venerdì 25 dicembre 2015

Appunti di viaggio



 
Il peso del volo - Eloisa Guidarelli



Ci sono persone che anche nell’atto di dare riescono a fare un’autocelebrazione di se stessi, di queste persone mi sono spogliata in fretta. In verità non ho mai avuto corpo, ero sempre e solo un’anima in un cappotto troppo largo. Un volto proiettato al finestrino del treno, in un viaggio a ritroso di tempo sospeso, ma come fai a parlare di razza, non senti questo vuoto che ti rimbalza in faccia, quando dici cazzate controvento, senza senso. E bocche stravolte come maschere sciolte scivolavano ai piedi degli stivali bagnati come di ideali evaporati. Sento che devo deglutire per compensare, quando passo attraverso le gallerie di questo divenire. E pareva ieri, volto rivolto al sole, l’energia che sale dai piedi, palmi affacciati al vento, che strazio questo malcontento, nelle braccia che fendevano l’aria, come ali, con quel buco all’altezza del petto da dove poteva vedersi tutto, tutto quello che non avresti detto. Ti tendevi come un arco, da quell’oblò di marmo al posto del tuo cuore, lo sguardo spaziava altrove e non sembrava più dolore, perché c’era odore di rosmarino, viole selvatiche, dove il sangue si faceva assorbire dalla terra, non si percepiva la guerra. C’erano statue regine tra le rovine, e la tragedia era lì presente ma come opera d’arte, la tua ammirazione era l’unica opinione e andava solo soppesata dal vento, sterilizzata nel sole. Trascurabile come una lucertola, parte della catena alimentare, essere questo non è affatto male, pesa molto di più farsi accettare. A quel punto dinamiche dilanianti sono unghie contro il vetro, un fastidio costante, ma puoi andartene via. Puoi decidere che non solo non te ne frega niente di una promozione, di una posizione, ma sarebbe anzi un grande favore una volta tanto non farsi piacere, godere e farne un fatto d’orgoglio di non essere accolta in un certo cerchio, sai che ti dico, la tua chiusura in me è l’infinito. E mentre tu spifferavi tutto alla polizia condendo ogni bugia con la perversione della tua fantasia, e pensavi a disegnarmi un vestitino di invidia e pettegolezzo, indovinando quello che non avrei mai detto, ne’ forse pensato, qualcosa di immenso mi ha attraversato tra colonne cadute di un tempio che fu, dove tu eri polvere e collera fatta di sabbia del deserto che lambiva a tempo perso dune, il tuo abito leggero si gonfiava lento col vento e scivolava sinuoso come serpe. Ma nessuna tentazione hai portato e nessuno ti ha schiacciato la testa. Era già il concetto di peccato così sbagliato che un Dio giusto sconcertato, ti ha concesso di evaporare altrove con movimento sinusoidale. E quello che mi aveva ferita, tradita, come piuma scendeva tracciando eliche lente, in un oceano che non sente, neppure se appoggi la conchiglia all’orecchio. Però lo potevo guardare l’inquinamento spandersi come olio dai colori metallizzati, traslucidi come madreperla, ennesima sberla a un paradiso che ci siamo giocato più che perduto, e con questo ti saluto. Crepe e erba divoravano il marmo, avvolgevano l’espressione, dando al paesaggio qualcosa di vero, e di superiore. E pareva ieri in una risata di scherno, finiva l’eterno. E pareva ieri dove l’amore aveva un sapore e un odore, per l’infanzia concessa, arresa in un filo di voce, una domanda mai fatta sostata nel solco lacrimale, una piccola oasi di sale che sale, arrestata nel pugno vuoto di un volto bambino fuori luogo, dove una mano di vento spettinava la tua meraviglia, nel salto del tempo, dopo averti preso per i polsi e sollevato le gambe, in una vita distante, tra madre e padre, a dondolare su giochi e ideali, e ti sei osservata mai, come un vicino distratto, mentre con il massimo tatto ti spazzavi i piedi su una malinconia nuova, infilando con disincanto le chiavi alla porta di casa, concedendoti solo un momento di assenza, di corpo senza peso, di serrature e minuti, saluti che hanno una forma, ne percepisco la pressione alla schiena, di quelle dita sento il peso lasciato dalle impronte digitali. Prendetevi anche le mie, vi lascio questa scarsa identità, di solchi di pelle, che dicano qualcosa di certo  e corretto al posto mio, che tanto cosa c’entro con questo, banale macchia d’inchiostro su foglio bianco nient’altro, che lascia soddisfatta la burocrazia, che possa archiviarsi il documento della nausea che mi sale dentro, il calore e la spinta leggera, quella tua mano che osava sfiorare, scapole distanti da cadute ali. Ho seguito