sabato 7 maggio 2016

Dannati

Foto-grafica Eloisa Guidarelli






Dannati
 
Ai dannati all’unanimità per  inadeguatezza costante alla società.
 
La mia voce ha tremato,  non riuscivo a trattenere il disagio, forse era questo imbarazzo, nell’angolo del giudizio, sotto minaccia del tuo sguardo. La mia voce mi ha tradita, cantava la ferita, poi nella gola è entrato un sospiro spezzato, dovevo prendere aria, prima di dire una parola non mia, sarebbe arrivata la polizia a chiedermi licenza di parole e lasciapassare. Come mi puoi giudicare, il tuo pregiudizio mi scorre sulla pelle, come una piuma che abusa di brividi che non ti avrei mai concesso. Adesso. Cosa me ne faccio dei tuoi occhi spilli, delle tue intenzioni dirigibili, quando tenti di immergerti nel vento per cercarmi. Pretendi di afferrarmi, ma non mi avrai mai, ti scivolo tra le dita da un tempo eterno, ho sguardi di sabbia, di sale, ho sguardi che lasciano impronte, ho sguardi perle a respirare dentro ostriche segrete, ho sguardi che trasportano ossigeno nella corrente, ho sguardi nel ventre. Mi avvolge la noia lasciva con il suo abito aderente di bava, costruisce cattedrali di ragnatele, e ti ci invita a bere. Ho colpe, le tengo per mano, sono loro a portarmi lontano, sono come figli usciti male, che si devono amare e sopportare, come gemelle sciocche vestite a festa, viziate, come scuse preparate, contegno e ritegno, obbedienza senza spina dorsale. L’ordine fa male. Se parlo loro in maniera gentile forse riuscirò a non morire. Non c’è niente di più pesante di una carezza condiscendente, mentre ancora ti stai masticando il mio cuore, hai pietà di vedermi morire, e le tue ali nere sembrano vere, le tue lacrime di coccodrillo, scendono salate, goccia a goccia nella mia bocca, credevo di avere bevuto acqua di mare, invece era la tua diffidenza, centellinata a oltranza, uno stillicidio curato, dato come medicina, dopo ogni pasto, a stomaco pieno, tremo. I tuoi gesti, onesti, a coprire colpi bassi, i tuoi gesti, lenti, rassicuranti, affascinanti come i serpenti, sai colpire di strategia, non si vedranno i danni alla radiografia.
E ora il mio poema ai dissoluti, quelli che agiscono d’istinto, se ti hanno ucciso non può essere omicidio premeditato, come invece il tuo sorriso è stato. Perché tu avevi un piano, perché tu eri costruito, avevi eleganza da delfino e denti di iena. La tua risata oscena predisponeva al pasto di quello che di me era rimasto. E io ad apparecchiarti la tavola, con la tovaglia nuova, mangia di me la parte migliore, lascio a lato del piatto avanzi di ricordi che digerirei a fatica, brindo a quegli errori che mi hanno guarita. Duellano i nostri sguardi sopra la trasparenza dei bicchieri, scivola il vino lento, ha il sapore del tuo umore, e sembra ieri, che mi desideravi, che mi credevi.
 
Posare il capo con la febbre su un cuscino freddo, mentre brividi come formiche scorrono sul tuo corpo caldo, che galleggia sul tempo, e non sembriamo esistiti affatto, e piano ascoltare il proprio corpo malato che ti chiede distacco da tutto, giorni risputati in superficie, come galleggianti, come legni marci che si perdono al largo. E le lotte rimaste come corde sciolte, sospese sulle banchine, intrise d’acqua di mare, sale, impronte digitali di marinai e pulci d’acqua. Da riutilizzare, quando serve, quando è stagione, di ideali, di proteste, di rivoluzioni.
 
 
Siamo tutti prede e ci innamoriamo dei nostri predatori, portano addosso stimoli nuovi e odori, fascino a oltranza, grazia, eleganza, quelli di noi più scaltri che tentano di mimetizzarsi, quelli tra noi più veloci che tagliano traguardi in salti, quelli tra noi muniti d’ali che spiccano voli precoci, quelli che hanno veleno e i tuoi artigli vengono meno.
 
