venerdì 25 dicembre 2015

Appunti di viaggio



 
Il peso del volo - Eloisa Guidarelli



Ci sono persone che anche nell’atto di dare riescono a fare un’autocelebrazione di se stessi, di queste persone mi sono spogliata in fretta. In verità non ho mai avuto corpo, ero sempre e solo un’anima in un cappotto troppo largo. Un volto proiettato al finestrino del treno, in un viaggio a ritroso di tempo sospeso, ma come fai a parlare di razza, non senti questo vuoto che ti rimbalza in faccia, quando dici cazzate controvento, senza senso. E bocche stravolte come maschere sciolte scivolavano ai piedi degli stivali bagnati come di ideali evaporati. Sento che devo deglutire per compensare, quando passo attraverso le gallerie di questo divenire. E pareva ieri, volto rivolto al sole, l’energia che sale dai piedi, palmi affacciati al vento, che strazio questo malcontento, nelle braccia che fendevano l’aria, come ali, con quel buco all’altezza del petto da dove poteva vedersi tutto, tutto quello che non avresti detto. Ti tendevi come un arco, da quell’oblò di marmo al posto del tuo cuore, lo sguardo spaziava altrove e non sembrava più dolore, perché c’era odore di rosmarino, viole selvatiche, dove il sangue si faceva assorbire dalla terra, non si percepiva la guerra. C’erano statue regine tra le rovine, e la tragedia era lì presente ma come opera d’arte, la tua ammirazione era l’unica opinione e andava solo soppesata dal vento, sterilizzata nel sole. Trascurabile come una lucertola, parte della catena alimentare, essere questo non è affatto male, pesa molto di più farsi accettare. A quel punto dinamiche dilanianti sono unghie contro il vetro, un fastidio costante, ma puoi andartene via. Puoi decidere che non solo non te ne frega niente di una promozione, di una posizione, ma sarebbe anzi un grande favore una volta tanto non farsi piacere, godere e farne un fatto d’orgoglio di non essere accolta in un certo cerchio, sai che ti dico, la tua chiusura in me è l’infinito. E mentre tu spifferavi tutto alla polizia condendo ogni bugia con la perversione della tua fantasia, e pensavi a disegnarmi un vestitino di invidia e pettegolezzo, indovinando quello che non avrei mai detto, ne’ forse pensato, qualcosa di immenso mi ha attraversato tra colonne cadute di un tempio che fu, dove tu eri polvere e collera fatta di sabbia del deserto che lambiva a tempo perso dune, il tuo abito leggero si gonfiava lento col vento e scivolava sinuoso come serpe. Ma nessuna tentazione hai portato e nessuno ti ha schiacciato la testa. Era già il concetto di peccato così sbagliato che un Dio giusto sconcertato, ti ha concesso di evaporare altrove con movimento sinusoidale. E quello che mi aveva ferita, tradita, come piuma scendeva tracciando eliche lente, in un oceano che non sente, neppure se appoggi la conchiglia all’orecchio. Però lo potevo guardare l’inquinamento spandersi come olio dai colori metallizzati, traslucidi come madreperla, ennesima sberla a un paradiso che ci siamo giocato più che perduto, e con questo ti saluto. Crepe e erba divoravano il marmo, avvolgevano l’espressione, dando al paesaggio qualcosa di vero, e di superiore. E pareva ieri in una risata di scherno, finiva l’eterno. E pareva ieri dove l’amore aveva un sapore e un odore, per l’infanzia concessa, arresa in un filo di voce, una domanda mai fatta sostata nel solco lacrimale, una piccola oasi di sale che sale, arrestata nel pugno vuoto di un volto bambino fuori luogo, dove una mano di vento spettinava la tua meraviglia, nel salto del tempo, dopo averti preso per i polsi e sollevato le gambe, in una vita distante, tra madre e padre, a dondolare su giochi e ideali, e ti sei osservata mai, come un vicino distratto, mentre con il massimo tatto ti spazzavi i piedi su una malinconia nuova, infilando con disincanto le chiavi alla porta di casa, concedendoti solo un momento di assenza, di corpo senza peso, di serrature e minuti, saluti che hanno una forma, ne percepisco la pressione alla schiena, di quelle dita sento il peso lasciato dalle impronte digitali. Prendetevi anche le mie, vi lascio questa scarsa identità, di solchi di pelle, che dicano qualcosa di certo  e corretto al posto mio, che tanto cosa c’entro con questo, banale macchia d’inchiostro su foglio bianco nient’altro, che lascia soddisfatta la burocrazia, che possa archiviarsi il documento della nausea che mi sale dentro, il calore e la spinta leggera, quella tua mano che osava sfiorare, scapole distanti da cadute ali. Ho seguito l’odore che lascia il mare, e mi sono trovata su spiagge isolate, lasciato che i piedi si allacciassero all’acqua in allegre frustate e che la vita in un minuto mi raccontasse il senso e io a testa bassa ho dato il consenso a dividermi in molecole a diventare il resto, quello che gli occhi colgono, quello che pesto, quello che mi entra nelle narici e mi esce quello che dici. Come acqua fatta di sabbia e avanzi di mare, spinta dall’onda, dentro le gambe lasciate allargate, come condotti, come argini, come porti e scogli, potrei guardare il movimento che si ripete uguale, rassicurante, mentre si appresta lento un senso “eterno”, scavalcarmi piedi e cosce e ritrarsi, osservare la schiuma, la sabbia che si stira, pigramente, capire che ho poggiato le gambe su qualcosa di metafisico, sull’equatore, su un concetto che deve nascere ancora, sull’idea stessa dell’esistenza che si ritrae e si riposa, e cosa sono? Bassa e alta marea. Movimento. Idea. Paesaggio. Passaggio. Momento. Anche qualcosa di infinito, nelle labbra segnate dal sole, sospese come scale, puoi salire e puoi guardare. Rimane un pensiero, galleggia nell’aria come bolla di sapone, l’infinito è qualcosa che sta nell’istante, una presa per il culo abbondante sulla nostra rassicurazione di un “per sempre” che esiste solo quando si sente e in genera dura quasi niente. L’infinito dura quasi niente, l’immortalità è fatta di tante piccole morti e rinascite, atti di respiro, una tachicardia del tempo che abbiamo gestito con metronomi e pallottolieri su qualcosa di astratto e indivisibile come i pensieri. Ci siamo da sempre creati un Terrore, diviso in minuti, scandito in ore, se il tempo non lo avessimo contato mai, non ci saremo ammalati dentro, non avremmo vissuta una vita parallela, dove finire alla deriva, come tante clessidre, che si guardano il ventre con orrore, “oddio tutta la sabbia che ho dentro sta per finire”. E a maledire, interiora e progetti abbozzati, quando c’è una bocca che si spalanca con fauci immense alle nostre spalle, sulla nostra personale danza, batte i denti nel vuoto, e noi a correre via, come cartoni animati dalla fantasia, a gettarsi nel tratto tra due burroni, con coraggio e carica ai neuroni, e poi a cadere come coglioni dopo avere