giovedì 19 giugno 2014

Never Again - Part Four




Never Again  - Part Four


 

 

 

Sede della CIA colloquio interno tra il capo e un agente:

 

Capo- Dove sta Linda?

 

Agente – L’abbiamo persa.

 

Capo – L’abbiamo persa? La CIA perde i suoi uomini adesso, e se perdiamo i nostri come cazzo facciamo a trovare gli altri!!? (pugno sul tavolo che fa saltare il portamatite) Cosa sappiamo di Sergej?

 

Agente – Seguiamo i morti che lascia per via…

 

Capo – Cos’è una poesia? Parli chiaro!

 

Agente – Beh, dopo avere ucciso… un prete, un cieco, un ragazzo che…

 

Capo – Le so queste cose, l’ultima volta dove è stato rintracciato?

 

Agente – Ci sarebbe una traccia sì, è stato ucciso un uomo che ostentava focaccine, vendeva focaccine, sappiamo che Sergej sta tentando una dieta, deve averlo preso per un affronto, l’ha ucciso, agenti hanno seguito le briciole…

 

Capo – Ma cos’è pollicino? Gli agenti devono seguire le briciole!!? E’ il criminale più schedato che abbiamo, il più recidivo, conosciamo tutte le sue identità, non sanno neppure più come travestirlo, inoltre semina morti con una facilità inaudita e noi non lo catturiamo, come mai?! (Pugno sul tavolo cade il portamatite)

 

Agente Se posso permettermi, capo, è un agente scelto del KGB non per nulla, è un assassino spietato, un esperto del mimetismo senza eguali, probabilmente era sul posto anche accanto al morto, immobilizzato contro qualche consona parete, con un bolo di focaccina ancora bloccato in gola perché non sentissimo deglutire, è un vero genio, converrà…

 

Capo – Io convengo che sono circondato da veri idioti, talmente idioti che Sergej appare un genio! Sergej è rammollito perché è innamorato, sviene ogni mezz’ora circa, basta che senta lei, la veda, la sfiori o che lei pronunci qualche parola in russo, altro punto debole è la sua gelosia, quindi saremo noi a tirare fuori il topo dalla tana, mandate qualcuno a sedurre Linda, Sergej apparirà immediatamente! Che fa ancora lì? Scattare!

 

Agente – Abbiamo un piccolo problema… Ehm avevamo già tentato questa pista, il fatto è che gli agenti muoiono prima di raggiungere Linda, li fredda a distanza, quando stanno per rivolgerle la parola, e naturalmente, tutti gli agenti della CIA si rifiutano categoricamente di corteggiarla, di tentare alcunché minimo approccio, neppure chiedere di accendere, nulla, quando cammina Linda è sola per un raggio di Chilometri.

 

Capo – Ma è ridicolo, pagateli bene, vi ordino! E’ un’azione speciale, dobbiamo fare ingelosire Sergej, dobbiamo farlo avvicinare! (rassegnato all’evidenza) Non abbiamo volontari, eh? Va bene, fate uscire qualcuno dal carcere di massima sicurezza e in cambio della libertà, breve, di cui godrà, tenterà di sedurre Linda, qualche povero criminale a cui non sia arrivata la leggendaria fama di Sergej. Che tipi piacciono a Linda? Trovatele qualche punto debole, scavate nell’infanzia, qualsiasi cosa che ce la renda vulnerabile e anzitutto trovatela!

 

Agente – Linda non ha punti deboli, non ha un’infanzia, non ha alcuna traccia di una vita precedente, non è vulnerabile, ama solo Sergej, non degna di uno sguardo nessun altro uomo, come potrebbe del resto, le cadono ai piedi prima, in senso fisico appunto, non metaforico, gira solo una voce, ma è una voce…

 

Capo – Per favore la dica! Cos’è Giovanna D’Arco!?

 

Agente – Sembra che sia affascinata da maschi latini, intendo scuri di occhi, capelli… Un qualcosa che la cattura, quanto meno per i primi cinque minuti. Perché poi quando parlano, insomma appena aprono bocca, evidentemente ne rimane delusa e  li uccide.

 

Capo – Possono bastare! Come latino? Occhi neri? Capelli neri? Ma se Sergej è biondo, castano, tipico Russo, c’è un abisso!

