lunedì 5 gennaio 2015

Eresia dell'Essere

Foto Eloisa Guidarelli

 
E sognare d’entrare in quel locale fumoso dove di certo staresti seducendo qualcuno, spostare un’ordinazione che non c’entra nulla ora con il poggiare le mie mani a dita aperte come stelle marine sul tavolo, disposte per i tuoi coltelli, solo per dirti “Ti amo”. Sapere che tutto questo, l’atto, lo sguardo, il gesto così fluido nell’immaginazione, dove la reazione sarebbe qualcosa di  ovvio, una stoccata e un affondo, mai avverrà, né potrà avvenire davvero, così senza calcolo, come è il pensiero, in questo modo perfetto, neppure con lo stesso mistero, dalla gabbia ben costruita, nell’alibi di questo mio Medioevo. Per quanto io lo detesti, non è affatto del resto, la prima volta che il mio raziocinio crocifigga l’istinto, avviene sempre, quotidianamente. Io stessa sguinzaglio la polizia anche nella fantasia. Si finirebbe in un sacco di guai se si cominciasse a dire e fare quello che non faresti e non diresti mai. E sarebbe una grande liberazione certamente smentirsi fino alle mutande e trovarsi assenti all’appello di se stessi, senza giustificazione da portare al carceriere di turno, potere fare mancare l’ordine o almeno la sua idea. Accettare di essere più cafoni solo per cortesia. E’ per questo senso soltanto che avevo immaginato tutto quanto, persino la tua sorpresa, farlo solo per vedere la risposta nel tuo sguardo, nient’altro. Varrebbe sempre la pena sorprendere gli altri e sorprendere se stessi ancora, decidere chi essere o chi non essere in una disputa silenziosa e uscirne all’ultimo istante, da incosciente, scartare di lato a una presa, scavalcare un cancello in un balzo, bleffare la propria identità, scivolare, svincolarsi, farsi scorrere addosso sentimenti, deridere l’attesa, la resa, buttarsi a braccia a croce, “tu afferrami la schiena”, adattarla alla scena presente, al fotogramma del tempo. Senza senso. Essere momento per momento quello che sento. Essere fuori e dentro al contempo, avere le idee più belle attaccate alla pelle come un’ostia leggera che ti sfiora le guance, che sì sono fresche, come le pesche e morbide come la seta e rosse per l’imbarazzo o la fatica o il caldo o l’idea del resto di tutto questo, come essere nel posto giusto per sbaglio. Rivedere tutto daccapo cosa sono stato. E come ti saprò amare io, e come ti saprò desiderare io, e come ti farò godere io. E come ti dimenticherò io  amore mio, in un modo tale, nessun altro lo potrà fare. Testa sul cuscino, non dormo, solo per brevi minuti mi sento cadere nel sonno e qualcosa sempre mi alza il capo, occhi sbarrati, non si può sognare se non ci si dimentica, se non ci si lascia andare, boccheggiare, riflettere, rifiutare, dedurre e scartare, ma diciamo che ti amo nella misura in cui ti odio, se in parte non ti odiassi per niente, anche l’amore sarebbe assente, c’è solo un sentimento che esiste da sé, esiste senza alcun contrario, forse senza alcuna ambiguità apparente, l’indifferenza, lì tutto è assente. Niente è più rassicurante del vuoto pieno dell’assenza, e lì tutti ci si muove con incredibile disinvoltura, meccanicamente, come si va quando si attraversa il niente. Omologazione, manipolazione, assuefazione, massificazione, identificazione, privazione. Prigione. Ma la ragione uccide l’emozione, per piangerla poi con cortesia come una cosa non sua, per avere tra le mani il proprio inconscio e sostenerlo piangente come una Pietà dove il marmo ha fermato l’età. Perché l’istinto cos’altro è se non una forma di primitiva verità, dove non c’è tempo per la convenienza, per la strategia o per la vigliaccheria, eppure è quando ci buttiamo che davvero siamo qualcuno e non qualcosa.