guardato giù. Siamo sempre noi, sei sempre tu. Fino a che questo fosse il modo giusto per morire, non lo sapevo più, non lo riuscivo più a dire. E l’avresti mai detto o anche solo sognato che questo broncio d’adolescente frustrato, avesse un giorno, raccolto il seme che hai seminato e se ne fosse armato. Ah, che sorpresa perché… a forza di essere il tuo contrario, ero proprio te. Ma valli a capire i momenti, i momenti non dovrebbero essere misurati ma sentiti e assorbiti e per questo non vanno contati, quando assaggi un dolce, ne senti il sapore, o conti quanti canditi e nocciole? O in quanto tempo esatto lo finisci? C’è il tempo, è un numero soltanto, è matematica e precisione, è ciò che torna. Affermazione. Rassicurazione. Anticipazione. Sudorazione. Conto alla rovescia. Dannazione. Soluzione. Prigione. E poi c’è come ti percepisci anche in un solo istante ed è un’altra cosa, meno allarmante, meno costante, neppure esattamente previsto, ma guarda adesso ero proprio questo. Ne ho colto il riflesso, è bastato poggiare le dita e mi sono sentita. Catapultata in un ricordo, scivolata al suo interno, digerita e assimilata e sputata disorientata, tra odori che riconosco davvero, sono il mio stesso pensiero. Come una magia però nella realtà. E non capisco più che differenza fa. Ho bisogno di creare distanze immense dalla mia stessa identità, per fare meglio parte del tutto, per cercarmi poi in ogni anfratto, raccogliere pezzo per pezzo e farne una pioggia di coriandoli da indossare gettandomeli sul capo, mi scendono ora in modo perfetto. Mangia di me la parte migliore, io di certo sono gli avanzi nel piatto. Il rifiuto preciso e ordinato a lato, la posata con l’inclinazione giusta, risposta subliminale, puoi portare via tutto. Ce ne potremmo anche andare. Ora. Lascio per sempre tavole imbandite di niente, concetti sotto sale, insicurezze vestite elegantemente come apparenze, lascio, ora e per sempre, un posto che non mi appartiene, che non intendo scaldare, lascio questo impaccio, questo imbarazzo per essere dove non dovrei, per avere tradito me stessa, ho ideali che mi tirano il vestito, scusate ho sbagliato festa, ora è tutto finito. Credevo si potesse bleffare un momento, ma soffoco dentro, credevo di essere strategica, pragmatica, pratica, di gestirmi una dilatata e rarefatta accoglienza di convenienza,  ma la rabbia di me non può fare senza. E in genere capita che rovino le feste. Ho indossato tutto quello che mi hanno detto, in faccia e di spalle, soluzioni, verità e balle, ho scostato un poco le spalle e ho fatto scivolare l’abito elegante ai piedi, mi sono infilata una canottiera, troppo ampia per la mia taglia, troppo corta per farne un vestito, a piedi nudi, ho ballato fino a farmi male, di espressioni trattenute, di domande da non fare, di risposte finite come colpi di ciglia sulle sopracciglia perfette della tua meraviglia, poi ho allungato le braccia e mi ci sono tuffata, le ultime cose che ho sentito dirmi sono finite nel mio colpo di coda, le ultime tue carezze mi sono scivolate come l’acqua sulle guance, quando un sipario apre lentamente le tende, come piccole onde, solo un passaggio di corrente, una rincorsa di brezza e vento, è quello che sento, adesso, di mani, promesse, legami, gesti, passaggi, miraggi, atti. Fino in fondo, ecco l’apnea, non sento più nulla, qualcosa mi culla, inarco la schiena, sfiora il seno la T di fine vasca, il tempo di risalire, di buttare fuori aria, spalancare gli occhi a un cielo di cemento, rimanere braccia a croce, il cuore batte veloce e ho gocce d’acqua sulla pelle tonde e trasparenti come coccinelle scendermi lente, negli occhi, sulle labbra viola, sostituiscono ogni parola e si può concedersi di essere solo respiro e acqua che abbraccia, che evapora, che ti lascia scivolando come bava di lumaca una scia bagnata, come una strada dopo la pioggia, come la neve sciolta, come pozzanghera e  trasparenze. Giudizi sono solo cerchi concentrici e uguali che si dilatano con indifferenza, il gioco di sassi lanciati sull’acqua , gesti mirati a stupire o a scavalcare un momento di silenzio, che riassorbirà tutto questo, l’acqua ricoprirà il foro, come il proiettile non fosse esistito. Forse l’hai immaginato, forse non l’ho proprio sentito. E non si vede ciò che si vede ma ciò che si sente. La tua pelle attraverso una finestra. Cammino in una città senza nome né tempo, in un deserto al contempo, in una folla indiscriminata, sento la calma piatta, e la guerra levitare come un dolce nel forno, e una popolazione appiccicata al timer, ansiosa di quando sarà tutto pronto.  La vita mi passa tutta attraverso c’è qualcosa di diverso, di immenso, per il quale nulla fa troppo male, un concetto di sopravvivenza che si basa sull’ assenza di sé, sul tenersi per mano da lontano, e lascio che una parte di me faccia esperienza daccapo di tutto, non voglio sapere chi sono, appartengo a qualcosa di impercettibile persino a me stessa  e mi attraversa la calma, ho bisogno di osservare, di capire meglio, di mettermi in un angolo e non prendere di petto la vita, o almeno sfruttare meglio il vento. So solo che non mi accontento, che non mi adeguo, che sono l’esterno di quello che vedo, che sono l’ambiente, sono fatta di clorofilla al momento, cerco la luce e l’acqua ho vaghi ricordi di polpastrelli, che mi spostano le foglie, non sono più mie le fughe, osservo predatori, muoversi all’attacco, spostarmi i capelli, urtarmi di lato, scavalcarmi del tutto e di questo mi rimane appiccicata addosso un’adrenalina che non riconosco. Prede si riparano nel folto del bosco, non siamo altro che questo, e questo mi riempie, mi dà orientamento, non cerco di piacere, non mi interessa essere accolta, accettata, sento meglio le piante dei miei piedi quando cammino sola. Il rifiuto non mi offende, l’amore mi può trattenere e questo lo posso temere. Il clima è qualcosa che mi scalda e mi raffredda la pelle, la sopravvivenza è ribelle. Non c’è più posto in questa gara inadeguata, dove non trova spazio il mio sogno, né la mia risata, preferisco sentirmi colma fino in fondo di quegli ideali che della mia casa, della mia esistenza e di ogni mia scusa per esistere fanno il mondo. Un mondo intero e rotondo, una famiglia non di sangue ma di ogni colore, scelta col cuore, una famiglia allargata da continente a continente, che posso raggiungere sempre, senza passaporto e che il razzismo o il confine, o la paura dell’altro divenissero sottili ragnatele che posso spostare delicatamente dalla tua fronte come un capello, che possa dirti “cosa credevi che fosse?” Il confine, mentale, fammelo spostare, fammi vedere, se fa davvero male, lascia che lo possa toccare, come qualcosa che ti è finito negli occhi, te lo cavo, ora forse puoi vedere più chiaro.

