di coscienza, perché da sola non so arrivarci. L’insonnia scarnifica e raddoppia, triplica, la mia immagine nel letto in posizioni da precipizio al suolo. E non muoio. Come in un tunnel di specchi il mio corpo è moltiplicato e a pezzi. Sono costretta, occhi sbarrati a questo teatro volgare del passare di ore, minuti, secondi tondi come biglie metalliche che mi scorrono sottopelle, poi rabbia cieca, perché ho bisogno di tregua dalla mia stessa mente, che crea visioni al cortisone, salgono in aria come anelli di fumo, frantumano arte, in parte mi catturano e mi trascinano, spettatrice di un cinema all’aperto che conosco, a ogni costo, e il significato di tutto, resta nel silenzio perfetto bisbigliato solo dal vento all’orecchio, e tanto pubblico  proiettato nello sguardo di uno schermo eterno, ognuno solo con il proprio paradiso in questo inferno. Per fortuna che non ho avuto figli e di conseguenza non ho condannato a morte nessuno. Esistere pesa, da sempre, per chiunque abbia una coscienza. Devo averlo già scritto, già detto, devo essermi già sciolta in questa sentenza. E tu sei in ritardo con questo gioco d’azzardo. Poi mi cadono lacrime, la mia pelle le assorbe come qualcosa di strano, qualcosa di umano. Guarda esisto, mi riferisco.

E’ commovente, sapere di non essere niente.

 