 

Agente – Beh perché l’amore è cieco.

 

Capo –  Visto che se parlano li uccide, fate in modo che questo amore sia muto oltre che cieco, il più possibile, almeno. Esca, trovi questo ergastolano latino, scarso di linguaggio, ma che risulti misterioso e non deficiente, con un certo fascino, mi raccomando, e lo mandi in giro a cercare Linda! (tra sé)  Linda Gringa… ora ti sistemiamo noi il tuo Sergej.

 

 

Cambio scena, una panchina sovrastata da foglie, edera, ogni tipo di pianta rampicante, impossibile pensare di sedersi, a mala pena si intravede tra le foglie, da lati opposti cauti entrano nell’inquadratura i piedi di Linda e Sergej, vestiti entrambi di verde, perfettamente mimetizzati con l’ambiente.

 

Sergej –  Non sai quanto mi manchi, sono braccato Linda, guarda la nostra panchina, pensa da quanto tempo non ci incontriamo.

 

Linda – Accidenti Sergej, tu semini troppi morti, ora anche a me tengono il guinzaglio corto, non sai che fatica essere qui, perfetto mimetismo Sergej, sei un maestro.

 

Sergej – Oh Linda persino i tuoi occhi si mimetizzano con il verde delle foglie… Sei così perfetta.

 

Linda – Da.  Sergej? Sergej? Dove sei Sergej! Cosa fai ai miei piedi, Sergej non puoi svenire sempre! Ero distratta, non parlerò più russo, rialzati, accidenti! Mi troveranno in qualche modo, forse mi useranno come esca per cercare te, quindi cerca di non cogliere qualsiasi provocazione loro, ma cosa parlo a fare!

 

Sergej – Da.

 

Linda – Cosa? Ah, che cavolo di modo di dire sì! Senti dobbiamo resistere, non ci potremmo vedere, perciò, annusami quanto ti pare, ora che puoi, i capelli, la pelle,  fai il pieno di me, perché poi dobbiamo sparire, e il piano è ritrovarci a Trieste.

 

Sergej – I tuoi capelli d’alga… Perché Trieste?

 

Linda – Perché è romantica, perché c’è molto vento e gli inseguimenti a piedi sono più lenti, anche noi siamo più lenti, però anche loro, e poi noi siamo allenati a correre controvento, perché noi ci siamo amati la’, per motivi romantici insomma, e se dovessimo morire sarà una morte romantica, come volevi tu. Si aspetteranno che fuggiamo chissà dove invece ci spostiamo non poi di tanto, gli stiamo sotto il naso, anzi gli staremo alle spalle che è l’unico modo per non essere inseguiti.

 

Sergej – Non fa una piega. La tua voce. E’ ingiusto che tu sia così bella.

 

Linda – Perché? La bellezza è soggettiva, tu mi ami Sergej. Molti non mi troverebbero affatto bella.

 

Sergej – Solo perché altrimenti morirebbero, per pura sopravvivenza, ma tu sei ingiustamente bella.

 

Linda – La bellezza è democratica, sai? Io non avrei avuto soldi per comprarmela. Tu sei bello Sergej, sei così democraticamente bello.

 

Sergej – Da.

 

Linda –  Cos… (Urlando) Che hai fatto Sergej ? Hai freddato un uomo accanto alla nostra panchina!!

 

Sergej – Ci stava pisciando sopra a causa del nostro perfetto mimetismo Gringa .

 

Linda – Accidenti Sergej ora dobbiamo spostarci. Era un dannato posto tranquillo! Sono così stanca amore. Sergej ? Sergej? Dove sei Sergej, dai alzati! Sergej non è questo il caso di svenire, non dirò più “amore”, scusa, merda Sergej l’amore ti rammollisce proprio, Sergej? Sergej? Rialzati Sergej, Sergej dicevo, sono stanca, vorrei essere scissa in due, vorrei che una parte di me fosse tutto quello che serve nella vita: lavoro, praticità, razionalità e l’altra tutto quello che manca, amore, istinto, verità. E scegliere quale mandare avanti senza che una influenzi l’altra, ma sono la stessa persona, la stessa persona e questo è un casino. Perché queste due si influenzano Sergej! Ed io mi influenzo di continuo.

