Foto-grafica Eloisa Guidarelli
Dannati
Ai dannati all’unanimità per inadeguatezza costante
alla società.
La mia voce ha tremato, non riuscivo a trattenere il disagio, forse era questo imbarazzo,
nell’angolo del giudizio, sotto minaccia del tuo sguardo. La mia voce mi ha
tradita, cantava la ferita, poi nella gola è entrato un sospiro spezzato,
dovevo prendere aria, prima di dire una parola non mia, sarebbe arrivata la
polizia a chiedermi licenza di parole e lasciapassare. Come mi puoi giudicare,
il tuo pregiudizio mi scorre sulla pelle, come una piuma che abusa di brividi
che non ti avrei mai concesso. Adesso. Cosa me ne faccio dei tuoi occhi spilli,
delle tue intenzioni dirigibili, quando tenti di immergerti nel vento per
cercarmi. Pretendi di afferrarmi, ma non mi avrai mai, ti scivolo tra le dita
da un tempo eterno, ho sguardi di sabbia, di sale, ho sguardi che lasciano
impronte, ho sguardi perle a respirare dentro ostriche segrete, ho sguardi che
trasportano ossigeno nella corrente, ho sguardi nel ventre. Mi avvolge la noia
lasciva con il suo abito aderente di bava, costruisce cattedrali di ragnatele,
e ti ci invita a bere. Ho colpe, le tengo per mano, sono loro a portarmi
lontano, sono come figli usciti male, che si devono amare e sopportare, come
gemelle sciocche vestite a festa, viziate, come scuse preparate, contegno e
ritegno, obbedienza senza spina dorsale. L’ordine fa male. Se parlo loro in
maniera gentile forse riuscirò a non morire. Non c’è niente di più pesante di
una carezza condiscendente, mentre ancora ti stai masticando il mio cuore, hai
pietà di vedermi morire, e le tue ali nere sembrano vere, le tue lacrime di
coccodrillo, scendono salate, goccia a goccia nella mia bocca, credevo di avere
bevuto acqua di mare, invece era la tua diffidenza, centellinata a oltranza,
uno stillicidio curato, dato come medicina, dopo ogni pasto, a stomaco pieno,
tremo. I tuoi gesti, onesti, a coprire colpi bassi, i tuoi gesti, lenti,
rassicuranti, affascinanti come i serpenti, sai colpire di strategia, non si
vedranno i danni alla radiografia.
E ora il mio poema ai dissoluti, quelli che agiscono
d’istinto, se ti hanno ucciso non può essere omicidio premeditato, come invece
il tuo sorriso è stato. Perché tu avevi un piano, perché tu eri costruito,
avevi eleganza da delfino e denti di iena. La tua risata oscena predisponeva al
pasto di quello che di me era rimasto. E io ad apparecchiarti la tavola, con la
tovaglia nuova, mangia di me la parte migliore, lascio a lato del piatto avanzi
di ricordi che digerirei a fatica, brindo a quegli errori che mi hanno guarita.
Duellano i nostri sguardi sopra la trasparenza dei bicchieri, scivola il vino
lento, ha il sapore del tuo umore, e sembra ieri, che mi desideravi, che mi
credevi.
Posare il capo con la febbre su un cuscino freddo,
mentre brividi come formiche scorrono sul tuo corpo caldo, che galleggia sul
tempo, e non sembriamo esistiti affatto, e piano ascoltare il proprio corpo
malato che ti chiede distacco da tutto, giorni risputati in superficie, come
galleggianti, come legni marci che si perdono al largo. E le lotte rimaste come
corde sciolte, sospese sulle banchine, intrise d’acqua di mare, sale, impronte
digitali di marinai e pulci d’acqua. Da riutilizzare, quando serve, quando è
stagione, di ideali, di proteste, di rivoluzioni.
Siamo tutti prede e ci innamoriamo dei nostri
predatori, portano addosso stimoli nuovi e odori, fascino a oltranza, grazia,
eleganza, quelli di noi più scaltri che tentano di mimetizzarsi, quelli tra
noi più veloci che tagliano traguardi in salti, quelli tra noi muniti d’ali che
spiccano voli precoci, quelli che hanno veleno e i tuoi artigli vengono meno.