 
E a chi mi dirà, tutta questa arte cos’è? E tutta questa arte che si fa che senso ha?
 
Dirò che, io lo faccio perché, non mi viene in mente altro al momento, di più importante e immortale dell’incanto.
 
 A volte le parole migliori che potresti usare, sono battiti d’ali, odori, frazioni di sensazioni. A  volte è un’idea perversa tentare una descrizione di ciò che ti attraversa. Non è importante la tecnica del volo, importa volare. E si finisce testa tra le dita delle mani a sorreggere pesanti pensieri, invadenti giudizi personali, si finisce con la pelle delicata tirata da uncini, e si acutizza il dolore se scuoti tutto il tuo corpo con una risata. Si è presi all’amo da ciò che si deve e ci si dibatte nell’aria, perché è solo quel mare irrazionale che ci fa respirare. In questa realtà mi manca il respiro, ho branchie adatte all’istinto, in questo futuro senza un ideale mi sembra di agonizzare. E lascia stare di esserci amati alla follia, la tua è diversa dalla mia, poi la famiglia è arrivata come arriva la polizia, il giudizio ti ha ammanettato i polsi e il mio istinto non aveva le chiavi. Rimani. La forma delle tue spalle, un sacco di romantiche balle, come una scultura di ghiaccio, sciolte all’improvviso, perché questo hai deciso. Mi hai tolto il desiderio di bere nonostante la sete. C’era un cuore a terra, e noi perquisiti gambe aperte dalla morale. Fa male. Tieni duro. Risparmia i tuoi diritti hanno vinto i pregiudizi. Qualche cinico si diverte. Per la cauzione è tardi, come per un matrimonio riparatore, mi mancano quelle ore per le quali ci avrebbero condannato di certo, mi manca quella totale distrazione, quella assenza di inibizione che faceva di ogni scelta, all’unanimità perversa, una giornata diversa. Perché poi,  in fondo, i diversi eravamo noi. Qualcuno incassa la scommessa e ride. Di sicuro una volta avveniva in un vicolo buio di piscio dimenticato dal mondo e dalle persone perbene, invece oggi le iene sorridono nella pubblica piazza come si conviene, quando la bellezza viene sconfitta dalla minaccia. A me bastava questo del resto, non avevo occhi proiettati in progetti futuri ma avevo sentimenti certi, sicuri. Avrei messo le mani sul fuoco per noi. Adesso mi pesa la tua vigliaccheria, che avevo già saggiato tempo fa, che ho voluto ignorare, dicendomi che era un male che si poteva sopportare, sarebbe andato via, come la fine di una giornata, come l’evolversi di una malattia, dovevo solo portarmelo addosso per un po’ come un mal di denti, come una fitta che ti prende quando cammini, come fosse il tempo di un raffreddore, questione di giorni o di ore, poi potevo dimenticare, come si dimentica sempre di essere stati male. Non poteva che portarmi a una polmonite questo dolore, l’amore colpisce dritto ai polmoni, perché l’amore è aria per tante ragioni, e ciò che la mia mente aveva voluto ignorare, negare, finendo persino per essere ridicola, come lo è chi nega l’evidenza, il mio corpo ha deciso di affermare portandomi di colpo alla realtà, questo amore mi impediva di respirare. Annaspavo ma non lo sapevo. E una lastra è più chiara della psicologia, di essere tua di essere mia, ero lì, che incanto, nero su bianco. Mi manca di essere colpevole di eccesso, mi manca che tu abbia rinunciato presto, mi manca la tua complicità evaporata con l’età, mi manca che quella di allora non ti avrebbe degnato di uno sguardo ora, perché non avrebbe mai accettato quello che sei diventato, quella di allora più fragile di me ora, nonostante la sua ingenuità, non si sarebbe mai ammalata per quello che sei diventato oggi tu. Quella ingenua con pochi anni nelle vene, sapeva amare bene e anche per ammalarsi doveva valerne davvero la pena, per questo comunque non si è mai pentita, non ti ha mai voltato la schiena come ora fai