 

Sergej – Baciandola sulla fronte: - Infatti sei calda, Linda. La nostra più grande fortuna è la nostra capacità di adattamento, la nostra più grande sfortuna è la nostra capacità di adattamento.

 

Linda – (assorta)- Da

 

Sergej cade sul cadavere ai loro piedi.

 
To be continued....
 


 

 

 

 

domenica 1 giugno 2014

Un anno di più

Nella foto Eloisa Guidarelli - 13 anni


Un anno di più


 

 

Una coccinella sulle labbra e le ho immobilizzate per non farle male, ho finito di leggere un libro e la mia pelle ha il sapore di sole e crema, un afrodisiaco per me stessa, siamo odori, tornando a casa pensavo di scrivere, di noi, e pensavo a come censurare il tuo nome, a come evitare parole, verità, come simulare, come dire di tutto senza citare niente, forse non è una buona idea mettersi qui e scrivere, forse era meglio dipingere, forse era meglio rimanere sotto il sole, isolata su una panchina e stare immobili come un filo d’erba, un albero, e lasciare che una coccinella si appoggi per sbaglio, la libertà di essere vento senza per una volta diventare quello che sento. Dall’adolescenza a ora, a essere una donna matura? E’ stato un balzo in avanti, scaricare fendenti sul passato e i parenti, non per un fatto che avesse chissà quale significato in sé, solo non c’entravo niente con l’altra parte di me, quella che avrebbe formato il mio io più profondo, quella che d’ora in avanti si sarebbe fatta spazio nel mondo. E’ da un tempo infinito che pago per quello che penso e che dico, ma non mi tradisco, a volte striscio, ferisco, mi butto di lato, la festa di turno non ha nulla da dirmi, vorrei andarmene via senza disturbare, senza neppure lasciare un pensiero sul fatto che potevo ma non c’ero. E tu mi odiavi perché avevo un anno di più, che quando si hanno i tuoi dodici anni sono come cento anni, e l’altra cosa che non ti andava giù era che io avevo i capelli biondi, ed era per questo e per quell’anno di vantaggio sulla vita che i ragazzini mi guardavano per prima. “Bionda” che alla parola bionda ci si girava in coppia, poi ci si guardava, ci si rideva in faccia, e la parola “Bionda” era già una parolaccia, un qualcosa che ci faceva intrecciare le dita, voltare le spalle, urlarci “che palle!”. Era quell’età avvolta dal mistero, dove è tutto bianco o tutto nero, quando ci si guarda allo specchio, quando cazzo cresce questo seno maledetto, dove ci si chiama per telefono, poi ci si trova all’angolo di un giardino, per parlarsi fitto nell’orecchio, è accaduto un fatto importantissimo, di rilevanza universale, mi è cresciuto un pelo proprio lì, e io pensavo che era strano, strano perché tu eri più piccola, e crescevi prima di me. E c’erano uomini e sguardi lascivi e una discoteca il pomeriggio e gesti ambigui in corpi adolescenti, sogni grossi senza avere i denti per affondarci la vita, musica e ore nascoste al sole, si tira una tenda sull’universo, si crea il buio per un gioco diverso, come una notte simulata apposta, ti va di crescere in fretta?  Fingiamoci donne vere, ma come saranno quelle sere? Quando per osare non occorrerà fare il buio per finta. E poi ti sei fidanzata prima tu, e io ridevo per te, preoccupata solo dal fatto che, era strano perché, avevi un anno di meno ma crescevi prima di me. Eppure sentivo di proteggerti io, a modo mio, fiera di quell’anno di differenza che manteneva la nostra distanza, e poi come accade a quell’età mi sono fidanzata per pura curiosità e intanto gli anni erano quindici e lo avevo fatto per uscire con te, un ragazzo come un accessorio di scorta e intanto ci saremmo viste in quattro ogni volta, e poi a chiederci: - Com’è stato, lui dove ti ha toccato, lo hai già baciato? - Si, e mi ha fatto schifo, non so cosa ci sia di così magico! Non mi piace il suo odore, non mi dice nulla la sua faccia, non mi importano i suoi occhi blu, sto solo dove sei tu.  E se vuoi la mia opinione il tuo fidanzato è un coglione, ma se sei felice così.  - L’ho pensato di certo e di certo non te l’ho mai detto. Vuoi mettere i pomeriggi chiuse in una cameretta che era un budello, dove se ci doveva essere il letto non ci poteva essere il pavimento, a provare la matita negli occhi, a giocare con i rossetti, a scambiarsi i vestiti, i sogni, la pelle, non serviva nient’altro per essere belle. Il mascara che allungava le ciglia sulla meraviglia, vestiti che si riducevano di dimensione, il corpo in esposizione, dove sguardi restavano attaccati come le nostre lingue ai gelati, e stare guancia a guancia in uno specchio ridotto, dove due volti non trovano spazio, vedere incorniciati due sguardi indecisi, che si studiavano a vicenda, com’era questa faccenda della seduzione, quanto rosso, quanto verde, tu ti metti il marrone? Io mi giocavo la carta di figlia emancipata con genitori separati e tu figlia di un matrimonio ordinario, approvato da Dio e dalla religione, la carta della convenzione, ma il punto ora era soltanto come venire a capo di noi, come infilarci la vita dentro il maglione e farne indigestione, tu camminavi dentro le righe, avevi binari e direzioni esatte, io tutte le scuse valide per strade sconnesse, e traiettorie senza capo né  coda, e noi a ridere di cosa? E’ un’età che non concepisce la disciplina, ma è un’età che impara velocemente la strategia, perché è l’età per fuggire via, è l’età di una curiosità crescente, di bugie a fin di bene, il nostro, comunque e per sempre. E’ l’età dell’immortalità, dell’incontrarci ad ogni costo, dove si finisce per ammirare l’esempio peggiore, forse in onore del dissacrare che in quei pochi anni è solo un disperato affermare tutto il contrario di ciò che si dovrebbe fare, la chiamano maleducazione, la chiamano adolescenza, ma era la strada più breve per testare l’indipendenza, e l’adrenalina è l’orgasmo che si conosce prima, facciamo in modo che non ci scoprano mai, senza sapere che alla fine non si faceva un granché di diverso, che non era poi così perverso, e che altri avevano già vissuto la nostra banale età, e noi a volteggiare cugine per sempre, un fatto di sangue, si interrogava la coscienza con la curiosità più profonda, si scopriva la vita insieme a Bologna. E non capivo quando ti sgridavano così severamente perché ti cadeva una forchetta sul pavimento, mentre a me era riservato un altro trattamento, in quanto ospite e nipote, ci avrebbero pensato poi i miei genitori alla mia educazione, semmai, nel frattempo tu stavi nei guai, intanto però era come lo facessero a me, e forse lì era implicita la mia punizione, nel seguire la scena senza potere intervenire, come un film che non ami vedere, e lì era la mia punizione, in questa mutilazione, nell’essere testimone, volevo abbassare la tensione, volevo creare qualsiasi distrazione, forse sì, ti avrei portato via di lì, ma non potevo, ero bloccata, ero compressa e il mio anno di vantaggio non contava niente, crescere doveva essere una fregatura se poi ti lasciava impotente. Non potevano avere ragione sulla tua umiliazione. Chi è umiliato è sempre innocente e questa educazione così rigida che ti si impartiva, non ti avrebbe insegnato meglio la vita, non ti avrebbe fatto sbagliare, quasi mai, tanto che ti avrei volentieri regalato un po’ di sbagli miei, con i quali avresti potuto sfogarti un po’. Questa odiosa punizione che sono certa era resa peggiore dalla mia presenza, forse la esasperavano l’esempio, la coerenza. Insomma mi sentivo quasi la causa innescata, vedete vi impartiamo la vita. Gli adulti mi apparivano come pazzi pericolosi, sinceramente spesso un po’ frustrati, che era meglio non provocare, che erano da studiare in silenzio, che agivano senza alcun senso e spesso per volere provare la propria forza, la propria autorità, si potevano aggirare facilmente bastava farglielo credere, bastava cedere, per poi riprendersi furtivamente l’anima come un pigiama lasciato in disordine sulle scale, e via che si sale, si sale, nella tua cameretta di montagna, con un letto a castello, io sto in alto, ho un anno di più, poi tu cadresti giù. - Elo dormi ? No perché? Parliamo. Elo dormi? E come potrei? Parliamo. Parliamo. Parliamo. E al mattino chiuse nel bagno a guardarci il seno acerbo, mi fa ridere come è fatto il tuo seno, mi fa ridere da quanto è bello, capezzoli puntavano il cielo, meridiane proiettavano un tempo esatto tra il recente passato e il futuro, noi stavamo in quel momento di vita percepita come infinito, quel presente dilatato dove fa eco quello che dico perché il mio corpo è una grotta dove i segreti prendono fiato, mi dispiace togliermi il tuo pigiama bianco, il pigiama più bello che abbia mai indossato, nessun pigiama mi è mai stato meglio, nessun pigiama mi è mai appartenuto tanto come questo che mi hai prestato. Tieni, scegli una delle mie magliette, quale ti piace? Questa mi fa le tette più grandi, usciamo, usciamo a suggerire come Lolite proibite, come Lolite vietate,  a ridere di queste parole sulle bocche altrui, di cui non abbiamo colpa noi, non abbiamo colpa noi. E finché si trattava di farsi guardare e ridere e avere coscienza della nostra presenza, ma sempre mano nella mano era ok, ma gli uomini sarebbero stati un problema poi, e forse lo si sapeva e un po’ si rimandava, e la seduzione recalcitrava, si gettava il sasso si nascondeva la mano, piano, forse percepisco che è questo il momento più bello, questo non sapere e questa fretta di crescere, forse si incominciava a intuire, e allora sempre abbracciate, sempre le mani strette, sempre pronte a provocare ma mai a restare, come saltare veloci sulle bocche volgari, trappole aperte che potevano scattare, e allora saltare, saltare, saltare. E il no prendeva il posto del si, perché era meglio così, tu non la puoi sognare, tu non la puoi invitare, tu non la puoi avere, tu puoi solo guardare. Fino a essere un corpo solo, un corpo solo da offendere, da ammirare, da provocare, da difendere. Di questa vita difficile da capire come l’educazione da impartire, educazione che sembrava il gioco che si fa del telefono senza fili, dove si comincia con una frase, che poi viene ripetuta di orecchio in orecchio, fino all’ultimo che la traduce male. E’ così vero? Di generazione in generazione si trasmette la vita, di orecchio in orecchio, ma nessuno alla fine l’ha mai davvero capita. Ogni vita dovrebbe finire con una risata. Ricordo, tu andavi a messa con i tuoi e io aspettavo fuori perché ero la cugina atea e tu eri quella che credeva di più, io avevo un anno di vantaggio tu una fede in omaggio con la tua nascita, e io aspettavo fuori te, un segno di pace, saluto, fanculo, quando esci di lì, che noia stare qui, “Eloisa vuoi entrare in chiesa anche tu?” “No, aspetto, che esca Lui” Un’altalena nell’assenza di te, ma ci credi veramente? Fa lo stesso non mi importa, ma non ci credi davvero? E a cosa credi e perché non ci credi? E comunque cosa importa. L’amicizia è un’altra storia, magari lo saprai tu che hai un anno di più, magari avrai le tue ragioni, in fondo ti sei sviluppata prima di me, come una diabolica vendetta per dimostrarmi che non sono gli anni che fanno crescere più in fretta. Poi dicevi che avevi gli occhi verdi perché li avevo verdi io, e io non l’ho mai messo in discussione anche se erano di un bellissimo marrone, e volevi assomigliarmi in tutto, ti veniva un viso buffo, in realtà avevi labbra belle e capelli belli ed eri tutta bella ma per te non era abbastanza perché non eri me, e io che ti vedevo con gli occhi miei sentivo solo che non c’era alcuna differenza se non che tu avessi un anno di meno e io uno di più. E ci sentivamo molto più belle, quando ci chiedevano se eravamo sorelle, ero orgogliosa di te. Hanno investito un piccione e tu ti sei gettata con la testa tra le mie braccia, il mio petto un sipario che ti ha chiuso lo sguardo, e io che non avevo più forza di te, ho guardato al posto tuo, senza potere fare niente, avevo paura che ti scoppiasse il cuore dal dolore e solo per questo, solo per questo non è scoppiato a me. In quel momento ti sei servita, eccome, del mio anno di più. In quel momento per sentirmi forte e farmi coraggio davvero ho sfruttato il tuo anno di meno come vantaggio.  