l’odore che lascia il mare, e mi sono trovata su spiagge isolate, lasciato che i piedi si allacciassero all’acqua in allegre frustate e che la vita in un minuto mi raccontasse il senso e io a testa bassa ho dato il consenso a dividermi in molecole a diventare il resto, quello che gli occhi colgono, quello che pesto, quello che mi entra nelle narici e mi esce quello che dici. Come acqua fatta di sabbia e avanzi di mare, spinta dall’onda, dentro le gambe lasciate allargate, come condotti, come argini, come porti e scogli, potrei guardare il movimento che si ripete uguale, rassicurante, mentre si appresta lento un senso “eterno”, scavalcarmi piedi e cosce e ritrarsi, osservare la schiuma, la sabbia che si stira, pigramente, capire che ho poggiato le gambe su qualcosa di metafisico, sull’equatore, su un concetto che deve nascere ancora, sull’idea stessa dell’esistenza che si ritrae e si riposa, e cosa sono? Bassa e alta marea. Movimento. Idea. Paesaggio. Passaggio. Momento. Anche qualcosa di infinito, nelle labbra segnate dal sole, sospese come scale, puoi salire e puoi guardare. Rimane un pensiero, galleggia nell’aria come bolla di sapone, l’infinito è qualcosa che sta nell’istante, una presa per il culo abbondante sulla nostra rassicurazione di un “per sempre” che esiste solo quando si sente e in genera dura quasi niente. L’infinito dura quasi niente, l’immortalità è fatta di tante piccole morti e rinascite, atti di respiro, una tachicardia del tempo che abbiamo gestito con metronomi e pallottolieri su qualcosa di astratto e indivisibile come i pensieri. Ci siamo da sempre creati un Terrore, diviso in minuti, scandito in ore, se il tempo non lo avessimo contato mai, non ci saremo ammalati dentro, non avremmo vissuta una vita parallela, dove finire alla deriva, come tante clessidre, che si guardano il ventre con orrore, “oddio tutta la sabbia che ho dentro sta per finire”. E a maledire, interiora e progetti abbozzati, quando c’è una bocca che si spalanca con fauci immense alle nostre spalle, sulla nostra personale danza, batte i denti nel vuoto, e noi a correre via, come cartoni animati dalla fantasia, a gettarsi nel tratto tra due burroni, con coraggio e carica ai neuroni, e poi a cadere come coglioni dopo avere guardato giù. Siamo sempre noi, sei sempre tu. Fino a che questo fosse il modo giusto per morire, non lo sapevo più, non lo riuscivo più a dire. E l’avresti mai detto o anche solo sognato che questo broncio d’adolescente frustrato, avesse un giorno, raccolto il seme che hai seminato e se ne fosse armato. Ah, che sorpresa perché… a forza di essere il tuo contrario, ero proprio te. Ma valli a capire i momenti, i momenti non dovrebbero essere misurati ma sentiti e assorbiti e per questo non vanno contati, quando assaggi un dolce, ne senti il sapore, o conti quanti canditi e nocciole? O in quanto tempo esatto lo finisci? C’è il tempo, è un numero soltanto, è matematica e precisione, è ciò che torna. Affermazione. Rassicurazione. Anticipazione. Sudorazione. Conto alla rovescia. Dannazione. Soluzione. Prigione. E poi c’è come ti percepisci anche in un solo istante ed è un’altra cosa, meno allarmante, meno costante, neppure esattamente previsto, ma guarda adesso ero proprio questo. Ne ho colto il riflesso, è bastato poggiare le dita e mi sono sentita. Catapultata in un ricordo, scivolata al suo interno, digerita e assimilata e sputata disorientata, tra odori che riconosco davvero, sono il mio stesso pensiero. Come una magia però nella realtà. E non capisco più che differenza fa. Ho bisogno di creare distanze immense dalla mia stessa identità, per fare meglio parte del tutto, per cercarmi poi in ogni anfratto, raccogliere pezzo per pezzo e farne una pioggia di coriandoli da indossare gettandomeli sul capo, mi scendono ora in modo perfetto. Mangia di me la parte migliore, io di certo sono gli avanzi nel piatto. Il rifiuto preciso e ordinato a lato, la posata con l’inclinazione giusta, risposta subliminale, puoi portare via tutto. Ce ne potremmo anche andare. Ora. Lascio per sempre tavole imbandite di niente, concetti sotto sale, insicurezze vestite elegantemente come apparenze, lascio, ora e per sempre, un posto che non mi appartiene, che non intendo scaldare, lascio questo impaccio, questo imbarazzo per essere dove non dovrei, per avere tradito me stessa, ho ideali che mi tirano il vestito, scusate ho sbagliato festa, ora è tutto finito. Credevo si potesse bleffare un momento, ma soffoco dentro, credevo di essere