Non lo voglio solo immaginare questo mondo, lo voglio fare, lentamente con chi mi sente, accontentandomi di piccole cose, coltivandole come rose, come giardini che schiudono fiori ai cuori più veri e coraggiosi. Si allacciassero radici come mani sotto terra in risposta immensa e dura a ogni guerra, e si innalzassero tronchi pesanti, su cui potere leggere migliaia di anni, fino a sentirci così imbecilli e in questo uguali, a coprire ogni metro, ogni spazio sospeso, di quel cielo di piombo, a cui hanno tolto ossigeno, per un atto di potenza, che non può avere a che fare con nessuna ragione al mondo. E rami come mani arrestassero bombe cadute, impedendo che tocchino terra, che diventino strage e guerra. Che bombe e offese rimanessero sospese, come parole arrestate nelle gole. Fronde e frutti colmi a guardare il cielo, fitti che non filtri un solo pensiero, fitti che l’uomo non può attraversare, ma solo alzare il capo e guardare, e sentirsi piccolo e capire che al mondo la natura governa da un tempo profondo senza avere mai deluso nessuno, con la sua forza e il suo profumo, perché promesse non ne ha mai fatte ma ha accolto tutte le persone che dividi in razze, non ha segnato  terre e confini, non ci ha dotati di passaporti, non siamo usciti così dalle vagine, siamo usciti tutti più o meno piangendo, con un senso di soffocamento, che spesso mi prende ancora, tutti siamo usciti da gambe aperte come scoperte sulla stessa terra, e tutti siamo responsabili di ogni guerra, e che fosse una madre dalla pelle colore della notte o dalla pelle di luna, aveva per noi lo stesso amore e la stessa paura, solo non la stessa fortuna, ecco perché ogni guerra, ogni respingimento del mondo a chi sta andando affondo è una grande bestemmia sulla vita tradita, è una vergogna talmente infinita, che mi sento cadere le ginocchia, mi sento sciogliere le ossa e mi monta una rabbia, un senso di impotenza, una tale incoerenza morire circondati di colore, nelle acque turchesi, negli odori, non arrivare mai in tempo, non arrivare mai in tempo. E non siamo in tempo neppure sulla nostra vita, da tanto l’abbiamo tradita, pensando che ci sarebbe bastato il nostro piccolo giardino curato, privato, non calpestare le aiuole,  non mi basta, non mi è bastato mai, senza di loro non sento di essere noi, c’è una famiglia di sangue e di feste e c’è una famiglia che sceglie il tuo cuore, la mia famiglia è su tutte le rive, negli occhi di tutte le vite respinte, oltraggiate, derise, in corpi fatti a pezzi da pregiudizi e preconcetti, la mia famiglia è sparsa ovunque, e questo è un fatto, coerenza con quello che sento, che mi nasce e mi cresce dentro, devo potere guardarmi allo specchio, quello che sono, quello che ero, e dirmi adesso, solo adesso mi vedo. E questo non è un percorso dove un cuore passa illeso.
 