Eri tu. Tu che porti il nome di una poesia di Leopardi, tu che eri tutta i miei sguardi. E poi eravamo al Pilastro ricordi? E c’eravamo avvicinate a un cavallo, era strano un cavallo che brucava libero in mezzo a tanto cemento, come per sbaglio. Si avvicinano due donne, almeno a noi sembravano davvero grandi, deve essere così quando hai quei dodici e tredici anni, salto con la memoria spazi di tempo, come un gioco a terra di numeri tracciati con gesso, lo faccio con un solo piede, ma lo faccio lo stesso, e ci minacciano, dicono che il cavallo è loro e non lo possiamo guardare nemmeno, comunque in fondo solo un pretesto per farci il culo comunque e lo stesso, si sarebbero inventate qualsiasi cosa, risposta sbagliata, si avvicinano e mi danno uno schiaffo, io lo restituisco e una di loro tira fuori un coltello, e adesso che cazzo faccio e tu mi dici che vai a chiamare qualcuno e io penso merda dove vai, non mi ritroverai mai, non mi ritroverai più, ma tu vai e giri le spalle, con i tuoi capelli castani che ti corrono appresso, gettati di scherno con tutto il resto, come dire, questo gioco è durato fin troppo, il tuo fermo immagine migliore di te che te ne vai, questo coltello vicino alla mia faccia, il minuto più dilatato che abbia mai vissuto, la preghiera più assurdamente bestemmiata che ti abbia mai inviato, la speranza sempre più vana nel credere in una bella giornata, tu e la tua fede negli adulti e in Dio e io mi fotto qui a modo mio con queste due stronze che mi puntano un coltello addosso, eppure quel tuo scemo gesto ha risolto meglio del mio schiaffo, le chiamavano le tre Dell’Ave Maria, guarda un po’, o le tre Marie non so, mi chiedevo e la terza dov’era? Per fortuna non c’era, un ectoplasma? Queste magari dopo avere sbudellato adolescenti venivano a messa con i tuoi, e guarda che bel segno di pace hanno scambiato con noi, comunque se la fuggono via, paura degli adulti, della polizia, e tu con il tuo anno di meno, con il tuo andare a dirlo a chissà chi, l’hai risolta così. Hai minacciato due teppiste con quest’aria di festa, come a dire “fido” “vado a dirlo alla maestra” come fermare Al Capone alla tua età con un “Non si dice, non si fa”. Salto di tempo, anni di meno, ci proviamo un reggiseno, te lo provi tu, il primo che metti, hai un anno di meno e più seno, ma a cosa serve avere un anno di più, siamo chiuse nel bagno e tu mi fai vedere i pori allargati nelle tue mani e mi dici che quando avrò i pori allargati così come i tuoi allora mi cresceranno i seni e mi svilupperò velocemente, e penso che tu stia dicendo la più enorme cazzata mai sentita, eppure mi guardo le mani, interrogo il dorso delle mie dita. E siamo più bambine che donne, curiose come le scimmie, ci copiamo e imitiamo, e tu trovi sotto il letto di nostro zio un sacco enorme, un sacco enorme di giornaletti porno, e qualcuno ce lo prendiamo e ce lo portiamo in bagno e poi rimettiamo il sacco più o meno dov’era. Naturalmente si ride e un po’ ci si rimane pure male, insomma ora ci farà un po’ senso guardare nostro zio, aspetta un momento, fammi guardare, e tu ti infili in una storia porno sadomasochista, ma la nostra breve esistenza non sapeva bene quale argomenti avere a difesa di un io che con un filo di voce tradiva una scoperta precoce, ma il peggio è che io me la ridevo a modo mio, ma tu stavi diventando blu, ti stava venendo un attacco di qualcosa, eri spaventata e io chiusa in quel cesso con te non sapevo come aiutarti, mio dio, e dio lo pensavo sempre con la minuscola ma questo non potevi saperlo tu, pensavo pure povero zio! E ti dicevo: -  E’ finto non vedi, non fa nulla di male, sono disegni, storie inventate, sono… - E tu rispondevi: - “Mi viene da vomitare”, interrogavi senza pietà, “Perché ce li ha?”- “Ma che ne so, ma chi lo sa, freghiamocene!  