Nella foto Eloisa Guidarelli - 13 anni
Un anno di più
Una coccinella sulle labbra e le ho immobilizzate
per non farle male, ho finito di leggere un libro e la mia pelle ha il sapore
di sole e crema, un afrodisiaco per me stessa, siamo odori, tornando a casa
pensavo di scrivere, di noi, e pensavo a come censurare il tuo nome, a come
evitare parole, verità, come simulare, come dire di tutto senza citare niente,
forse non è una buona idea mettersi qui e scrivere, forse era meglio dipingere,
forse era meglio rimanere sotto il sole, isolata su una panchina e stare
immobili come un filo d’erba, un albero, e lasciare che una coccinella si
appoggi per sbaglio, la libertà di essere vento senza per una volta diventare
quello che sento. Dall’adolescenza a ora, a essere una donna matura? E’ stato
un balzo in avanti, scaricare fendenti sul passato e i parenti, non per un
fatto che avesse chissà quale significato in sé, solo non c’entravo niente con
l’altra parte di me, quella che avrebbe formato il mio io più profondo, quella
che d’ora in avanti si sarebbe fatta spazio nel mondo. E’ da un tempo infinito
che pago per quello che penso e che dico, ma non mi tradisco, a volte striscio,
ferisco, mi butto di lato, la festa di turno non ha nulla da dirmi, vorrei
andarmene via senza disturbare, senza neppure lasciare un pensiero sul fatto
che potevo ma non c’ero. E tu mi odiavi perché avevo un anno di più, che quando
si hanno i tuoi dodici anni sono come cento anni, e l’altra cosa che non ti
andava giù era che io avevo i capelli biondi, ed era per questo e per quell’anno
di vantaggio sulla vita che i ragazzini mi guardavano per prima. “Bionda” che
alla parola bionda ci si girava in coppia, poi ci si guardava, ci si rideva in
faccia, e la parola “Bionda” era già una parolaccia, un qualcosa che ci faceva
intrecciare le dita, voltare le spalle, urlarci “che palle!”. Era quell’età
avvolta dal mistero, dove è tutto bianco o tutto nero, quando ci si guarda allo
specchio, quando cazzo cresce questo seno maledetto, dove ci si chiama per
telefono, poi ci si trova all’angolo di un giardino, per parlarsi fitto
nell’orecchio, è accaduto un fatto importantissimo, di rilevanza universale, mi
è cresciuto un pelo proprio lì, e io pensavo che era strano, strano perché tu
eri più piccola, e crescevi prima di me. E c’erano uomini e sguardi lascivi e
una discoteca il pomeriggio e gesti ambigui in corpi adolescenti, sogni grossi
senza avere i denti per affondarci la vita, musica e ore nascoste al sole, si
tira una tenda sull’universo, si crea il buio per un gioco diverso, come una
notte simulata apposta, ti va di crescere in fretta? Fingiamoci donne vere, ma come saranno quelle sere? Quando per
osare non occorrerà fare il buio per finta. E poi ti sei fidanzata prima tu, e
io ridevo per te, preoccupata solo dal fatto che, era strano perché, avevi un
anno di meno ma crescevi prima di me. Eppure sentivo di proteggerti io, a modo
mio, fiera di quell’anno di differenza che manteneva la nostra distanza, e poi
come accade a quell’età mi sono fidanzata per pura curiosità e intanto gli anni
erano quindici e lo avevo fatto per uscire con te, un ragazzo come un
accessorio di scorta e intanto ci saremmo viste in quattro ogni volta, e poi a
chiederci: - Com’è stato, lui dove ti ha toccato, lo hai già baciato? - Si,
e mi ha fatto schifo, non so cosa ci sia di così magico! Non mi piace il suo
odore, non mi dice nulla la sua faccia, non mi importano i suoi occhi blu, sto
solo dove sei tu. E se vuoi la
mia opinione il tuo fidanzato è un coglione, ma se sei felice così. - L’ho pensato di certo e di certo non te
l’ho mai detto. Vuoi mettere i pomeriggi chiuse in una cameretta che era un
budello, dove se ci doveva essere il letto non ci poteva essere il pavimento, a
provare la matita negli occhi, a giocare con i rossetti, a scambiarsi i