 
 
Eloisa Guidarelli
Foto Andrea Moretti
 


 

domenica 15 novembre 2015

Never Again - Part Eleven

Linda - Foto  Eloisa Guidarelli

Linda - Foto Grafica Eloisa Guidarelli

Linda - Foto Grafica Eloisa Guidarelli


Linda - Foto Grafica Eloisa Guidarelli
 
 
 
Never Again – Part Eleven
 
Il capo del KGB ha una espressione grave e funerea sul volto, entra Melissa, portandosi dietro una scia di sguardi attoniti e sognanti, completamente vacui, che vanno a posarsi leggeri come piume, sulle chiappe sode dell’agente, che incede al solito, spostandole da destra a sinistra, dando il tempo esatto di un metronomo, a segnare melodiose sinfonie lasciate al personale arbitrio e gusto musicale. Con la camicia rigorosamente aperta all’ultimo bottone, trionfo della femminilità, scettro ineludibile di ogni potere decisionale, catalizzatore di attenzione, momento ascensionale di inevitabile miraggio, erompe nel suo andamento levitante, ondulatorio, catalizzante, come eclissi di tonde lune, il prosperoso seno di Melissa, porta come sempre l’assenza di gravità in studio, mentre le mascelle cominciano a cedere, in una improbabile lotta gravitazionale con ciò che di organico si innalza e ciò che di organico si abbassa, si spalancano bocche, come cadute stelle, si esprimono inesprimibili desideri, mani brancicanti afferrano l’aria, falli valutano il decollo, la salivazione aumenta, il battito cardiaco segue, vertigini e una tensione al testosterone, cala un silenzio come sipario, si odono solo i tacchi di Melissa, che in un tempo che pare infinito, e rarefatto, attraversa come cometa l’ufficio, poggia i documenti con garbo, sotto la faccia inebetita del Capo del KGB, ammiccando.
 
Il capo del KGB (Riprendendosi e riassestandosi) Melissa, è lei! Si è decisamente lei, cosa mi ha portato? (sfoglia nervosamente documenti, quando vorrebbe da sempre sfogliare Melissa)
 
Melissa – Qualche indagine su Sergej e Linda, abbiamo ancora poco, ma considerando che di entrambi non si è mai saputo nulla, trovo sia già qualcosa. Non sappiamo ancora dove siano, ma Sergej è particolarmente nervoso, per via della sua immagine sul blog e pensiamo che potrebbe seminare tracce facilmente, contiamo su qualche disattenzione, qualche atto dei suoi, per localizzarlo e di certo sta proteggendo la Gringa, potrei occuparmene personalmente. Vado avanti con il piano?
 
Capo del KGB – Si Melissa, deve essere neutralizzato, prima che lo catturi la CIA. Naturalmente dobbiamo neutralizzare anche lei, la Gringa, cosa ha saputo di personale, dei due.
 
Melissa – Che caldo in questo ufficio, insopportabile, le spiace? Momento di tensione al KGB
 
         Prego, Melissa, e più che cortesia è appunto una preghiera, faccia come fosse a casa sua…
 
Melissa si slaccia il reggiseno da sotto la camicia e lo fa passare attraverso le maniche, in una sorta di gioco di prestigio e di sollevamento bretelline, senza spogliarsi, Melissa libera i seni e un reggiseno rosso carminio finisce gettato sulla scrivania, i capezzoli turgidi dell’agente posti in totale libertà  fanno svenire tre colleghi entrati in quel momento con regolare documentazione.
 
Capo del KGB asciugandosi la fronte imperlata di sudore:
 
-        Basta, cosa sono questi ridicoli svenimenti, siete agenti scelti, cos’è la scuola di Sergej? Abbiamo già un rammollito di cui occuparci, o devo predisporre nell’addestramento estremo delle reclute anche la resistenza al corpo di Melissa! E lei Melissa, non indugi, è già difficile così, spari queste notizie, su quei due, e poi esca senza fare danni per quanto le sia possibile!
 