Dobbiamo stare zitte e riportarlo a posto senza essere viste -  Ma mi dispiaceva che tu stessi così, e non sapevo come dirti che quello che avevi visto non era accaduto, che era finto, insomma che quegli stupratori e torturatori erano disegni, roba immaginata, fantasia pervertita, comunque non erano vita, ma tu dicevi che se li avevano disegnati e scritti con tanta precisione doveva esserci fonte e ragione, e non se ne usciva più, Dimentica tutto, ridici su, e poi cosa te ne frega e perché la prendi così?- Dobbiamo dirlo -  Io rispondevo che non la trovavo una bella idea confessare di avere letto sta porcheria e finire in un processo peggiore con tanto di zio alla gogna per la vergogna, e poi era finita lì, una dura lotta tra la tua coscienza pulita e la mia più scaltra ragione di vita, i giornaletti furono comunque trovati e ne fece le spese uno zio più che adolescente che in mancanza di niente… Gli avevano detto “Potevano trovarli le bambine!” Già fatto, abbiamo giusto qualche anno di analisi da parte, ma io che ho un anno di più l’ho spacciato per… gran brutta arte. Salto di tempo, dialogo serrato sotto le Due Torri ci manca quasi il fiato. Tu Elo quando lo farai per la prima volta?Boh a sedici o diciassette anni circa.Cosa? Così presto?  - Mi hai risposto scandalizzata tu. Al che io ti ho chiesto: “Perché presto, e tu?”  - Io a trent’anni almeno o più tardi che potrò. Tu fino a trent’anni non ne volevi sapere, io pensavo che di questo passo non avesse senso vivere affatto, e ti ho guardato come avessi tre braccia o due teste e venissi da Marte, “Merda trent’anni? Sono un casino di tempo! Un casino di tempo !! Io lo voglio fare presto, prima possibile, anche sedici, meglio!”. Era come se avessi bestemmiato, leggevo tutto sul tuo sguardo sbigottito e io ancora riflettevo sui trentenni e su quell’infinito, e riflettevo su di te, perché? E tu su di me, perché? E io pensavo che con quell’anno di anticipo su di me forse avevo diritto a essere un po’ più puttana di te. E non me ne curavo più. Fine dei tabù, dammi la tua mano, dammi la tua splendida mano con i pori allargati e il tuo sorriso e i tuoi seni più sviluppati che come frecce puntavano verso il cielo e fuggiamo via con la fantasia. Anzi fuggiamo davvero! Abbiamo trovato un pulcino e lo abbiamo raccolto, lo abbiamo portato a casa e non c’è stato verso, volevamo tenerlo. E’ diventato un gallo e insieme siamo andate in giro a cercare contadini che lo tenessero con il giuramento di non mangiarlo, e noi saremmo sempre andate a controllarlo, il gallo seguiva te. Lo avevi cresciuto tu. Non ci fidavamo di nessuno, ci sembrava acconsentissero tutti con troppo slancio per averlo in pensione soltanto, e qui peccavi di fede nel prossimo anche tu. Poi il contadino di fiducia lo abbiamo trovato, l’unico gallo che sia mai invecchiato. L’amore per gli animali, la complicità, un senso di giustizia  che superava l’età, e non eri anarchica un anno di meno o un anno di più ma odiavi le pellicce anche tu, quando non c’è ancora politica nella tua vita, eppure si porta qualcosa addosso che assomiglia molto agli ideali e alla sfida, quando la religione determina poco, forse una domenica pomeriggio che separa dal gioco, eppure si è lì con le idee più chiare davanti, su cosa è giusto o sbagliato e su come stare esattamente nei propri anni, almeno eravamo così, c’eravamo noi, come eroi, e tutto si poteva sopportare purché ci si potesse vedere. E a te sono venute le mestruazioni prima di me, un pomeriggio che mio padre mi venne a prendere a casa tua, disse che per lui io non ero normale, che non era normale che non mi fossi sviluppata, io ero lì a sentire questa discussione tra parenti che si interrogavano sul mio sviluppo non sui miei sentimenti, non ero normale? Perché? Perché il sangue veniva prima a te? Non eri normale tu? E ci siamo guardate negli occhi, credo, forse lo abbiamo fatto e forse abbiamo risposto con molto più tatto, ci eravamo appena mangiate un panino e non era un fatto di sangue o sviluppo starci vicino e dividerci l’anima a morsi, eppure avevo sentito una ferita più giù, come