Precipitare
Precipitare con assenza di ombra e di gravità,
sostenere un volo che ci obbligherà a inghiottire il cuore e a ritroso,
percorrere un viaggio inconscio e infinito, che parte da dove sono arrivato e
arriva dove sono partito. E’ un pezzo che non scrivo, perché dipingo e vivo. E
mentre si vive, si scrive, si scrive, si scrive… Mi uccide in un colpo solo
della farfalla l’ultimo volo e della sua illusione, ali aperte sul cemento, che
si tratti ancora di vita o sia solo vento, mentre muove leggera e appena di incanto
quelle sue braccia variopinte, per essere sospese, non estinte. E muoio. Nel
movimento impercettibile, mi pare di sentirmi soffiare a scapole prive, di
estremità recise, nel girotondo inoffensivo per il mondo, eppure qualcuno ha
pensato che era oltraggioso e pericoloso il volo, che è male di sicuro farsi
attirare dal profumo dei fiori e dei propri colori. Come un albero decapitato
lascio anelli di tempo dove ho vissuto. La vita sa di resina. Percepisco
l’odore dell’asfalto, perdere quota dall’alto, planare foglia morta, come elica
ho girato nel vento, lancette di orologio che in senso orario, scivolavano
paracadutate, arrestate tra rotaie di
un binario morto, capto con movimenti
regolari di antenne personali ciò che mi circonda, occhi mi osservano sdraiata
con le ali distese e le braccia come esplose, è la stessa cosa essere sotto,
essere sopra? Di anfibi e scarpe
pesanti, di manifestazioni e diritti mancanti, di questa città che come poesia,
tempo fa mi è scivolata via, non ne afferravo il senso completo, mi pareva di
rimanere indietro, l’ho ritrovata tutta d’un colpo, l’ho ritrovata, come un
assalto, ed ero lì per i diritti di un altro, e poi ridevo, che ironia, la
parola diritti non è solo mia, la parola diritti ha lo stesso cordone
ombelicale, la parola diritti sta a galleggiare in un unico sacco amniotico,
con paure gemelle, sorelle lasciate in attesa. E poi a gestirsi un’anticamera
fredda e inospitale, si nasce cominciando a urlare e si deve aspettare, minuti
come coltelli, e voli ciechi di rondini a superficie d’acqua, proiettano ombre
di ali sulla tua faccia, e sono tagli regolari, come orari, stare col fiato
corto privo di passaporto per l’umanità, guardare un tabellone come nell’attesa
di un treno, attendevo un via, una scorciatoia di terra promessa, uno sguardo
che è una cicatrice, perché non so stringere la mano, perché mi pesa dire che
ti amo, che l’amore poi qualcuno te lo porta via, come la dignità la polizia.
Allora è meglio non attardarsi in sentimenti, simulare tutto a piccoli gesti,
ho la protesta dentro agli occhi che si è mangiata ogni spazio, ho questo
incendio privato da gestirmi al momento, l’amore se la sta dando a gambe, prima
che se lo ingoino le fiamme, e tu sei rimasto nei miei polpastrelli, in una
carezza distratta, in una mano che appena ho sentito mia è scivolata via, non
poteva chiedere altro. Stavo in attesa, di essere nata, promossa, accettata,
etichettata, salvata, approvata, archiviata, catalogata e infine risputata come
essere umano da allevamento intensivo, stavo su carri bestiame destinazione
macello senza appello, stavo dove diritti di uomini e animali erano agli ami,
stavo nei corpi irrisolti, privati di identità, resi merce da presunte
autorità. Stavo a prostituirmi il cervello per sedurre dittatori, con la
speranza che morissero delle loro stesse strategie, avvinghiati dai loro
tentacoli senza più controllo, strozzati dalla loro avidità, li avrei
accerchiati con il mio branco, lentamente, tanto che in breve tempo non
avrebbero avuto più scampo, li avrei spogliati dei loro sbagli con occhi
gialli, li avrei ridotti nudi e indifesi obbligati a rendere ciò che si erano
presi, si utilizza ogni arma, per arrivare dall’apnea all’aria. E poi li avrei
sbranati con i miei ideali. Tanto che tu non contavi più. Perché io ero finita
dentro tutto questo da tempo. Tu vedi le impronte digitali, i passaporti, i
visti, “i regolari”, ma non vedi le ali, non vedi le ali dietro tutte le
schiene muoversi nell’aria, il vento gli gioca tra le piume, come negli
spifferi lasciati dalle porte chiuse delle tue scuse. Tu vedi sconosciuti
scivolare negli abissi, non vedi quel mare capovolto a cappella dove sopra le
nostre teste, angeli venuti dal mare ti stanno a guardare, tu vedi le impronte
digitali, il visto i passaporti, esseri umani schiacciati, ma non ne vedi i