Melissa – Sergej e Linda non hanno mai lasciato tracce della propria infanzia sembra ne siano privi, e invece pare che Sergej avesse due genitori gay, naturalmente si presume che con una fecondazione e il seme di uno dei due, un utero consenziente….
 
Capo del KGB – Perché sento che non me ne frega niente, agente? Salti la parte tecnica, dunque? Dove sono, si rifugia lì, il nostro agente Sergej?
 
Melissa – No, li ho contattati, e non lo vedono da quando è adolescente, non ne sanno nulla, lo hanno ripudiato, quando a 14 anni a tavola ha confessato di essere etero e di avere una ragazza, non l’hanno presa bene, lo hanno cacciato, lui poi ha frequentato locali per soli etero…
 
Capo del KGB – Ma che dice Melissa? Non esistono locali per soli etero!
 
Melissa – E chi siamo noi per dirlo? Comunque sia non conta, Sergej ne ha sempre sofferto. Si è chiuso in se stesso e in quanto etero non si è mai sentito socialmente accettato, nascondeva le sue fidanzate e queste non la prendevano bene.
 
Capo del KGB – Se i genitori non ne sanno nulla Melissa, non ci importa e non ci serve siamo daccapo! In quanto al fatto che Sergej ne soffra ne dubito, soffre solo per Linda.
 
Melissa – E veniamo all’infanzia di Linda, per farla breve in un paesino sperduto della Francia, non ricordo, ma è tutto segnato lì, guardi, la mappa, ecco…
 
Capo del KGB – Si Melissa non si chini, guardo dopo.
 
Melissa – Si, un orfanotrofio fu fatto saltare in aria, il periodo coincide con l’età di una ipotetica Linda, diciamo poteva avere sui 6 anni all’epoca, un orfanotrofio gestito dalle suore, molto rigido, severo, brutta fama, ecco la piccolina si deliziava a giocare al piccolo chimico, si può presupporre che qualcuno dei suoi esperimenti abbia funzionato, naturalmente non ci sono documenti che attestino nulla, ma si parla di una bambina dispersa, non trovata appunto tra gli altri cadaveri, una falla nel conteggio, un corpo mai trovato, che pure risulta all’appello dei senza nome, la struttura rasa al suolo. Se ci pensa bene si spiegherebbe anche il suo ateismo ossessivo compulsivo!
 
Capo del KGB – Prego? Va bene Melissa, continui a seguire questa pista, in effetti è proverbiale l’abilità di Linda in fatto di esplosivi tra le altre cose.
 
Melissa – Seguirei una pista se ci fosse, ma è tutto esploso, difficile trovare un’orfanella di allora senza passato, né documenti che ne attestino l’esistenza.
 
Capo del KGB – E allora di grazia Melissa perché è venuta a raccontarmi queste inutili cose?
 
Melissa – Pour parler !
 
Detto questo, Melissa gira le spalle e se ne esce lasciando a terra caduti al valore.
 
Cambio scena, Sergej appare a Linda, dall’ascensore direttamente nell’open space, come una tragica visione apocalittica, la sua faccia è puro furore, gli occhi fissi come capocchie di spilli, strabuzzanti domande non formulate, vene del collo tirate, un’immagine che incomberebbe terrore a chiunque, ma non a Linda, che con un gesto indolente, mentre scolpisce l’ennesimo busto di un tizio sotto copertura alla CIA, gli indica la fessa aperta. Sergej incassa, e butta via gli strumenti del lavoro a Linda con gesto fulmineo.
 
Sergej – Come hai potuto Linda!
 
Linda – Scolpisco sempre gli agenti sotto copertura della CIA, poi ci applico una targhetta con scritto CIA e li piazzo in qualche mostra itinerante, è la mia personale battaglia dall’interno, ma perché ti sconvolge? A proposito hai un aspetto di merda!
 
Sergej – Perché hai le labbra viola? Perché hai il rossetto, aspettavi qualcuno?
 
Linda – Non è rossetto, non lo porto mai,  mi tingo le labbra passandoci le dita con marmellata di mirtilli, oppure succhio un ghiacciolo all’amarena.
 
Sergej ha un mancamento, ma la rabbia cocente gli impedisce di svenire, Linda capisce che si sta mettendo male, ma non ne sa il motivo.
 
Sergej, la afferra per un polso – Non sai nulla di un Blog a nome Maquis, che spiattella tutta la nostra vita, privata e non, senza neppure sforzarsi di cambiare i nomi, vuoi proprio suicidarti? Senza contare che in quella spazzatura, è svelata la mia impotenza, i tuoi tradimenti, tutto ciò che di più intimo e personale può legare due persone, noi due Linda, ascolta bene, noi due siamo, eravamo, eravamo, tutto quello che abbiamo e tu l’hai distrutto, l’hai offeso, ridicolizzato!
 
Linda – Lasciami Sergej mi stai facendo male, non so di cosa tu stia parlando.
 
Sergej rallenta la presa, osserva la mano di Linda.
 
SergejSai Linda l’anello di fidanzamento non si tiene nel dito medio, neppure questo ti hanno insegnato.
 
Linda – Io invece penso sia il posto adatto!
 