non fossi accettata dalla mia famiglia, come fossi cresciuta solo tu, e di conseguenza hanno ferita anche te, che di riflesso vivevi la ferita mia, l’amicizia è fatta di questa poesia, che stessi tranquilla perché sviluppo o no per te avevo sempre e comunque un anno di più. E poi il sangue è arrivato, è arrivato e la vita è corsa tutto d’un fiato, a pensarci bene il mio corpo ha avuto una grande idea a rimandare questa odissea, quanto era possibile rimandare. E a sedici anni mi sono innamorata e tu ti sei sentita tradita, un pomeriggio al mare in cui mi sono fidanzata, si diceva così con serietà infinita, e mi ostacolavi e mi tenevi il broncio e io ti trovavo pesante, ti trovavo esagerata, lui ti diceva che eri troppo puntigliosa, lui aveva fatto lo sgambetto alla nostra vita, tu volevi rientrare, terminare quella giornata, ma a sedici anni si ottiene quello che si vuole e io volevo perdermi con lui, volevo crescere, e dopo c’erano state lettere di scuse da parte tua, di comprensione e incomprensione da parte mia, ma non erano le lettere e neppure le scuse, qualcosa si era spezzato, una corsa per la quale non si ha più fiato, e forse non abbiamo capito che non era l’amicizia finita, ma solo una fase di quella vita, che non si poteva rimanere adolescenti per sempre, che gli ormoni avrebbero avuto il sopravvento sui giochi, che cambiavano i ruoli e gli avvenimenti a una velocità difficile da sostenere, e si aveva sempre più sete. E forse ci siamo ferite a vicenda e poi allontanate per convenienza. E poi piano, piano, il tempo e lo spazio si sono messi di mezzo e hanno fatto il resto. Con tacito nostro consenso, il destino o chi gli era vicino  ha tirato le nostre braccia, e questo legame si è strappato come un foglio tirato da parte a parte. E tutti quegli anni caduti così velocemente, come niente. Come quando si cambiano i libri a scuola, e quelli andati sono superati, come un diario finito e dimenticato, la forza di quello che era rispetto a ciò che era stato. Come una lastra infrangibile che con la velocità di una ghigliottina divide due sorelle siamesi attaccate per la schiena, come una stanza insonorizzata, come un muro di Berlino, come una sentenza sbagliata, come una festa che ci esclude, come se stare insieme significasse non crescere più, come fosse necessario, ovvio, lasciarsi dietro tutto. Se non l’avessimo fatto le nostre vite non sarebbero cominciate mai, sai?  E non ci siamo mai più frequentate. Capita. Hai due figli, sei sposata, sono un’artista per questo la famiglia mi ha sempre giustificata ho diritto ad essere strana, non sappiamo nulla di noi, che non corra sulle labbra dei parenti, come una brezza non richiesta che passa dalla finestra, come spifferi sotto la porta, il resto di una storia. Mi hanno detto che tu sei finita in ospedale, ho telefonato, mi sono informata su cosa era accaduto, mi distillavano parole nell’orecchio, goccia a goccia passavano alla gola, e un resoconto monocorde e preciso con pause equidistanti come fermate d’autobus cominciava a viaggiare a ritroso nella mia mente, e l’ultima fermata dove sono scesa c’eri tu.  C’eravamo noi. Ancora ferme ad aspettarci. Chiedo il tuo numero di cellulare, prima di ritirare il piede affondato nelle sabbie mobili del passato, una macchina del tempo che inizialmente e senza sentimento mi fa scorrere davanti ogni sorta di avvenimento, finché torno bambina, e quella bambina si lamenta, forse della tua assenza, perché il mio passato è legato a te. Stai meglio. Hai rischiato grosso. Chiamerò. Ma finisce che ci scriviamo messaggi, forse la voce ora sarebbe troppo, ma digitiamo il necessario per creare il presupposto di un’altra giornata insieme. E come il vento mi sei entrata ancora dentro. Nel frattempo compie cent’anni nostro nonno. Ci sarai al suo compleanno? Penso di no. Vuoi entrare Eloisa, no resto qui, è meglio così. Non capisci, non  è esserci ai compleanni, a Pasqua a Natale,  è che non ti accada nulla di male. E’ che non ti accada mai nulla di male.