Vado a ritoccare le mie lentiggini sotto il sole, e lascio spazio alla fantasia e all’arte, afrodisiaci naturali, feromoni per se stessi, lo stesso effetto che fa il mare e l’immaginare. Sto qui e lascio che il mondo si insegua e minacci, o faccia il gioco di mordersi la coda, girando su se stesso, sto qui con la gioia di piccole cose scontate al passaggio, come la gente che cammina le sere d’estate, e tu ti fermi a osservarle da un muricciolo vicino al porto, e passano, colori, profumi, odori, assenze.  Sto qui a centellinare il sapore dei minuti e tanti saluti alla paura di turno, che bussa alle spalle, sono uscita e non intendo tornare subito. Ho un appuntamento con il sole soltanto, devo accompagnare la mia pigrizia altrove, lontana da scuse e inviti a cui non saprebbe dire di no. Già lo so. Devo portare il mio cinismo ferito, esistito per parare fendenti a casaccio, avevo il cuore scoperto dalle mie solite guardie del corpo, e lui s’è persino vantato del massacro, che tanto non lo colpiva, che tanto non lo scalfiva, posso restituirti piano la frequenza giusta del battito cardiaco, bisbigliandoti parole di nettare all’orecchio, come tutto fosse perfetto, e allontanarmi per sempre da quel tipo di solitudine che scarta persino l’artista, per la solitudine fiera e onesta, data da scelte di testa e non altrui. Ho passi solitari da un tempo infinito, so come ci si sente, nello stupore di chi ti cammina a fianco, quando tu da sempre sei tua soltanto. Mi sento come una Giovanna d’ Arco stanca, a cui pesano tutte le stragi, quanto la spada, sento le voci come sempre, ma sono un coro di balle. So dei guai di chi non ti comprenderà mai, eppure ne è affascinato, il mistero della solitudine cercata, desiderata, voluta, si indossa come un vestito osceno che lascia scoperta la schiena fino alle natiche, si intravede il seno e invade la scena, vorresti tenere tutti distanti e sono già potenziali amanti, negarsi è peggio che darsi, senti lupi avvolgerti in cerchi che si restringono veloci, li sento come corde stringermi agli arti, un coro di ululati sulla tua indipendenza che ti avvolge le spalle, per difenderti dalla sera, dalla brezza, dalla condanna universale, quando è il prurito degli altri a dichiarare il tuo male, all’unanimità è strega non si adeguerà. E allora arriva la seduzione a precedere la prigione. Mi annoia da morire la storia che si ripete, senza troppi colpi di scena, uguale a se stessa come un fatto di ordinaria burocrazia della polizia, alla quale tu hai fatto la spia, per la serenità. Hai fatto il mio nome e io l’ho sentito addosso, dappertutto, hai fatto il mio nome e ne ho sentito lo schiaffo, hai fatto il mio nome e hai sporcato tutto, hai fatto il mio nome e mani mi hanno stretto le spalle, hai lasciato che ci perquisissero il cuore, che cercassero in ogni stanza e buttassero in aria biancheria di ricordi, e così quello che era stato sensuale ed evanescente dalle nostre labbra ritornava niente, hai trattato il nostro amore da vigliacco, te l’ho detto, te l’ho urlato, te lo sei rimangiato come un peccato, come qualcosa di cui ti sei vergognato, è bastato ti suggerissero “la fedeltà alla tua moralità”, ed è per questo che una bella storia ha perso la sua dignità, e io ti ho guardato con occhi di brace anche se non mi potevi vedere più. Tu. Non lottare per me, sarebbe come lottare per qualcosa che non c’è. Non puoi tenere né un coltello, né una pistola con le dita sudate del tuo imbarazzo, nemici scaltri ti sputerebbero addosso, quindi tieni le mani in tasca e la poesia sulla punta della lingua, da sibilare a qualcun’altra un po’ più ingenua nella tua prossima vita. Arresta l’amore che credi di sentire, manette ai polsi dietro la schiena, ferma agli occhi lacrime inquinate perché le nostre guance potrebbero morirne, piuttosto lasciale assetate. Non lo capisci dal mio sguardo che sei in netto ritardo, non capisci dal mio sguardo che quando ti vedo continuo a cercarti, ma non c’è nulla da fare, non posso, perché non ti riconosco. Devo avere amato un altro. Quello che ho davanti è un uomo come tanti a cui io non ho nulla da dire, da raccontare, sono innamorata della mia passione, dei miei ideali, ho sposato con loro una solitudine colma di persone di nessuna nazione, ho sposato l’infinito. E non mi ha mai tradito. Soltanto con te ho conosciuto la solitudine più profonda, l’eterna distanza, la morale volgare, in un paradiso di giochi inventati da due innamorati impotenti sui propri sentimenti, non hai scelto mai, l’ho fatto io al posto tuo, per entrambi. Non posso amare gli uomini che non sanno scegliere, perché fare una scelta è avere un’identità e perché tanto si sceglie sempre anche quando non lo si fa, solo che in quel caso, non sei quello che hai deciso, ma solo quello che rimane dell’atto di un rifiuto, non vuoi responsabilità, sono quelli come te che sopravvivono sempre e sono quelle come me condannate in eterno e che non fanno una bella fine mai. Perché sono quelli come te che fanno felice la società, che può stare certa, che dietro quelli come te, non ci sarà scoperta, ma solo un ordine prestabilito, seguito e digerito e predisposto, e infatti con me hai sconfinato e poi ti sei pentito. Ho persino creduto che mi avresti seguito. Pensavamo di essere simili o che saremmo potuti esserlo, pensavamo di essere come i gemelli che condividono tutto questo, ma ora lo sappiamo che non potremmo avere distanze maggiori e maggiori malinconie. Perché a volte immaginare fino a credere che possa essere reale, fa davvero male, quando ci si trova all’improvviso davanti a quella parte di sé, che no, non posso cambiare perché non sono come