strategica, pragmatica, pratica, di gestirmi una dilatata e rarefatta accoglienza di convenienza,  ma la rabbia di me non può fare senza. E in genere capita che rovino le feste. Ho indossato tutto quello che mi hanno detto, in faccia e di spalle, soluzioni, verità e balle, ho scostato un poco le spalle e ho fatto scivolare l’abito elegante ai piedi, mi sono infilata una canottiera, troppo ampia per la mia taglia, troppo corta per farne un vestito, a piedi nudi, ho ballato fino a farmi male, di espressioni trattenute, di domande da non fare, di risposte finite come colpi di ciglia sulle sopracciglia perfette della tua meraviglia, poi ho allungato le braccia e mi ci sono tuffata, le ultime cose che ho sentito dirmi sono finite nel mio colpo di coda, le ultime tue carezze mi sono scivolate come l’acqua sulle guance, quando un sipario apre lentamente le tende, come piccole onde, solo un passaggio di corrente, una rincorsa di brezza e vento, è quello che sento, adesso, di mani, promesse, legami, gesti, passaggi, miraggi, atti. Fino in fondo, ecco l’apnea, non sento più nulla, qualcosa mi culla, inarco la schiena, sfiora il seno la T di fine vasca, il tempo di risalire, di buttare fuori aria, spalancare gli occhi a un cielo di cemento, rimanere braccia a croce, il cuore batte veloce e ho gocce d’acqua sulla pelle tonde e trasparenti come coccinelle scendermi lente, negli occhi, sulle labbra viola, sostituiscono ogni parola e si può concedersi di essere solo respiro e acqua che abbraccia, che evapora, che ti lascia scivolando come bava di lumaca una scia bagnata, come una strada dopo la pioggia, come la neve sciolta, come pozzanghera e  trasparenze. Giudizi sono solo cerchi concentrici e uguali che si dilatano con indifferenza, il gioco di sassi lanciati sull’acqua , gesti mirati a stupire o a scavalcare un momento di silenzio, che riassorbirà tutto questo, l’acqua ricoprirà il foro, come il proiettile non fosse esistito. Forse l’hai immaginato, forse non l’ho proprio sentito. E non si vede ciò che si vede ma ciò che si sente. La tua pelle attraverso una finestra. Cammino in una città senza nome né tempo, in un deserto al contempo, in una folla indiscriminata, sento la calma piatta, e la guerra levitare come un dolce nel forno, e una popolazione appiccicata al timer, ansiosa di quando sarà tutto pronto.  La vita mi passa tutta attraverso c’è qualcosa di diverso, di immenso, per il quale nulla fa troppo male, un concetto di sopravvivenza che si basa sull’ assenza di sé, sul tenersi per mano da lontano, e lascio che una parte di me faccia esperienza daccapo di tutto, non voglio sapere chi sono, appartengo a qualcosa di impercettibile persino a me stessa  e mi attraversa la calma, ho bisogno di osservare, di capire meglio, di mettermi in un angolo e non prendere di petto la vita, o almeno sfruttare meglio il vento. So solo che non mi accontento, che non mi adeguo, che sono l’esterno di quello che vedo, che sono l’ambiente, sono fatta di clorofilla al momento, cerco la luce e l’acqua ho vaghi ricordi di polpastrelli, che mi spostano le foglie, non sono più mie le fughe, osservo predatori, muoversi all’attacco, spostarmi i capelli, urtarmi di lato, scavalcarmi del tutto e di questo mi rimane appiccicata addosso un’adrenalina che non riconosco. Prede si riparano nel folto del bosco, non siamo altro che questo, e questo mi riempie, mi dà orientamento, non cerco di piacere, non mi interessa essere accolta, accettata, sento meglio le piante dei miei piedi quando cammino sola. Il rifiuto non mi offende, l’amore mi può trattenere e questo lo posso temere. Il clima è qualcosa che mi scalda e mi raffredda la pelle, la sopravvivenza è ribelle. Non c’è più posto in questa gara inadeguata, dove non trova spazio il mio sogno, né la mia risata, preferisco sentirmi colma fino in fondo di quegli ideali che della mia casa, della mia esistenza e di ogni mia scusa per esistere fanno il mondo. Un mondo intero e rotondo, una famiglia non di sangue ma di ogni colore, scelta col cuore, una famiglia allargata da continente a continente, che posso raggiungere sempre, senza passaporto e che il razzismo o il confine, o la paura dell’altro divenissero sottili ragnatele che posso spostare delicatamente dalla tua fronte come un capello, che possa dirti “cosa credevi che fosse?” Il confine, mentale, fammelo spostare, fammi vedere, se fa davvero male, lascia che lo possa toccare, come qualcosa che ti è finito negli occhi, te lo cavo, ora forse puoi vedere più chiaro.