vestiti, i sogni, la pelle, non serviva nient’altro per essere belle. Il
mascara che allungava le ciglia sulla meraviglia, vestiti che si riducevano di
dimensione, il corpo in esposizione, dove sguardi restavano attaccati come le
nostre lingue ai gelati, e stare guancia a guancia in uno specchio ridotto,
dove due volti non trovano spazio, vedere incorniciati due sguardi indecisi,
che si studiavano a vicenda, com’era questa faccenda della seduzione, quanto
rosso, quanto verde, tu ti metti il marrone? Io mi giocavo la carta di figlia emancipata
con genitori separati e tu figlia di un matrimonio ordinario, approvato da Dio
e dalla religione, la carta della convenzione, ma il punto ora era soltanto
come venire a capo di noi, come infilarci la vita dentro il maglione e farne
indigestione, tu camminavi dentro le righe, avevi binari e direzioni esatte, io
tutte le scuse valide per strade sconnesse, e traiettorie senza capo né coda, e noi a ridere di cosa? E’ un’età che
non concepisce la disciplina, ma è un’età che impara velocemente la strategia,
perché è l’età per fuggire via, è l’età di una curiosità crescente, di bugie a
fin di bene, il nostro, comunque e per sempre. E’ l’età dell’immortalità,
dell’incontrarci ad ogni costo, dove si finisce per ammirare l’esempio
peggiore, forse in onore del dissacrare che in quei pochi anni è solo un
disperato affermare tutto il contrario di ciò che si dovrebbe fare, la chiamano
maleducazione, la chiamano adolescenza, ma era la strada più breve per testare
l’indipendenza, e l’adrenalina è l’orgasmo che si conosce prima, facciamo in
modo che non ci scoprano mai, senza sapere che alla fine non si faceva un
granché di diverso, che non era poi così perverso, e che altri avevano già
vissuto la nostra banale età, e noi a volteggiare cugine per sempre, un fatto di
sangue, si interrogava la coscienza con la curiosità più profonda, si scopriva
la vita insieme a Bologna. E non capivo quando ti sgridavano così severamente
perché ti cadeva una forchetta sul pavimento, mentre a me era riservato un
altro trattamento, in quanto ospite e nipote, ci avrebbero pensato poi i miei
genitori alla mia educazione, semmai, nel frattempo tu stavi nei guai, intanto
però era come lo facessero a me, e forse lì era implicita la mia punizione, nel
seguire la scena senza potere intervenire, come un film che non ami vedere, e
lì era la mia punizione, in questa mutilazione, nell’essere testimone, volevo
abbassare la tensione, volevo creare qualsiasi distrazione, forse sì, ti avrei
portato via di lì, ma non potevo, ero bloccata, ero compressa e il mio anno di
vantaggio non contava niente, crescere doveva essere una fregatura se poi ti
lasciava impotente. Non potevano avere ragione sulla tua umiliazione. Chi è
umiliato è sempre innocente e questa educazione così rigida che ti si
impartiva, non ti avrebbe insegnato meglio la vita, non ti avrebbe fatto
sbagliare, quasi mai, tanto che ti avrei volentieri regalato un po’ di sbagli
miei, con i quali avresti potuto sfogarti un po’. Questa odiosa punizione che
sono certa era resa peggiore dalla mia presenza, forse la esasperavano
l’esempio, la coerenza. Insomma mi sentivo quasi la causa innescata, vedete vi
impartiamo la vita. Gli adulti mi apparivano come pazzi pericolosi,
sinceramente spesso un po’ frustrati, che era meglio non provocare, che erano
da studiare in silenzio, che agivano senza alcun senso e spesso per volere
provare la propria forza, la propria autorità, si potevano aggirare facilmente
bastava farglielo credere, bastava cedere, per poi riprendersi furtivamente
l’anima come un pigiama lasciato in disordine sulle scale, e via che si sale,
si sale, nella tua cameretta di montagna, con un letto a castello, io sto in
alto, ho un anno di più, poi tu cadresti giù. - Elo dormi ? No perché?