tu, ci vuole coraggio a essere imprudenti, incoscienti, ci vuole determinazione nella fragilità e forza nell’essere trasparenti, c’è eroismo nei perdenti. Ma si vede che si cambia, che si mette una marcia diversa, che ci si atteggia a persone nuove e questo è solo traffico di parole, c’è solo che io e tu non esistiamo più, e questi fantasmi assorti e di circostanza che invadono ora l’una o l’altra stanza, che mi camminano a lato sussurrando com’era stato, sono duri a lasciarti andare, preferiscono annoiarsi di tentativi, dirti che non è squallore ma è lo stesso romanticismo, mettici la ragione pratica se ti manca l’istinto, non ho mai amato con la ragione. Serve l’illusione, il sogno, muoversi nelle nuvole come per strade conosciute, ho camminato intere città inventate per le nostre risate, con il fiato corto di quelle salite infinite dalle quali ci si doveva allenare, per scappare, verso noi stessi, e pensare a baciarsi prima di riprendere fiato, ossigenarsi il cuore, così passare i giorni, i minuti, le ore, con un tempo che non importava contare, con un tempo che era solo da camminare. Poi chiamiamola minestra riscaldata, favola antica, storia sbagliata, acqua tra le dita, non so se era qualcosa di speciale, certo doveva essere così, o forse l’amore è qualcosa di stabilito, un regno proibito, per il quale si passa una volta sola. Mi manca di farci beccare, perché privi di precauzione e morale, la vita non era male. Forse invece c’è un’età per l’attenzione, per le soglie, per spazzarsi i piedi su desideri e voglie. E dopo l’amore che ha travolto tutto come l’autunno dopo l’estate, come il silenzio sulle risate, come mulinelli di voglie, avevo promesse all’orecchio, i tuoi rimorsi volavano via come foglie, se  tu avessi voluto trattenermi un momento, ti avrei risposto non posso tu mi ha fatta diventare vento, travolgo non sento, ho un buco all’altezza del petto, un’implacabile orologio che segna i minuti da quando gli incontri sono diventati saluti di quasi cortesia, di un amore sotto l’acqua, tradito come Narciso dal tuo splendido viso. E dove sei e dove sono, dove siamo nel tempo, e nella pioggia, nelle carezze che sono le stesse ma forse manca la lotta dietro la voglia. E l’amore è rivoluzione, all’amore mancano i se e i ma, l’amore non ha pietà ne’ di me ne’ di te, se ne frega del perché, non deve motivazioni, né cortesia, l’amore è la realizzazione dell’utopia. Che vuoi che sia il tuo tempo, i nostri sorrisi lievi e cauti come fiocchi di neve che scendono lenti sui ricordi a bagnarci gli sguardi, l’amore se ne frega di questa nostra resa, e passa oltre. E io con lui ora, prima la galleria buia, poi una rabbia feroce e adesso che non ho voce sento il viso bagnato dal ghiaccio di questa giornata, sorriderò compiaciuta come una madre distante, disposta ad ascoltare le ennesime tue bugie come fossero mie, mi accarezzerai i capelli con un gesto perfetto che sarebbe tutto quello che occorre davvero per chiudere queste distanze, per diventare lo stesso pensiero, l’addio è un gesto così delicato, fatato e rallentato, dilatato, tiriamo i lembi del cuore e come un lenzuolo matrimoniale lo possiamo piegare, avvicinarci con le mani, domani. Domani. Come se rimandare il tempo, significasse governarlo un momento, pensavo di mettere i sentimenti in agenda, per coerenza e per precisione, per arrivare lì dove stai tu, sull’orlo del precipizio, con questo vantaggio fittizio, la garanzia che non cadrò mai giù. Sono stanca di cercarti l’anima attraverso impronte digitali, di tentare di identificarti il cuore, di leggere la scadenza alle tue parole, per sapere per quanto mi potrò fidare e quando saranno avariate, quando mi faranno male. Ho bisogno di alzare le mani e dire non so che farmene di strategie, sono così legata a queste