Quelli tra noi muniti di sogni che provano a fuggire
con la fantasia, sbranati, dilaniati ogni minuto che la vita si porta via.
E poi siamo tutti avvoltoi, attendiamo la morte e la
stanchezza di nemici che abbiamo amato, tenuto un giorno non molto distante per
mano, e poi ci hanno tradito, o forse noi non avevamo capito, stiamo come uno
sbaglio tra un ramo e l’altro ammantati di pazienza, pregustando le interiora
di chi si sta spaccando le labbra nel sole, da minuti che paiono ore, un nostro
assaggio per un suo miraggio, facciamo tutti parte di questa oscena e perfetta
danza, chi attacca, chi arranca. Siamo tutti vittime e predatori. Siamo tutti
da assolvere e condannare, ci rincorriamo in un esilarante girotondo da una
parte all’altra del confessionale, nel ruolo di chi perdona e di chi è da
perdonare. Il nostro giudice peggiore è dentro di noi, lì c’è una guerra
infinita tra secondini ed eroi-carcerati, un penitenziario e una terra
promessa, a gara a candidarsi alla tua consapevolezza. E tu ti barcameni da un
tempo eterno in equilibrio nell’inferno, a un baratro dal paradiso troverai il
tuo sorriso recente, dannato incosciente.
Dissoluti in amore, quelli che seguono strade non segnate,
sterrate, con divieti di accesso, segnali di guidare con prudenza, quelle
strade dal terreno scivoloso e che può franare, quella spinta letale a
continuare, perseverare, anche se fa male, quelli dalla coscienza aliena,
quelli che hanno l’amore come graffi sulla schiena, un sorriso schivo e a
parte, che nascondono sotto la spalla, ed è arte.
Quelli che hanno gettato la convenienza, nientemeno
come ho fatto con il mio reggiseno, con noncuranza di dove potesse finire, se
era una stanza o qualcosa da dire, che non ha trovato spazio e senso, se non
nel momento. Quelli incoerenti, equilibristi coi sogni appesi sui marciapiedi,
quelli che quando scende la notte, sulle palpebre come sul cuore sono botte. E
giocano a scacchi con le paure, prendono tempo per vite future. Quelli che
dentro lo sguardo hanno cenere e fuoco e non basta la maschera
dell’autocontrollo, sguardi di brace nel tuo carnevale, quelli rapaci della
vita, che non importa il passato, quello che è stato è stato, ma adesso è fame,
quelli che scalano gli anni e fanno invecchiare solo i pregiudizi, hanno
polpastrelli di polvere e schegge di roccia, piedi prensili, allenati dalle
montagne e dagli ostacoli, non soffrono di vertigini, perché le hanno dentro da
troppo tempo.
Quelli per cui ogni censura è tentazione, quelli che
anelano solo a sapere cosa c’è dietro il tuo volto, quella zona di irrisolto
dove non sei mai venuto a patti con te stesso. Quelli per cui la vita è adesso
e vestono sguardi tangenti all’immortalità. Questi eroi decadenti,
affascinanti, ingombranti, che corrono ubriachi e obliqui, divorati dalla
passione insana che sembra straripargli dagli occhi, brancarli alla schiena.
Questi seduttori e Casanova da strapazzo che nel loro vicolo di piscio e
androni bui si muovono come in castelli, con passi da padroni su tappeti rossi,
gettati su binari morti, questi bracconieri di desideri sottopelle, che
conquistano eroine estinte, stanando desideri relegati in angoli e sotterranei,
ai quali avevano doverosamente legato le ali, come ad angeli sotto coprifuoco,
fino a quando brividi sono venuti a galla come bolle d’aria e di prospettive proibite ne hanno fatto
un’ouverture musicale, che sale, dalle caviglie alle labbra sponde, dove contro
i denti come bianchi argini sbattono lingue onde a suggerirti basse e alte
maree, quelli che dentro le iridi hanno fondali bassi, acqua gelata e
trasparente per avvolgere passi, ci puoi camminare cauto, setacciando con la
pianta del piede sassi rotondi, evitando ricci e scogli.