sogni, tu vedi occhi stanchi, la fame, la sete, persino la malattia, ma non
vedi quella dignità maestosa che tutto sembra portare via, non vedi come i loro
occhi incendino la vita di energia, tu vedi visti, passaporti, mani che afferrano,
corpi ammassati, non vedi la loro speranza che avanza, tu non hai più la maestà
di quella vista, tu non conosci più la bellezza di quella danza, tu non hai più
l’orizzonte della giusta protesta, tu non hai più lacrime per ingrassare il
mare, e infine tu non hai la disperazione, tu non hai desiderio di rivalsa, tu
non hai una guerra alle spalle, i segni di tortura, ferite che lascia la paura,
aperte, come labbra di fronte alle scoperte. Tu non hai l’orrore dello stupore,
quello che conosce la preda con il cacciatore. Tu vedi loro come unità
infinita, un numero da calcolare, io vedo la pietà di Michelangelo, solo che
arriva dal mare, e non vedi la vita, e non senti la vita, e non hai vita, avrai
vita soltanto e se quando in “loro” vedrai te. Siamo tutti rifugiati. Quando lo
diremo, lo sapremo, in quel momento, cadrà ogni paravento, ogni difesa
diventerà offesa, ogni paura, diventerà premura, il mondo cambierà da adesso.
Da questo momento esatto, da questa rivoluzione dentro la coscienza di ognuno.
Dove da soli non si è nessuno. Lo diceva Guevara, ed è vero perché, se hanno
sparato a lui, hanno sparato anche a me e a te. Dove insieme, soltanto insieme
si potrebbe guardare al futuro. Quel senso che più senso non è di essere “io”
di essere “te”. E poi volavo sopra ogni cosa, perché tutto il mondo scivolava
in gola, ho immaginato un sistema perfetto, dove non esisteva il concetto “di
loro” la pretesa di “noi”, rivalutavo l’etica della bellezza, l’idea di eroi,
mi pareva che persino la lotta contro i mulini a vento avesse un senso, e che
la dittatura che ama la paura e farti sentire ridicolo e fuori posto,
strisciasse via lenta, piano, piano, qualcosa di gelatinoso e inumano. Non è un
fatto di burocrazia è che la vita è soltanto mia. La dittatura si ritraeva di
nascosto, meschina, dopo avere invaso tutto, mangiato senza gusto e senza
appetito ogni spazio libero e pulito, lenito, persuaso, comprato, leccato,
sibilato, plagiato, circuito, digerito ogni protesta onesta, e ingrassato
oscenamente, invaso pienamente e lentamente e inesorabilmente ogni mente, e la
faceva pagare, la sua onda lunga di male, portava via gambe e mani, ideali,
lasciava indifferenza e distrazioni, copriva in superficie, e scivolava tutto nel profondo. Sotto bocche
spalancate, sopra piccole onde regolari, a volte screziate d’oro e di
meravigliosi orizzonti, l’ordine è qualcosa di delicato e costante, è un mare
che non tende a incresparsi, ma a rassicurare, a nascondere, a placare. Si può
morire in una giornata perfetta come dipinta, si può annegare nel mare
turchese, con il sole e l’odore di rosmarino, si può annegare in giornate
meravigliose che sono offese al dolore. Si muore a cavallo di minuti, si era vivi due minuti prima, si è nulla due minuti dopo, rimane un nome
senza un corpo, una storia che non ha volto, sentimenti provati che sembrano
lasciare un odore, che quando lo senti ti pare di morire, perché quella persona
che nel mondo ora non c’è sembra esistita soltanto per te. Per te, un cuore di
legno che mi batte sullo sterno in eterno, in eterno il tuo nome, respira come
un polmone, si allarga nelle arterie, cavalca le vene, mi riempie dai piedi
alla testa di un abisso che resta, dentro. Fa eco il tuo nome come in un
tempio, fa eco nel cielo scoperto tra colonne spezzate, dove qualcuno ha interrotto
le nostre risate. Il tuo nome che passa come aria tra fessure di denti, che
bagna occhi aperti, fa sentire in colpa se ti diverti, sorrisi alati come
cancelli spalancati su pensieri privati, bisogna essere bambini fino al
midollo, con le dita sporche ti terra, la faccia imbrattata di un sogno, per
non farsi portare via dall’angoscia che sovrasta, con lo scettro della
razionalità, di un’arida realtà, che spogliata di noi, senza noi dove va? Puoi vedere in una
visione dal basso in alto i suoi stivali sporchi di fango. Dove vado io senza
di te e perché. Ci sono sogni che fanno male, accarezzavo il tuo bel viso pieno
di sangue, pieno di sangue avevo il sorriso. Mi scivolano le tempie tra i palmi
delle mani, rimani, ti prego rimani, posso solo portarti dentro, nell’amore,
nella rabbia, nel mio malcontento, nel respiro che arranca della tua mancanza.