te, è come restare l’altro a guardare mentre salta con prodezza un fosso e comprendere che non lo seguirai più da adesso, perché tu cadresti giù. Ho provato a fare tutto per noi, ho provato a fare tutto di noi, un romanzo, una drammaturgia, una storia dove siamo due spie, per confondere le tue bugie con le mie, ne ho fatto una farsa, ne ho fatto una tragedia, una vittoria e una resa, e adesso mi sono fatta da parte, ho tentato di salvarci, ho tentato di barattarci con l’arte, sono passata dal romantico all’osceno, siamo rimbalzati dalla luna agli abissi, ma adesso non lo so più in cos’altro potremmo ancora trasformarci pur di non rimanere a guardarci, così, per quello che siamo. Perché non ti amo. Ho solo metastasi ovunque di te, e davanti agli occhi un carosello di eroi ripetuti e caduti, di uomini diventati bandiere, di commemorazioni di vecchie e nuove stragi, gestite da sempre, in fondo, dal mondo dei grandi affari, degli strateghi al governo, a quel governo qualcuno ce li ha sempre mandati. Le persone si dividono in fondo soltanto così, gli idealisti dai cuori irrisolti, che devono avere il sangue di un gruppo speciale che è raro trovare, che sono da sempre inadeguati, perché si sa, lo è la verità, e poi gli altri, che hanno risolto ogni possibile questione perché partendo dal mentire anche a se stessi,  al finire per credere nelle proprie bugie, riescono ad adeguarsi alle bugie degli altri. In fondo cos’è la verità, quello che si può provare, quello che si può toccare? E se fossero solo proiezioni a milioni e milioni, come le stelle, verità cadute che si incendiano e tu esprimi un desiderio se ti fa stare meglio. Utopie, verità che si possono comprare, verità che devo tacere, verità sepolte sotto il silenzio, la mota, la merda, il tempo. Verità di dolore e gioia pura, verità di paura e speranza, verità di premura, verità di panni da lavare in famiglia, verità di omertà, verità per viltà, verità per fare male ma è per il tuo bene, verità oscene, verità a oltranza sopra le ferite. Di sangue e sale. Le ferite se potessero parlare non potrebbero mentire, ma in pochi le vogliono riaprire. E si boccheggia, si evade, si trovano punti di fughe in prospettive sbagliate, la sera si torna nell’oscena galera ma la chiamiamo casa, e occhi proiettati al soffitto, bordi di pizzo che lasciano scoperte ginocchia nate per le scoperte, sogni scaltri con passaporti falsi. Ed è per questo che ti dico oggi senza meraviglia, ma con ciglia che sono aculei di riccio di mare, poi aghi di pino, poi ciglia di cerbiatto, foglie di rosmarino, poi ciglia dipinte ad arte, sipari neri, come l’inchiostro gettato dal polipo nell’ora di fuggire, lascia stare, il tuo corteggiamento è arrivato in ritardo, è pigro, è stanco, è fuori luogo, ti ha travolto il ricordo, ma è un amore di schiena, a rubarti la scena, non lottare per me perché sono troppo distante, diversa da te, e inoltre non lottare per me, io ho sposato da tempo una lotta onesta che non ti riguarda, che ti tiene testa. Molliche di pane, molliche di fame, molecole di me, e tenti di ricostruirmi, maldestro nei momenti passati e rifiutati, predigeriti e ordinati, e tenti un goffo volo, e non ci credi neppure tu, perciò è con sorriso cinico, è con labbra serrate, è con grandi risate e con sorrisi malinconici, poi con sorrisi ironici che ti dico, lascia stare perché non vale la pena lottare per me, ci vorrebbe troppa curiosità, troppa attenzione, troppa verità e troppa narrazione, ci vorrebbero ideali a scorrerti dentro, ci vorrebbe guerra e malcontento, ci vorrebbe un fiume in piena e poi rabbia e poi vento, ci vorrebbero pipistrelli a dichiararsi a pelo d’acqua a cancellare tutti i dubbi sopra la tua faccia, ci vorrebbero scimmie scaltre con le loro risate a rubarmi tutti i  frutti marci dalle mani della nostra estate, ci vorrebbe una luna oscena, una luna con il volto d’uomo e una donna a cavallo della sua barba  che non gli chiederà perdono, ci vorrebbe ostentazione ed un pizzico di oltraggio, ci vorrebbe la sfida oltre al solito coraggio, ci vorrebbe qualcuno che della convenienza non se ne fa un granché, ci vorrebbe qualcuno che sta dalla mia parte, senza per questo fingere di interessarsi alla mia arte, ci vorrebbe qualcuno che capisse che io e la mia arte di certo abbiamo qualcosa in comune, ma questo non significa che… comprando un mio quadro comprerai me,  ci vorrebbe qualcuno, qualcuno che non c’è, lo dico mentre il viso mi scivola tra le dita delle mani, che cingono i capelli, ed è li che tu rimani, in una disperazione intatta, nella precarietà di un gesto, nel respiro spezzato dal tuo cuore disonesto, come posso essere tua, non sono mai stata mia,  un pensiero che detesto, e quindi te lo dico con polpastrelli pieni di colore, te lo dico con tutte quelle ore passate a dipingere minuti di tempo, di quello che ho dentro, passate a sfiorare ideali che nascono come fiori e si allontanano come voli, te lo dico con le lotte arrestate alla gola, di una giustizia da sempre mano nella mano con il boia. Te lo dico con ossa spezzate nel mio sguardo, te lo dico con il cuore in ritardo sul pianto, te lo dico con la rabbia di un ribelle che ha perso tutto quanto, te lo dico a un passo dalla fucilazione del mondo, e di quello in cui ho creduto e credo fino in fondo, te lo dico con il più sincero saluto, non lottare per me, perché dove sono io non puoi essere te. E scrivi sull’epigrafe della nostra storia, che sono vissuta nel regno intermedio posto tra l’innocenza e la colpa, e quando porterai fiori, onorificenze e odori raccolti nel parco selvatico dei sogni che hai bleffato, ricordati anche di scrivere che:

 

 “…lei si allontanò da me perché le era sempre stato detto, con mille raccomandazioni, di non accettare pensieri dagli sconosciuti, come fossero doni”

 

 E Dio scusa, scusa se non ho capito come eri bella, balbetterai su noi, di una bellezza colma di intenzioni e terra, di quella bellezza potenziale, che ti entra nelle viscere e ti fa male, di quella bellezza reale che non seduce, quella bellezza che non si fa ingannare, che non puoi comprare, che non ti appare, come una viola cresciuta su una ferrovia, di polvere, di vento, di alta velocità, di vita cresciuta dove nessuno si tratterrà, di lato, all’oscuro, in secondo piano, che si può notare non per attenzione, ma nella distrazione, e lì rimane. E da lì quella bellezza a stento ti crescerà dentro, attraverso un concetto di-verso che si perde nel tempo.

 

“Maestro, maestro sai perché ti piacevo da morire?”,

ti rincorrerà inciampando il fantasma maldestro di un amore, nell’incertezza di troppe cose da dire:

         “perché in vetrina non mi puoi trovare”, e tu rimarrai bloccato, lei ti poggerà le mani alla schiena, tu morirai nel sentire i suoi seni respirare. “Lo stesso motivo per farmi maledire e fumo negli occhi che sono già fumo, fumo di sciocchi” E poi mi dispenserai perle di saggezza che sono come guai, e tanto per cambiare tutto quello che mi darai saranno minuti preziosi nei porci comodi tuoi.

 

     Noi.

 

E senti seduzioni che come serpenti scivolano dai tuoi anni che sono tanti, perché noi eravamo assenti, per ungere quelli che pensi essere miei desideri importanti, ma niente, non sono presente, non mi riesco a inchinare, mi fa troppo male e tu rimani così con un respiro e un battito nuovo, per poco, ma prima di andare via per sempre, tornerai sui tuoi passi, per sistemare fiori caduti di lato, per sentirti più umano e leggero, per sfiorare con le labbra un pensiero che è marmo, e lo dovrai ammettere a costo di chinare il capo più giù tra le tue belle spalle, dove le ali non ci sono più.

 

Questo amore è morto per un uomo che ha preferito invece di lottare credere alle proprie balle!

 

E il mio fantasma resterà lì, ferma nell’eterno addio, una che non sono più io, lacera e vestita a festa dell’ultimo ricordo, volutamente sporcata come una figlia ribelle, di more e mirtilli sulle labbra deserte delle tue promesse, lei resterà lì per sempre a ciondolare. Vedendo solo la schiena di chi la poteva amare.

 

Non lottare per lei perché siete sempre stati come il sole e la luna, la morte e la vita, gli ideali e l’indifferenza, non lottare per lei, semplicemente perché, dove è lei non puoi essere te.

 

Capita che l’indifferenza sia affascinata dagli ideali e gli ideali siano attratti dall’indifferenza, che tentino di conquistarsi a vicenda, ma è una storia che non può durare, perché ci sono baratti che non si possono fare.

 

I tempi dell’amore quando sono tempi sbagliati, prima si è innamorati, poi ti lascio io perché ho scoperto che amo più di te, e quando non ti amo più, cominci ad amarmi tu.

 

E in ultimo, noi non accettiamo alcuna morte, alcun addio, noi non comprendiamo che c’è un momento che muore chi amiamo, che comincia con il rifiutare il cibo, l’acqua, che vive l’avvenuto, lento, delicato distacco, che mentre noi gli respiriamo vicino, lui è in equilibrio su un filo e si bilancia sulla distanza, noi insistiamo, quasi lo violentiamo, non siamo al suo posto e non possiamo sentire che a volte è dalla vita che si vuole fuggire.

 

 

E così il tuo amore ora mi tiene il capo sulle ginocchia, mi detergi la fronte, ma io rifiuto cibo e acqua, e sei in ritardo sul mio sguardo aperto altrove.

 

 

E perché corri, perché vuoi che corra? Rallenta, rallenta. Ho bisogno di guardarmi attorno quando attraverso il mondo.