Nettuno furibondo verso il mondo, punta lontano con
il suo tridente, l’indifferenza della gente, e nella calma piatta di un
contegno, decide, quella testa calda del Dio dei mari, che con il petrolio non
si fanno affari, e vi scaraventa in tempesta la vita tradita, sprecata, oltraggiata,
disonesta.
Saliva inizialmente timido e poi in crescendo, un
canto di rabbia e vento, grida di banditi, pirati, perseguitati, condannati,
rifugiati, rifiutati, disoccupati e inabili alla società per età.
Ho visto il
cielo e il mare indossare un unico colore, così da non distinguere più l’acqua
dall’aria, l’alto dal basso, la mente dal cuore, ho avuto l’impressione di
camminare nell’abisso del cielo e di nuotare nell’ossigeno puro. Eliche
sottomarine, frutti di mare che filtrano scuse e quello che rimane può solo
pulsare.
Questi dissoluti che vivono tra il bene e il male,
conoscono gallerie e scorciatoie, abili nelle fughe, esperti della guerriglia
dentro la macchia, sanno accerchiare con tattica e istinto da lupi, sentono
messaggi negli odori, e la tua adrenalina alle loro narici arriva sempre prima
che alla tua coscienza, questi pipistrelli della notte, ciechi, ma avvezzi a
volare a pelo d’acqua, come a un millimetro dalla tua faccia, per
dissetarsi, per gioco o solo per
destrezza e spavalderia nel volo. Leccano piano dalla tua mano latte e acqua
zuccherata, dove sei stata, mentre loro accerchiavano lampioni, attirati
dall’idea della luce, che seduce. Li ammiro, ne faccio parte in parte, a volte
devo fare una sosta, scendere dal treno fantasma ad alta velocità, perché il
cuore deve restare a un battito regolare, la felicità se è costante diventa
dilaniante, per questo ci è offerta a piccole dosi, nelle nostre vite regolari,
nelle nostre vite ordinate e a schiera, come le sbarre di una galera. Per
questo come pesci raramente saliamo in superficie per generare con piccole
boccate di ossigeno nuove ferite. Ma se tu dai la mano all’eccesso, alla corsa
sfrenata, al salto nel buio, se tu ti riconosci negli occhi astuti dei
dissoluti della società, nei loro occhi bruciati in anticipo come la loro età,
avrai giornate al limite della sopportazione, fatte di scatti nervosi, di
decisioni prese nel tempo di un’intuizione, di vita strappata a brandelli, di
aria sbranata, di tempo soppresso per sempre alle concessioni, ai giorni
lunghi, vestirai l’impazienza degli eterni respinti, attaccherai con
l’arroganza dei vinti, cavalcherai cavalli bianchi di principi stanchi e
duellerai con mulini a vento per tutto il tempo. Ma vivrai, eccome se vivrai,
le tue opinioni le chiameranno guai. I tuoi occhi ecoscandagli ti riveleranno
profondità inaccessibili ad altri. Avrai meno amici, più nemici, fiato sul
collo, niente radici, sguardi a raggelarti il cuore, ti faranno sentire in
errore, nessuna società ama essere rifiutata. L’esilio dev’essere un loro
consiglio, non la tua necessità. E poi non possono che invidiare chi ha scelto
di osare, e come invidiosi onanisti con pruriti impellenti si masturberanno la
testa con la tua protesta. E tutta la mia vita brucerà una sera come un cerino,
come un film muto girato dal destino, dove azioni e parole si avvolgeranno in
danze di inganno, risate, giornate sospese, affondi, tempo sprecato a
dimenticare stronzi, quando sarebbe bastato volgere il viso da un’altra parte,
farsi desiderare, sedurre dall’arte, convolare a nozze in una chiesa
sconsacrata, solo con la mia risata, scambiare quattro frasi con i dannati, e
accertarti di quello che tu avevi sempre saputo, che un giorno, in un futuro
non troppo distante, su quella cappella, come angeli saranno dipinti i ribelli,
i rifugiati, i perseguitati, i rifiutati dalla società apparente che non parla
non vede e non sente.
Niente.
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