paure mie, a questa mia fragilità che non si vergogna e non si inchina, a questo mio sbagliare per prima, questo rischiare il giudizio volentieri se significa essere veri. Forse sono stanca di questo palcoscenico, perché non mi divertono più i travestimenti, forse è proprio sentendola tutta la paura senza maschere sul volto, che posso essere in ascolto di quella parte di me che non doveva presentarsi mai, perché sarebbero stati guai, perché si è fuori luogo, perché dannazione sono uscita da una prigione così rassicurante e ho varcato una porta del tempo in mutande e senza scuse al momento. E questa indecenza mi è amica cosa vuoi che ti dica. Ho scritto una breve biografia, come fosse mia, per burocrazia, l’ho riposta in una cartella, in un file, in attesa di una sua funzione, quando mi verrà data l’occasione di mostrare un’identità come da sempre si fa in questa nostra società, che ti permetta di passare i confini, che illuda di potere essere vicini, che spazzi via quell’ignoto presente in ogni mente, che possa passare su guanti di mani rassicuranti, che possa avere un consenso e restituita un momento, il timbro era regolare, come ogni segno particolare, può andare. E tu dove vai, amore di contrabbando, noi non ci conosciamo mai, possono farci identità perfette e rassicuranti, servizi segreti fanno passi da giganti, io ancora credo che sia troppo complicato persino il potermi spiegare perché i capelli sollevati dal vento che ti sfiorano il collo in quel solo momento, possono ucciderti, farti sentire immortale, provare una gioia così feroce da farti piegare, cos’è più reale, cos’è più importante, e poi il vento, il cielo, l’acqua e l’aria e sentirti le gambe, cos’altro c’è di vero e di certo, di reale e irreale, oggi sono felice, oggi sto male. Siamo profumi, odori, ne’ significati, ne’ voci, siamo qualcosa che resta nell’aria a prescindere dalle ore e dal tempo che contiamo dentro. Siamo il passaggio, il vuoto appena lasciato alle spalle, siamo dove eravamo un attimo prima, in quello spazio che resta, siamo l’idea di noi quando diventa odore e tatto, respiro e atto, siamo la nostra distrazione, siamo dove vorremmo andare, siamo qualcosa di irrisolto che quasi mai c’entra con il nostro corpo, siamo qualcosa che dura di meno di ogni cosa che ci circonda eppure siamo qualcosa che rasenta l’essenza, l’idea, un passaggio di grida di uccelli che volano in branco, siamo la primavera e l’inverno, l’estate, l’inferno, il paradiso e il purgatorio, la religione e  il suo rifiuto, l’addio e la riconciliazione, il fiore e la gabbia, cemento e sabbia, acqua e rabbia, preferisco pensare di essere soltanto un odore che in fila per le giuste parole che mi vestiranno a nuovo, nella descrizione esatta di quello che provo e sono, stiamo passo, dopo passo alle nostre stesse spalle, ci stiamo addosso da quando impariamo a camminare, da quando sappiamo giudicare, siamo gli imputati e i giudici di noi stessi, ed è con lucida strafottente coscienza che ci sezioniamo le viscere e il cervello, scartando ciò che è malato, mostrando ciò che è sano e bello, magari la vita è negli scarti del piatto lasciati di te. O forse è nelle tue ossa sottili, adatte al volo, o forse in quello sguardo che sa incrociare quell’attimo solo, esposta a ogni possibile evento, senza pelle, ne’ difese, ne’ tempo. Ma in ogni angolo di poesia, c’è censura e polizia, ogni singolo sorriso qualcosa di superato e sopportato, come una dissolvenza delicata che cala piano su una ferita, in ogni piega di malinconia qualcosa che non lasciamo andare via, in ogni passo dietro l’altro un compromesso, un cattivo pensiero, uno sbaglio, e la vita non si accorcia negli anni, ma si accorcia in ogni perdita di se stessi, in ogni ferita al cuore, così accade quando si vive mentre si muore.