Posso portarti al collo, rinchiudere il dolore in un monile, avvolgerti in un
rituale, neppure questa magia mi evita il dolore, neppure il tuo nome, scritto
a inchiostro rosso, lavato sulla mia pelle, eppure ti indosso, ti porto con me,
dentro, fuori, a fianco, attraverso, per sempre. Questa è la vita, un ordinario
turchese che sovrasta sangue e ferite e lenisce con l’indifferenza della
sopravvivenza. Per la natura stessa nessuno ha più importanza di un altro, a
suo modo è giusta e perfetta, ma per noi umani che stringiamo legami,
inevitabilmente è ingiusta, come si è permessa di dilaniarci l’anima, di
desiderare proprio te. Non mi ha lasciato fiato per barattare, per implorare,
per inscenare una commedia, per convincerla a lasciarti con me. Come si è
permessa di sbranarmi, e di lasciarmi viva e a pezzi. Ci sentiamo traditi,
parliamo di ingiustizia, di fatale orrore. Eppure come tentiamo di
assomigliarle, quando senza alcuna reticenza facciamo cadere confini come
ghigliottine, separando gli esseri umani, decidendone il loro destino, chi deve
vivere e chi deve morire e mi ricorda un triste e atroce periodo storico non
poi così lontano, anzi direi a portata di mano. Come la natura ma senza il suo
diritto, come un Dio creato al momento e per pretesto, decidiamo della vita di
un altro. Continuiamo ad uccidere in nome di un Dio che cambia nome e
religione, ma che se esistesse non potrebbe cambiare opinione sulla razza umana,
e penserebbe che, umana non è. Penserebbe che è stato uno sbaglio conclamato in
cui si è suicidato. La disciplina calava come saracinesca, su un paesaggio che
dovevi cogliere in fretta per poi non dimenticare, e il coprifuoco rincorreva i
passi, come un onda che si mangia la spiaggia, prima la tua ombra e poi la tua
rabbia. E tutto presto seppellito nell’ordine prestabilito dall’arroganza, è
così che ci hanno donato un silenzio di piombo nel buio totale, quando avevamo
notti fatte di silenzio d’amore, dove si poteva sussurrare, che silenzio non
era perché si sentivano i respiri di chi la notte la poteva sognare,
trattenere, bere e cavalcare. Se ti comporti bene chi detta legge ti proteggerà, insito però in questo ricatto, ci sono
manette a ogni tuo possibile atto che non sia apparecchiato e predisposto da
una magnanima società. Onda su onda, per carità, la barca affonda, la barca và.
Il premio per l’omertà, il premio per adeguarsi, è quell’insano e appropriato
giardino privato che tu puoi accudire indisturbato per la tua breve eternità.
Ogni protezione è anche una prigione. L’umanità non sa più dare… Perché se lo
sapesse fare, non ci potrebbe più rinunciare, diventerebbe coraggiosa, farebbe
paura, potrebbe conquistarsi ogni più bella cosa. Quell’infinito che ha
tradito, se l’umanità imparasse a dare non avrebbe più paura di morire, non
potrebbe più rifiutarsi di ascoltare, di capire. Ma l’umanità non passa di là,
subisce il confine e il confine opprime, ma non opprime solo rifugiati,
migranti, un confine esilia da entrambe le parti, un confine significa che
siamo tutti di altri, un confine significa che qualcuno sta decidendo per te,
chi potrai frequentare e perché. Un confine alza muri al di fuori e dentro i
cuori, un confine alza i muri nelle menti e piano, piano non ti senti. Ti
dimentichi, persino di te. E’ un mondo insonorizzato, curato e ovattato.