Linda furiosa apre il portatile cerca il blog, legge avidamente, ci sono anche fotografie. E tutta la loro vita, sono personaggi.
 
Linda – Come puoi accusarmi di avere scritto questo, io non sono una blogger e neppure una scrittrice, sono una spia, anzi sono una scultrice, e quale interesse avrei mai avuto ad anticipare le mie mosse, c’è solo da dire che chiunque l’abbia scritto, sa tutto di noi, anche quello che non è possibile sapere, e ti ha descritto in effetti proprio per il coglione che sei. Un momento, magari l’hai scritto tu, e ti sei descritto come un fesso per depistare, perché qui ci sono solo foto mie e persino di Roger, ma non compare nessuna foto tua? Cos’hai da dire?
 
Sergej – Non sono stato io, non avrei mai infranto la privacy di Roger.
 
Linda – Ah, invece la mia si?
 
Sergej la guarda con sfida e al contempo un momento di tregua.
 
Linda è sporca di creta, ha indosso un pigiama maschile, con l’apertura davanti, una canottiera lisa e bucata che utilizza per scolpire, è imbronciata, triste, sembra perduta, qualcosa si è rotto, la loro convivenza nell’open space è durata meno di un mese, vorrebbe prendere su ogni cosa e andarsene, ma le costa troppa fatica anche muovere un dito, come ogni parte del corpo pesasse tonnellate. Sergej allunga una mano verso la sua spalla, ma Linda lo blocca con lo sguardo.
 
Linda – Non siamo più noi.
 
Sergej si muove verso il terrario per nascondere lacrime, temendo che Roger possa avere ripercussioni psicologiche date dalla separazione che sente imminente, si dice tra sé che Linda potrà magari vederlo nei giorni dispari ma… Un urlo agghiacciante proviene da Sergej, Linda si paralizza, Sergej ha in mano un foglio con lettere ridicolamente incollate. Linda lo raggiunge, guarda la teca vuota, prende il foglio dalla mano paralizzata di Sergej e legge a voce alta.
 
Linda – ABBIAMO ROGER, SE CI TIENI ALLA TUA LUMACA, ATTENDI NOSTRE NOTIZIE SENZA FARE MOSSE FALSE.
 
Sergej – (balbettando) Hanno preso Roger.
 
Linda – Stai calmo! E’ chiaro che vogliono te o me.
 
Sergej – E se me lo mandano a pezzi?
 
Linda – Nessun sequestratore sano di mente sezionerebbe una lumaca, ragioniamo a mente fredda, anzitutto sanno che ci tieni enormemente e questo è stato un grossolano errore da parte tua Sergej, mostrarti ovunque in società con Roger, è ricercato persino lui, fronte, profilo destro e sinistro. E poi attendiamo, ti chiederanno qualcosa in cambio e fino ad allora Roger è sicuro.
 
Sergej riceve una foto al cellulare, è Roger bendato. Passa il cellulare a Linda.
 
Linda – Merda questi sono più sociopatici di te!
 
Sergej riceve squillo, si allontana da Linda, risponde .
 
Sergej – Cosa? Avete firmato la vostra condanna, passatemi Roger, voglio avere prova che sia vivo, voglio dire mandatemi un video in tempo reale. Da. Da . Da. Da. Da. Da. Da. Da. Da. Da.
 
Linda, lo raggiunge dall’altra stanza al centesimo “Da”
 
- Che cazzo è una suoneria?
 
Sergej si arma di tutte le armi possibili, caricatori, bombe a mano, pistole, mitragliette, coltelli, spray al pepe nelle penne da taschino, fialette di veleno made in Russia - annate speciali, ed esce, lo sguardo risoluto, privo di ogni sentimento, una macchina per uccidere, una voce priva di ogni sentimentalismo attraversa il petto di Linda come una freccia “Ti amo Linda”, come un dato di fatto, come una porta chiusa, come un atto, Linda guarda l’anello di fidanzamento al suo dito medio, sussurra : “Lo sapevo”. Sergej si blocca sulla Senna, un dubbio l’attanaglia, gabbiani sembrano ridere di lui, e il vento che gli sferza il volto con violenza come a sbeffeggiarlo dei tradimenti di Linda, su quel blog, come ferite aperte le scappatelle di Linda, Linda ama ma tradisce comunque, Sergej lo sa, Linda sa amare solo così. La chiama, mentre sente tutto il peso dell’artiglieria che ha addosso, gli si avvicina persino un tipo che gli chiede a quanto gli farebbe una penna al peperoncino, e poi intravede le pistole, chiede insistentemente quanto, Sergej è stato preso per un venditore ambulante, estrae una pistola e gli spara, lo scavalca, prosegue, risponde Linda. La voce calda, suadente di Linda.
 
Linda – Che cazzo c’è?
 
Sergej – Non riesco a togliermi dalla mente quello che è scritto su quel blog, accidenti Linda! Dovevi proprio tradirmi con quegli ergastolani, quella feccia, e soprattutto quel tizio privo di ogni fascino, quel dilettante, quella sottospecie di uomo che ti ha corteggiato in studio, Linda, Linda, perché? Devo sapere perché?
 
Linda – Ero ubriaca, Sergej. Ero ubriaca, non capivo, non sapevo, insomma io mi sarei fatta un paracarro in quel momento, era solo sesso, ero ubriaca cazzo!
 