Quelli tra noi muniti di sogni che provano a fuggire con la fantasia, sbranati, dilaniati ogni minuto che la vita si porta via.
 
E poi siamo tutti avvoltoi, attendiamo la morte e la stanchezza di nemici che abbiamo amato, tenuto un giorno non molto distante per mano, e poi ci hanno tradito, o forse noi non avevamo capito, stiamo come uno sbaglio tra un ramo e l’altro ammantati di pazienza, pregustando le interiora di chi si sta spaccando le labbra nel sole, da minuti che paiono ore, un nostro assaggio per un suo miraggio, facciamo tutti parte di questa oscena e perfetta danza, chi attacca, chi arranca. Siamo tutti vittime e predatori. Siamo tutti da assolvere e condannare, ci rincorriamo in un esilarante girotondo da una parte all’altra del confessionale, nel ruolo di chi perdona e di chi è da perdonare. Il nostro giudice peggiore è dentro di noi, lì c’è una guerra infinita tra secondini ed eroi-carcerati, un penitenziario e una terra promessa, a gara a candidarsi alla tua consapevolezza. E tu ti barcameni da un tempo eterno in equilibrio nell’inferno, a un baratro dal paradiso troverai il tuo sorriso recente, dannato incosciente.
 
Dissoluti in amore, quelli che seguono strade non segnate, sterrate, con divieti di accesso, segnali di guidare con prudenza, quelle strade dal terreno scivoloso e che può franare, quella spinta letale a continuare, perseverare, anche se fa male, quelli dalla coscienza aliena, quelli che hanno l’amore come graffi sulla schiena, un sorriso schivo e a parte, che nascondono sotto la spalla, ed è arte.
 
Quelli che hanno gettato la convenienza, nientemeno come ho fatto con il mio reggiseno, con noncuranza di dove potesse finire, se era una stanza o qualcosa da dire, che non ha trovato spazio e senso, se non nel momento. Quelli incoerenti, equilibristi coi sogni appesi sui marciapiedi, quelli che quando scende la notte, sulle palpebre come sul cuore sono botte. E giocano a scacchi con le paure, prendono tempo per vite future. Quelli che dentro lo sguardo hanno cenere e fuoco e non basta la maschera dell’autocontrollo, sguardi di brace nel tuo carnevale, quelli rapaci della vita, che non importa il passato, quello che è stato è stato, ma adesso è fame, quelli che scalano gli anni e fanno invecchiare solo i pregiudizi, hanno polpastrelli di polvere e schegge di roccia, piedi prensili, allenati dalle montagne e dagli ostacoli, non soffrono di vertigini, perché le hanno dentro da troppo tempo.
 
Quelli per cui ogni censura è tentazione, quelli che anelano solo a sapere cosa c’è dietro il tuo volto, quella zona di irrisolto dove non sei mai venuto a patti con te stesso. Quelli per cui la vita è adesso e vestono sguardi tangenti all’immortalità. Questi eroi decadenti, affascinanti, ingombranti, che corrono ubriachi e obliqui, divorati dalla passione insana che sembra straripargli dagli occhi, brancarli alla schiena. Questi seduttori e Casanova da strapazzo che nel loro vicolo di piscio e androni bui si muovono come in castelli, con passi da padroni su tappeti rossi, gettati su binari morti, questi bracconieri di desideri sottopelle, che conquistano eroine estinte, stanando desideri relegati in angoli e sotterranei, ai quali avevano doverosamente legato le ali, come ad angeli sotto coprifuoco, fino a quando brividi sono venuti a galla come bolle d’aria  e di prospettive proibite ne hanno fatto un’ouverture musicale, che sale, dalle caviglie alle labbra sponde, dove contro i denti come bianchi argini sbattono lingue onde a suggerirti basse e alte maree, quelli che dentro le iridi hanno fondali bassi, acqua gelata e trasparente per avvolgere passi, ci puoi camminare cauto, setacciando con la pianta del piede sassi rotondi, evitando ricci e scogli.
 