Parliamo. Elo dormi? E come potrei? Parliamo. Parliamo. Parliamo. E al
mattino chiuse nel bagno a guardarci il seno acerbo, mi fa ridere come è fatto
il tuo seno, mi fa ridere da quanto è bello, capezzoli puntavano il cielo,
meridiane proiettavano un tempo esatto tra il recente passato e il futuro, noi
stavamo in quel momento di vita percepita come infinito, quel presente dilatato
dove fa eco quello che dico perché il mio corpo è una grotta dove i segreti
prendono fiato, mi dispiace togliermi il tuo pigiama bianco, il pigiama più
bello che abbia mai indossato, nessun pigiama mi è mai stato meglio, nessun
pigiama mi è mai appartenuto tanto come questo che mi hai prestato. Tieni,
scegli una delle mie magliette, quale ti piace? Questa mi fa le tette più
grandi, usciamo, usciamo a suggerire come Lolite proibite, come Lolite
vietate, a ridere di queste parole
sulle bocche altrui, di cui non abbiamo colpa noi, non abbiamo colpa noi. E
finché si trattava di farsi guardare e ridere e avere coscienza della nostra
presenza, ma sempre mano nella mano era ok, ma gli uomini sarebbero stati un
problema poi, e forse lo si sapeva e un po’ si rimandava, e la seduzione
recalcitrava, si gettava il sasso si nascondeva la mano, piano, forse
percepisco che è questo il momento più bello, questo non sapere e questa fretta
di crescere, forse si incominciava a intuire, e allora sempre abbracciate,
sempre le mani strette, sempre pronte a provocare ma mai a restare, come
saltare veloci sulle bocche volgari, trappole aperte che potevano scattare, e
allora saltare, saltare, saltare. E il no prendeva il posto del si, perché era
meglio così, tu non la puoi sognare, tu non la puoi invitare, tu non la puoi
avere, tu puoi solo guardare. Fino a essere un corpo solo, un corpo solo da
offendere, da ammirare, da provocare, da difendere. Di questa vita difficile da
capire come l’educazione da impartire, educazione che sembrava il gioco che si
fa del telefono senza fili, dove si comincia con una frase, che poi viene
ripetuta di orecchio in orecchio, fino all’ultimo che la traduce male. E’ così
vero? Di generazione in generazione si trasmette la vita, di orecchio in
orecchio, ma nessuno alla fine l’ha mai davvero capita. Ogni vita dovrebbe
finire con una risata. Ricordo, tu andavi a messa con i tuoi e io aspettavo
fuori perché ero la cugina atea e tu eri quella che credeva di più, io avevo un
anno di vantaggio tu una fede in omaggio con la tua nascita, e io aspettavo
fuori te, un segno di pace, saluto, fanculo, quando esci di lì, che noia stare
qui, “Eloisa vuoi entrare in chiesa anche tu?” “No, aspetto, che esca Lui” Un’altalena
nell’assenza di te, ma ci credi veramente? Fa lo stesso non mi importa, ma non
ci credi davvero? E a cosa credi e perché non ci credi? E comunque cosa
importa. L’amicizia è un’altra storia, magari lo saprai tu che hai un anno di
più, magari avrai le tue ragioni, in fondo ti sei sviluppata prima di me, come
una diabolica vendetta per dimostrarmi che non sono gli anni che fanno crescere
più in fretta. Poi dicevi che avevi gli occhi verdi perché li avevo verdi io, e
io non l’ho mai messo in discussione anche se erano di un bellissimo marrone, e
volevi assomigliarmi in tutto, ti veniva un viso buffo, in realtà avevi labbra
belle e capelli belli ed eri tutta bella ma per te non era abbastanza perché
non eri me, e io che ti vedevo con gli occhi miei sentivo solo che non c’era
alcuna differenza se non che tu avessi un anno di meno e io uno di più. E ci