Non lo voglio solo immaginare questo mondo, lo voglio fare, lentamente con chi mi sente, accontentandomi di piccole cose, coltivandole come rose, come giardini che schiudono fiori ai cuori più veri e coraggiosi. Si allacciassero radici come mani sotto terra in risposta immensa e dura a ogni guerra, e si innalzassero tronchi pesanti, su cui potere leggere migliaia di anni, fino a sentirci così imbecilli e in questo uguali, a coprire ogni metro, ogni spazio sospeso, di quel cielo di piombo, a cui hanno tolto ossigeno, per un atto di potenza, che non può avere a che fare con nessuna ragione al mondo. E rami come mani arrestassero bombe cadute, impedendo che tocchino terra, che diventino strage e guerra. Che bombe e offese rimanessero sospese, come parole arrestate nelle gole. Fronde e frutti colmi a guardare il cielo, fitti che non filtri un solo pensiero, fitti che l’uomo non può attraversare, ma solo alzare il capo e guardare, e sentirsi piccolo e capire che al mondo la natura governa da un tempo profondo senza avere mai deluso nessuno, con la sua forza e il suo profumo, perché promesse non ne ha mai fatte ma ha accolto tutte le persone che dividi in razze, non ha segnato  terre e confini, non ci ha dotati di passaporti, non siamo usciti così dalle vagine, siamo usciti tutti più o meno piangendo, con un senso di soffocamento, che spesso mi prende ancora, tutti siamo usciti da gambe aperte come scoperte sulla stessa terra, e tutti siamo responsabili di ogni guerra, e che fosse una madre dalla pelle colore della notte o dalla pelle di luna, aveva per noi lo stesso amore e la stessa paura, solo non la stessa fortuna, ecco perché ogni guerra, ogni respingimento del mondo a chi sta andando affondo è una grande bestemmia sulla vita tradita, è una vergogna talmente infinita, che mi sento cadere le ginocchia, mi sento sciogliere le ossa e mi monta una rabbia, un senso di impotenza, una tale incoerenza morire circondati di colore, nelle acque turchesi, negli odori, non arrivare mai in tempo, non arrivare mai in tempo. E non siamo in tempo neppure sulla nostra vita, da tanto l’abbiamo tradita, pensando che ci sarebbe bastato il nostro piccolo giardino curato, privato, non calpestare le aiuole,  non mi basta, non mi è bastato mai, senza di loro non sento di essere noi, c’è una famiglia di sangue e di feste e c’è una famiglia che sceglie il tuo cuore, la mia famiglia è su tutte le rive, negli occhi di tutte le vite respinte, oltraggiate, derise, in corpi fatti a pezzi da pregiudizi e preconcetti, la mia famiglia è sparsa ovunque, e questo è un fatto, coerenza con quello che sento, che mi nasce e mi cresce dentro, devo potere guardarmi allo specchio, quello che sono, quello che ero, e dirmi adesso, solo adesso mi vedo. E questo non è un percorso dove un cuore passa illeso.
 
 
 
Eloisa Guidarelli
Foto Andrea Moretti