Nettuno furibondo verso il mondo, punta lontano con il suo tridente, l’indifferenza della gente, e nella calma piatta di un contegno, decide, quella testa calda del Dio dei mari, che con il petrolio non si fanno affari, e vi scaraventa in tempesta la vita tradita, sprecata, oltraggiata, disonesta. 
 
Saliva inizialmente timido e poi in crescendo, un canto di rabbia e vento, grida di banditi, pirati, perseguitati, condannati, rifugiati, rifiutati, disoccupati e inabili alla società per età.
 
 Ho visto il cielo e il mare indossare un unico colore, così da non distinguere più l’acqua dall’aria, l’alto dal basso, la mente dal cuore, ho avuto l’impressione di camminare nell’abisso del cielo e di nuotare nell’ossigeno puro. Eliche sottomarine, frutti di mare che filtrano scuse e quello che rimane può solo pulsare.
 
Questi dissoluti che vivono tra il bene e il male, conoscono gallerie e scorciatoie, abili nelle fughe, esperti della guerriglia dentro la macchia, sanno accerchiare con tattica e istinto da lupi, sentono messaggi negli odori, e la tua adrenalina alle loro narici arriva sempre prima che alla tua coscienza, questi pipistrelli della notte, ciechi, ma avvezzi a volare a pelo d’acqua, come a un millimetro dalla tua faccia, per dissetarsi,  per gioco o solo per destrezza e spavalderia nel volo. Leccano piano dalla tua mano latte e acqua zuccherata, dove sei stata, mentre loro accerchiavano lampioni, attirati dall’idea della luce, che seduce. Li ammiro, ne faccio parte in parte, a volte devo fare una sosta, scendere dal treno fantasma ad alta velocità, perché il cuore deve restare a un battito regolare, la felicità se è costante diventa dilaniante, per questo ci è offerta a piccole dosi, nelle nostre vite regolari, nelle nostre vite ordinate e a schiera, come le sbarre di una galera. Per questo come pesci raramente saliamo in superficie per generare con piccole boccate di ossigeno nuove ferite. Ma se tu dai la mano all’eccesso, alla corsa sfrenata, al salto nel buio, se tu ti riconosci negli occhi astuti dei dissoluti della società, nei loro occhi bruciati in anticipo come la loro età, avrai giornate al limite della sopportazione, fatte di scatti nervosi, di decisioni prese nel tempo di un’intuizione, di vita strappata a brandelli, di aria sbranata, di tempo soppresso per sempre alle concessioni, ai giorni lunghi, vestirai l’impazienza degli eterni respinti, attaccherai con l’arroganza dei vinti, cavalcherai cavalli bianchi di principi stanchi e duellerai con mulini a vento per tutto il tempo. Ma vivrai, eccome se vivrai, le tue opinioni le chiameranno guai. I tuoi occhi ecoscandagli ti riveleranno profondità inaccessibili ad altri. Avrai meno amici, più nemici, fiato sul collo, niente radici, sguardi a raggelarti il cuore, ti faranno sentire in errore, nessuna società ama essere rifiutata. L’esilio dev’essere un loro consiglio, non la tua necessità. E poi non possono che invidiare chi ha scelto di osare, e come invidiosi onanisti con pruriti impellenti si masturberanno la testa con la tua protesta. E tutta la mia vita brucerà una sera come un cerino, come un film muto girato dal destino, dove azioni e parole si avvolgeranno in danze di inganno, risate, giornate sospese, affondi, tempo sprecato a dimenticare stronzi, quando sarebbe bastato volgere il viso da un’altra parte, farsi desiderare, sedurre dall’arte, convolare a nozze in una chiesa sconsacrata, solo con la mia risata, scambiare quattro frasi con i dannati, e accertarti di quello che tu avevi sempre saputo, che un giorno, in un futuro non troppo distante, su quella cappella, come angeli saranno dipinti i ribelli, i rifugiati, i perseguitati, i rifiutati dalla società apparente che non parla non vede e non sente.
 
Niente.