sentivamo molto più belle, quando ci chiedevano se eravamo sorelle, ero
orgogliosa di te. Hanno investito un piccione e tu ti sei gettata con la testa
tra le mie braccia, il mio petto un sipario che ti ha chiuso lo sguardo, e io
che non avevo più forza di te, ho guardato al posto tuo, senza potere fare
niente, avevo paura che ti scoppiasse il cuore dal dolore e solo per questo,
solo per questo non è scoppiato a me. In quel momento ti sei servita, eccome,
del mio anno di più. In quel momento per sentirmi forte e farmi coraggio
davvero ho sfruttato il tuo anno di meno come vantaggio. Eri tu. Tu che porti il nome di una poesia
di Leopardi, tu che eri tutta i miei sguardi. E poi eravamo al Pilastro
ricordi? E c’eravamo avvicinate a un cavallo, era strano un cavallo che brucava
libero in mezzo a tanto cemento, come per sbaglio. Si avvicinano due donne,
almeno a noi sembravano davvero grandi, deve essere così quando hai quei dodici
e tredici anni, salto con la memoria spazi di tempo, come un gioco a terra di
numeri tracciati con gesso, lo faccio con un solo piede, ma lo faccio lo
stesso, e ci minacciano, dicono che il cavallo è loro e non lo possiamo guardare
nemmeno, comunque in fondo solo un pretesto per farci il culo comunque e lo
stesso, si sarebbero inventate qualsiasi cosa, risposta sbagliata, si
avvicinano e mi danno uno schiaffo, io lo restituisco e una di loro tira fuori
un coltello, e adesso che cazzo faccio e tu mi dici che vai a chiamare qualcuno
e io penso merda dove vai, non mi ritroverai mai, non mi ritroverai più, ma tu
vai e giri le spalle, con i tuoi capelli castani che ti corrono appresso,
gettati di scherno con tutto il resto, come dire, questo gioco è durato fin
troppo, il tuo fermo immagine migliore di te che te ne vai, questo coltello
vicino alla mia faccia, il minuto più dilatato che abbia mai vissuto, la
preghiera più assurdamente bestemmiata che ti abbia mai inviato, la speranza
sempre più vana nel credere in una bella giornata, tu e la tua fede negli
adulti e in Dio e io mi fotto qui a modo mio con queste due stronze che mi
puntano un coltello addosso, eppure quel tuo scemo gesto ha risolto meglio del
mio schiaffo, le chiamavano le tre Dell’Ave Maria, guarda un po’, o le tre
Marie non so, mi chiedevo e la terza dov’era? Per fortuna non c’era, un
ectoplasma? Queste magari dopo avere sbudellato adolescenti venivano a messa
con i tuoi, e guarda che bel segno di pace hanno scambiato con noi, comunque se
la fuggono via, paura degli adulti, della polizia, e tu con il tuo anno di
meno, con il tuo andare a dirlo a chissà chi, l’hai risolta così. Hai
minacciato due teppiste con quest’aria di festa, come a dire “fido” “vado a
dirlo alla maestra” come fermare Al Capone alla tua età con un “Non si dice,
non si fa”. Salto di tempo, anni di meno, ci proviamo un reggiseno, te lo provi
tu, il primo che metti, hai un anno di meno e più seno, ma a cosa serve avere
un anno di più, siamo chiuse nel bagno e tu mi fai vedere i pori allargati
nelle tue mani e mi dici che quando avrò i pori allargati così come i tuoi
allora mi cresceranno i seni e mi svilupperò velocemente, e penso che tu stia
dicendo la più enorme cazzata mai sentita, eppure mi guardo le mani, interrogo
il dorso delle mie dita. E siamo più bambine che donne, curiose come le
scimmie, ci copiamo e imitiamo, e tu trovi sotto il letto di nostro zio un
sacco enorme, un sacco enorme di giornaletti porno, e qualcuno ce lo prendiamo
e ce lo portiamo in bagno e poi rimettiamo il sacco più o meno dov’era.