Sergej – Da.
 
Linda – Cosa? Ah, si dice “Sì”! Sergej, o “Oui” siamo a Parigi in fondo o “Yes”, così almeno non mi sbaglio! Sergej, Sergej? Pronto! Niente non sa cosa sia un dialogo!
 
Linda si butta sul letto di faccia braccia a croce e dorme, si addormenta come un sasso. Domani è un altro giorno. E il domani arriva una telefonata al cellulare, dice semplicemente “Il tuo Sergej è morto, Linda sono il tuo capo, il tuo Sergej è morto” Linda balbetta “Non è vero, solo io posso ucciderlo” “Ti dico che è morto Linda, puoi portare il culo qui, e lo vedrai tu stessa” Linda riceve una mail con l’immagine di Sergej come un Cristo del Mantegna, steso immobile, magari meno sacro, ma ugualmente bello, è davvero Sergej? Sembra lui, sembra morto, ma tante cose si possono fare con le fotografie, Linda comincia ad armarsi, è sotto shock, eppure lucida, si mette gli anfibi, con il suo pigiama da uomo con l’apertura davanti, si infila le cuffione in testa, infila un cd nel walkman, un vecchio walkman porta cd, discretamente ingombrante, Linda è una romantica, l’innovazione tecnologica pur semplificandole apparentemente la vita, riesce ad accettarla a poco a poco, e poi è un ricordo. Linda ne ha pochi di ricordi e quei pochi sono sacri. Esce con la pistola, nient’altro, una donna minuta, in pigiama maschile, con una pistola e anfibi, grandi cuffie per la musica, il cuore a pezzi, davanti agli occhi un video le scorre, un video della fine di tutto e dell’inizio di tutto, un giorno di nascita dimenticato e un giorno di lutto non accettato, lacrime vecchie seccate sulla pelle dal giorno prima, lacrime nuove di questa mattina. E ne è passato di tempo, ma sembra un solo momento, Linda irrompe alla CIA, una figura tragica, di casa, l’agente scelto Linda, il loro agente meglio addestrato, il nemico numero uno del KGB, l’unico incontrastato amore di Sergej, si accende il walkman, toglie la sicura della pistola, nelle orecchie la canzone di Manu Chao, ripete con ritmo malinconico “Je ne t’aime plus” , “Je ne t’aime plus mon amour” , ripetitiva, scendono lacrime sul volto di Linda, agenti le vanno incontro, Linda ha lo sguardo di uno squalo, uno sguardo che dice qui non c’è nessuno, qui dentro non c’è più nessuno, e sta solo per aprire le fauci, e sono gli stessi agenti che le portavano il caffè, che le facevano battute succinte, che per un momento rimangono esterrefatti dall’abbigliamento di Linda, e il pelo intravisto, dal pigiama con apertura sul davanti, è l’ultima promessa, l’anticamera di un Paradiso che li sbatterà dritti all’inferno, Linda spara con il silenziatore, spara, spara, avanza, spara “Je ne t’aime plus”, “… Mon amour”, spara, uccide, corpi scendono aderenti ai muri, spalanca porte, punta, mira, uccide “Je ne t’aime plus”, sangue ovunque “mon amour” , spara, uccide, è un automatismo, non le importa nulla, “non ti amo più amore mio”, “Je ne t’aime plus mon amour”, in neppure trenta minuti è decimata la CIA, fino a quando qualcuno colpisce Linda alle spalle, Linda cade a terra priva di vita, nelle orecchie, “Je ne t’aime plus”, come un conto alla rovescia che precede un’anestesia, parole lente volano via, e Linda scivola nel buio. Un altro sparo, il capo della CIA che aveva appena colpito Linda è riverso a terra, mani trascinano via il corpo di Linda. Linda si risveglia in uno sporco magazzino, apre gli occhi, lo sguardo è appannato, vede un volto di donna, una bellissima donna, con due enormi….. Linda perde coscienza. Passano ore, Linda si risveglia, è fasciata nella schiena, dove è stata colpita dal proiettile, medicata, la fasciatura le attraversa il busto, una flebo scende lentamente, le sue armi non ci sono più. Ma c’è quella donna bellissima e formosissima.
 
Linda – Ma dove cazzo sono? E tu chi cazzo sei Jessica Rabbit?
 
Melissa – Melissa, sei al sicuro Linda, per quanto io sia un agente del KGB nonché collega del tuo Sergej, ti ho salvato il culo, estratto una pallottola, era il meno che potevo fare per il bel lavoro che hai fatto alla CIA, se cominciate ad ammazzarvi tra voi, ci semplificate il lavoro, potrei però, ora che ci penso, rimanere disoccupata, scherzo! Ah, la tua pistola, gran bel ferro, è al sicuro, però sai com’è una misura precauzionale non lasciartela in mano al tuo risveglio.
 
Linda – Quindi mi vuoi consegnare a loro, giusto, al KGB!? Allora falla finita, finiamola qui!
 
Melissa – Linda, anche se ti restituissi alla CIA sarebbe la stessa cosa, tutti morti, il tuo capo l’ho solo ferito, non ci metterà molto a rimpiazzare altri agenti, e no… non mi sono fatta questo mazzo per condurti al KGB, ma questa è una faccenda personale, mi interessi libera, diciamo così.
 