Predisposto alla pazzia. Il filo spinato prima di segnare un territorio
privato, ha avvolto il tuo cervello, è nella tua mente, lì per sempre. Dorme
arrotolato come un serpente, l’antidoto temo sia veleno, c’è un portatore sano di schiavitù dove eri tu, c’è
un’accondiscendente indifferenza, acciambellata nella tua assenza. Un confine
anestetizza, e del dolore dell'altro non si muore. Un confine ti evita di sentire
grida e violenze ad altri perpetrate, ma ti impedisce anche di sentire quelle
tue grida da te censurate. Un confine ti abbassa la testa in un “sissignore”,
un confine è bastone e carota, eppure la carota ti ferisce più del bastone,
perché è concessione e umiliazione, è quanto sei costato, è il tuo prezzo, a
quanto hai venduto l’anima, parte il conto da adesso. Fesso. Credi davvero a
questi “Mangiafuoco” della dittatura, alla promessa che nasconde la sottile
fregatura, la postilla scritta stretta, da te non bene letta, come bigotte
donne rinchiuse da neri mantelli, come tanti pipistrelli appesi a testa in giù,
arrivano a giudicare chi sei tu, avvolti in una morale di repressione, odio e
rancore, giudizio e punizione, una spirale che ti trascina, e ti fa dimenticare
cosa esisteva prima, azzera un passato, vive nel reato di un presente, a cui
hanno cancellato ogni memoria, forse una manciata di ribelli presi per i
fondelli, non avrà altra soluzione che memorizzare brani di vita, dove la
cultura è esaurita. Pensare è letale. Credi a questi paesi dei balocchi, dove
hai lasciato figli crescere felici, ignoranti e sconnessi dalla realtà, a
questa eterna giostra ottimista? Sei il primo della lista al quale hanno
stuprato le ali. E li chiamano affari. Noi siamo molti, gli scontenti, gli
irrisolti, ma la dittatura riduce le moltitudini a pochi e i pochi diventano
soli e impotenti, riducono le persone a massificazione e livellamento,
barattano la cultura con pillole di zucchero e divertimento, con qualcosa di non
troppo impegnativo che ti puoi ingollare, che non fa male e non ti farai male.
Ti comprano con ciò di più inumano, il denaro. Ti comprano con ciò di più
crudele, il potere. E’ da un tempo infinito che l’essere umano ama
deresponsabilizzarsi attaccandosi all’amo di un Cristo al posto della famiglia
e poi di un dittatore che ti piglia per mano e ti dice “ora te lo dirò io
quello che è giusto e sbagliato e per le altre cose c’è la redenzione e la
religione”. Meraviglioso tabù… la felicità orientata, uccido a modo mio ma me
l’ha detto lui, me lo concede Dio. La mia colpa scivola via con un’ Ave Maria,
nessun povero coglione che faccia il punto della situazione a quella sposa di
Dio, a quel figlio suo, già allora come ora, una dittatura aveva fatto uso di
tortura. Ma il dittatore che pensa a te, ti comincia a crescere dentro come un
cancro lento, ti sei indotto al suicidio tempo fa, in cambio di assumerti la
responsabilità di azioni e pensieri che potevano essere sbagliati, ma sarebbero
stati veri. Necessari a una crescita personale che hai deciso di azzerare per
la tranquillità, nel momento in cui il senso di giusto e sbagliato lo hai
lasciato a quel giudice che ti lenisse ogni paura, in cambio di una leggera,
apparente lobotomia permanente, che occorre si sa, per fare parte della società
accondiscendente, quella che non parla, non vede e non sente. Quella morta
tempo fa. Morta per procura, perché non voleva provare paura. E invece la paura
non si cancella, anzi si concentra, alla paura ci si deve abituare, la paura si
deve attraversare, va capita, conosciuta, respirata, camminaci a fianco, lei ti
conosce da prima, annusa da tempo la tua adrenalina, non si sfugge a lei perché
è parte di te, se tu fossi uscito da te stesso, e avessi sentito il mondo come
un “tutto” avresti avvertito sulla pelle la magia della paura che scivola via,
un brivido sulla schiena, una carezza che non ti aspetti, una brezza indiscreta
che ti attraversa la camicia passando dal collo o da una manica larga, o come
dita alla vita, la paura ti assaggia meglio quando sei solo, ma il coraggio ti
bracca stretto, ti concede di alzare lo sguardo e vedere altrove, dove è chiaro
che non sei stato. Non te ne saresti dimenticato. Allora la paura può essere un
lutto, che sarai obbligato a superare, perché tu come tutto il resto
continuerai ad adattarti anche a questo.
Qualcuno, che ti respirerà sul collo e ti obbligherà a fare lo stesso,
lui senz’altro come te ha già perso vite a fianco. E il dolore unico non è più
solo dolore dell’altro. Gli stessi occhi carichi di dignità, di ogni età, fermi
in piedi, con i propri ricordi e incubi sospesi, ad attendere risposte che le
ossa hanno conosciuto già, ma siamo tutti là. Vorrei che tu da Narciso perfetto
prendessi uno specchio e vedessi riflesso l’altro come te stesso. E ti
innamorassi perdutamente di tutta quella gente. Che sorride ora sul tuo volto
mosso da piccole onde regolari, tutte uguali.