Naturalmente si ride e un po’ ci si rimane pure male, insomma ora ci farà un
po’ senso guardare nostro zio, aspetta un momento, fammi guardare, e tu ti
infili in una storia porno sadomasochista, ma la nostra breve esistenza non
sapeva bene quale argomenti avere a difesa di un io che con un filo di voce
tradiva una scoperta precoce, ma il peggio è che io me la ridevo a modo mio, ma
tu stavi diventando blu, ti stava venendo un attacco di qualcosa, eri spaventata
e io chiusa in quel cesso con te non sapevo come aiutarti, mio dio, e dio lo
pensavo sempre con la minuscola ma questo non potevi saperlo tu, pensavo pure
povero zio! E ti dicevo: - E’ finto
non vedi, non fa nulla di male, sono disegni, storie inventate, sono… -
E tu rispondevi: - “Mi viene da vomitare”, interrogavi senza pietà, “Perché
ce li ha?”- “Ma che ne so, ma chi lo sa, freghiamocene! Dobbiamo stare zitte e riportarlo a posto
senza essere viste - Ma mi
dispiaceva che tu stessi così, e non sapevo come dirti che quello che avevi
visto non era accaduto, che era finto, insomma che quegli stupratori e
torturatori erano disegni, roba immaginata, fantasia pervertita, comunque non
erano vita, ma tu dicevi che se li avevano disegnati e scritti con tanta precisione
doveva esserci fonte e ragione, e non se ne usciva più, Dimentica tutto,
ridici su, e poi cosa te ne frega e perché la prendi così?- Dobbiamo
dirlo - Io rispondevo che non la
trovavo una bella idea confessare di avere letto sta porcheria e finire in un
processo peggiore con tanto di zio alla gogna per la vergogna, e poi era finita
lì, una dura lotta tra la tua coscienza pulita e la mia più scaltra ragione di
vita, i giornaletti furono comunque trovati e ne fece le spese uno zio più che
adolescente che in mancanza di niente… Gli avevano detto “Potevano trovarli
le bambine!” Già fatto, abbiamo giusto qualche anno di analisi da parte, ma
io che ho un anno di più l’ho spacciato per… gran brutta arte. Salto di tempo,
dialogo serrato sotto le Due Torri ci manca quasi il fiato. Tu Elo quando lo
farai per la prima volta? – Boh a sedici o diciassette anni circa. –
Cosa? Così presto? - Mi hai
risposto scandalizzata tu. Al che io ti ho chiesto: “Perché presto, e tu?” - Io a trent’anni almeno o più tardi che
potrò. Tu fino a trent’anni non ne volevi sapere, io pensavo che di questo
passo non avesse senso vivere affatto, e ti ho guardato come avessi tre braccia
o due teste e venissi da Marte, “Merda trent’anni? Sono un casino di tempo!
Un casino di tempo !! Io lo voglio fare presto, prima possibile, anche sedici,
meglio!”. Era come se avessi bestemmiato, leggevo tutto sul tuo sguardo
sbigottito e io ancora riflettevo sui trentenni e su quell’infinito, e
riflettevo su di te, perché? E tu su di me, perché? E io pensavo che con
quell’anno di anticipo su di me forse avevo diritto a essere un po’ più puttana
di te. E non me ne curavo più. Fine dei tabù, dammi la tua mano, dammi la tua
splendida mano con i pori allargati e il tuo sorriso e i tuoi seni più
sviluppati che come frecce puntavano verso il cielo e fuggiamo via con la
fantasia. Anzi fuggiamo davvero! Abbiamo trovato un pulcino e lo abbiamo
raccolto, lo abbiamo portato a casa e non c’è stato verso, volevamo tenerlo. E’
diventato un gallo e insieme siamo andate in giro a cercare contadini che lo
tenessero con il giuramento di non mangiarlo, e noi saremmo sempre andate a
controllarlo, il gallo seguiva te. Lo avevi cresciuto tu. Non ci fidavamo di
nessuno, ci sembrava acconsentissero tutti con troppo slancio per averlo in
pensione soltanto, e qui peccavi di fede nel prossimo anche tu. Poi il
contadino di fiducia lo abbiamo trovato, l’unico gallo che sia mai invecchiato.
L’amore per gli animali, la complicità, un senso di giustizia che superava l’età, e non eri anarchica un
anno di meno o un anno di più ma odiavi le pellicce anche tu, quando non c’è
ancora politica nella tua vita, eppure si porta qualcosa addosso che assomiglia
molto agli ideali e alla sfida, quando la religione determina poco, forse una
domenica pomeriggio che separa dal gioco, eppure si è lì con le idee più chiare
davanti, su cosa è giusto o sbagliato e su come stare esattamente nei propri
anni, almeno eravamo così, c’eravamo noi, come eroi, e tutto si poteva
sopportare purché ci si potesse vedere. E a te sono venute le mestruazioni
prima di me, un pomeriggio che mio padre mi venne a prendere a casa tua, disse
che per lui io non ero normale, che non era normale che non mi fossi