Linda – Non mi importa nulla della libertà, sparami!
 
Melissa – Allora hai un cuore anche tu? Reagisci così perché pensi che Sergej sia morto, vero? Seguimi.
 
Linda reggendosi malamente in piedi, strisciando con il treppiedi della Flebo, segue Melissa in una stanza adiacente, riverso a terra, vicino a uno stoccaggio di prodotti farmaceutici, apparentemente privo di vita, giace Sergej.
 
Linda – E’ morto?
 
Melissa – No, è in overdose da fermenti lattici!
 
Linda – Cosa?
 
Melissa – Prima che si facesse catturare dalla CIA, l’ho catturato io, l’ho rinchiuso qui dentro, deve essersi fatto quello che ha trovato, è uno stoccaggio di fermenti lattici, ha tentato un suicidio, ma con i prodotti sbagliati, ti credeva morta. Ho cominciato a  mettermi in moto quando il mio capo al KGB ha dato il via al vostro piano di eliminazione, il fatto che vi avessero accordato un mese, era solo per non farvi fuggire, non avevate più tempo, e le due superpotenze volevano entrambe la stessa cosa, la vostra eliminazione, eravate topi in trappola, hanno tentato di depistare anche me, facendomi credere di non avervi del tutto localizzati, sapevano tutto, forse hanno persino collaborato tra loro, forse no, poi mi hanno recapitato la lumaca, il KGB, ha operato per il sequestro di Roger, nella vostra casa a Parigi, avevate microspie di ogni sorta, attraverso Roger, Il KGB sapeva di ottenere Sergej e te di conseguenza, ah , la triste decisione di suicidarsi a fermenti lattici, è fermentata nella mente di Sergej, in quanto aveva ricevuto dal KGB l’ultimatum, ovvero la restituzione di Roger vivo in cambio di te, Sergej, come tutti gli uomini ha difficoltà nelle scelte importanti, e quindi, ha temporeggiato, poi gli sono giunte le immagini tue, riverse a terra, gliele ho inviate io mentre ti trascinavo via, perché si desse una mossa, e si tranquillizzasse, il fatto che tu fossi in mano mia, e morta, non solo non l’ha tranquillizzato, ma si è reputato colpevole della sua indecisione tra Roger e te. Deve persino avere pensato che ti avessi uccisa io, agente del KGB e rivale in amore. Ora ha solo bisogno di un bagno vicino e si riprenderà.
 
Linda è attonita, delusa, Sergej era indeciso tra la vita di lei e Roger, quindi non c’era differenza tra lei e Roger, era difficile da mandare giù, ma Sergej era vivo, poteva lasciarlo, andarsene, fuggire davvero, ora certo non era più un agente della CIA. Linda era l’unica donna infedele che non si doveva preoccupare di dividere il suo uomo con una donna, rivale almeno contrastabile, competizione sensata, ma con una lumaca, e non c’era competizione con una lumaca, perché Roger era Roger, una differenza di genere.
 
Melissa – Linda, a che pensi? Non capisci? Per il KGB Sergej è morto, l’ho ucciso io, la storia dei fermenti non la riferisco, domani lo sposto, metto un cadavere di un altro tizio, non ci mancano, e do fuoco a questo posto. Sergej è libero, per la CIA tu sei stata trascinata via dopo un colpo di pistola, le telecamere, le poche in funzione avranno visionato, io ero irriconoscibile, avranno il sospetto che tu possa anche essere morta, potreste essere liberi, se saprete giocarvi le vostre carte al meglio, ma nel dubbio ancora vi sono addosso, fino a quando non proverò la morte di Sergej  e se desideri ti aiuterò a inscenare la tua. Devi risultare ferita a morte.
 
Linda – Roger?
 
Melissa – Sta strisciando su Sergej, la Pet Therapy lo sta ristabilendo in fretta.
 
Linda – Perché dovremmo fidarci di te, sei del KGB.
 
Melissa – Perché sono una donna libera, e perché come ti ho detto amo decidere io i finali.
 
Sulla faccia di Linda si disegna il sospetto. Melissa risponde ammiccando, vi lascio soli.
 
Linda – Lo ami?
 
Melissa – Lo amiamo entrambe, ma lui ama te, solo te, e io ne sono sempre stata attratta, era l’unico al KGB a non subire il mio fascino, è una cosa che fa sempre innamorare una donna bella, il rifiuto. Ma lui ti preferisce, anche se non capisco il perché.
 
Linda rimane sola, Sergej apre gli occhi avvertendo un sinistro brontolio al bassoventre, vede Linda, la bacia, corre in bagno, ritorna, un poco pallido, anche Roger sembra un poco pallido.
 
Sergej – Linda io…
 
Linda gli tappa la bocca con un bacio, scivolano sotto la porta documenti falsi. I due li raccolgono.
 
Linda – So chi ha scritto il blog
 
Sergej – Chi?
 
Linda – Glielo ho concesso.  Ha l’esclusiva.
 
Sergej – Perché?
 
Linda – Perché le dobbiamo la vita.
 
 
Sul blog l’immagine di Roger che lascia una scia di bava a forma di lettere dalla quale si legge:
 
Perhaps,
 
To be continued…