sviluppata, io ero lì a sentire questa discussione tra parenti che si interrogavano
sul mio sviluppo non sui miei sentimenti, non ero normale? Perché? Perché il
sangue veniva prima a te? Non eri normale tu? E ci siamo guardate negli occhi,
credo, forse lo abbiamo fatto e forse abbiamo risposto con molto più tatto, ci
eravamo appena mangiate un panino e non era un fatto di sangue o sviluppo
starci vicino e dividerci l’anima a morsi, eppure avevo sentito una ferita più
giù, come non fossi accettata dalla mia famiglia, come fossi cresciuta solo tu,
e di conseguenza hanno ferita anche te, che di riflesso vivevi la ferita mia,
l’amicizia è fatta di questa poesia, che stessi tranquilla perché sviluppo o no
per te avevo sempre e comunque un anno di più. E poi il sangue è arrivato, è
arrivato e la vita è corsa tutto d’un fiato, a pensarci bene il mio corpo ha
avuto una grande idea a rimandare questa odissea, quanto era possibile
rimandare. E a sedici anni mi sono innamorata e tu ti sei sentita tradita, un
pomeriggio al mare in cui mi sono fidanzata, si diceva così con serietà
infinita, e mi ostacolavi e mi tenevi il broncio e io ti trovavo pesante, ti
trovavo esagerata, lui ti diceva che eri troppo puntigliosa, lui aveva fatto lo
sgambetto alla nostra vita, tu volevi rientrare, terminare quella giornata, ma
a sedici anni si ottiene quello che si vuole e io volevo perdermi con lui,
volevo crescere, e dopo c’erano state lettere di scuse da parte tua, di
comprensione e incomprensione da parte mia, ma non erano le lettere e neppure
le scuse, qualcosa si era spezzato, una corsa per la quale non si ha più fiato,
e forse non abbiamo capito che non era l’amicizia finita, ma solo una fase di
quella vita, che non si poteva rimanere adolescenti per sempre, che gli ormoni
avrebbero avuto il sopravvento sui giochi, che cambiavano i ruoli e gli avvenimenti
a una velocità difficile da sostenere, e si aveva sempre più sete. E forse ci
siamo ferite a vicenda e poi allontanate per convenienza. E poi piano, piano,
il tempo e lo spazio si sono messi di mezzo e hanno fatto il resto. Con tacito
nostro consenso, il destino o chi gli era vicino ha tirato le nostre braccia, e questo legame si è strappato come
un foglio tirato da parte a parte. E tutti quegli anni caduti così velocemente,
come niente. Come quando si cambiano i libri a scuola, e quelli andati sono superati,
come un diario finito e dimenticato, la forza di quello che era rispetto a ciò
che era stato. Come una lastra infrangibile che con la velocità di una
ghigliottina divide due sorelle siamesi attaccate per la schiena, come una
stanza insonorizzata, come un muro di Berlino, come una sentenza sbagliata,
come una festa che ci esclude, come se stare insieme significasse non crescere
più, come fosse necessario, ovvio, lasciarsi dietro tutto. Se non l’avessimo
fatto le nostre vite non sarebbero cominciate mai, sai? E non ci siamo mai più frequentate. Capita.
Hai due figli, sei sposata, sono un’artista per questo la famiglia mi ha sempre
giustificata ho diritto ad essere strana, non sappiamo nulla di noi, che non
corra sulle labbra dei parenti, come una brezza non richiesta che passa dalla
finestra, come spifferi sotto la porta, il resto di una storia. Mi hanno detto
che tu sei finita in ospedale, ho telefonato, mi sono informata su cosa era
accaduto, mi distillavano parole nell’orecchio, goccia a goccia passavano alla
gola, e un resoconto monocorde e preciso con pause equidistanti come fermate
d’autobus cominciava a viaggiare a ritroso nella mia mente, e l’ultima fermata
dove sono scesa c’eri tu. C’eravamo
noi. Ancora ferme ad aspettarci. Chiedo il tuo numero di cellulare, prima di
ritirare il piede affondato nelle sabbie mobili del passato, una macchina del
tempo che inizialmente e senza sentimento mi fa scorrere davanti ogni sorta di
avvenimento, finché torno bambina, e quella bambina si lamenta, forse della tua
assenza, perché il mio passato è legato a te. Stai meglio. Hai rischiato
grosso. Chiamerò. Ma finisce che ci scriviamo messaggi, forse la voce ora
sarebbe troppo, ma digitiamo il necessario per creare il presupposto di
un’altra giornata insieme. E come il vento mi sei entrata ancora dentro. Nel
frattempo compie cent’anni nostro nonno. Ci sarai al suo compleanno? Penso
di no. Vuoi entrare Eloisa, no resto qui, è meglio così. Non capisci,
non è esserci ai compleanni, a Pasqua a
Natale, è che non ti accada nulla di
male. E’ che non ti accada mai nulla di male.
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