domenica 23 giugno 2013

Un momento di verità

Foto-grafica Eloisa Guidarelli

"Oltre" Acrilico su Osb - 2013 Eloisa Guidarelli



Un momento di verità

Se un momento di morte dev’essere un momento di verità pregherei questi sorrisi pieni di paura e falsa premura, queste maschere a cappella dalla sconveniente postura su un letto di morte come su una culla, di uscire di la’, non c’è eredità peggiore della fine dell’amore, se un momento in cui appena distingui le ombre è un momento di verità, vorrei tornare a non conoscere il sapore aspro di questa realtà, lasciate queste giostre di api e orsetti sopra gli occhi innocenti di questi neonati benedetti a cui da subito cominciamo a falsare il girotondo di un soffitto  in movimento, “guarda non fa male… è un andamento regolare di sapori e odori, ti ci puoi abituare, è un vento in senso orario di sorrisi e ammiccamenti, ci vedi, ci senti? E’ anche musicale” E sia… una crescita d’adolescente irregolare a ciondolare senza ragione per un portico lungo e dalla prospettiva sbagliata come questa serata, con il rock più forte nelle orecchie, ali nei talloni, la vita è un salto in alto in senso contrario, avevo ragioni e collezionavo perdoni, ma nessun interesse a bussare alle porte con scuse a testa bassa, tutto passa, anche la maleducazione, l’ostentazione relative a un’età, un mix di adrenalina, di paura, di coraggio e remissione, di oltraggio e educazione quando è già strategia, intanto ero soltanto mia, e avevo Bukowski come confessore,  con l’ultimo coltello arrugginito piantato con  la destrezza di una gara di lancio ma prima soppesato tra le dita, la lama come i piedi di un tuffatore che si molleggia per minuti intensi che sono ore, poi il tuffo e la tua storia sospesa nell’aorta come meraviglia, sono finita dal cielo all’asfalto. La definiscono maturità, quando ti senti un insetto schiacciato di netto mentre ti stavi destreggiando in un volo perfetto, provato ogni giorno, ogni minuto della tua vita, “guarda come volo, guarda scendo in picchiata, posso volare creando anelli intorno al vino come un moscerino”. Seccata. Qualcuno prova anche un po’ schifo perché come insetto non sei un granché, ma io che vedo da quaggiù… “Sarai bello tu!” E le ultime parole, finite sotto le tue ali, spiaccicata in un tavolo d’osteria… “Pensavo d’essere solo mia” Sei stanca di giocare con il tuo entusiasmo a palla quando non rimbalza, stanca di allacciarsi la censura come una cintura, come quotidianità… Non sono guarita con l’età da un malcontento che mi avvolge le ossa come fasce muscolari, e non ho ristretto il campo all’entusiasmo, che mi prende di spalle come una doccia d’acqua gelata nell’estate afosa di un calendario qualunque, sarei disposta a ballare con il secondino di turno nell’ultimo corridoio che conduce all’esatta sentenza di un piano-sequenza che permetterà ai miei occhi, alle mie labbra e ai miei passi, in definitiva di avere la prospettiva esatta dell’evasione, e mentre la gioia mi assale, la vita si assenta per deliberare. E tutto tace. Mi aderisce alla pelle, mi cuce le labbra e mi restituisce colore e fantasia, roba mia, mi spetta di diritto, gioca con questo soffitto di palpabili e soffici emozioni, e per il resto che sia silenzio il tuo momento di lealtà. Nietzsche a proposito della ricerca della verità sosteneva che fondamentalmente il punto è “quanto” siamo in grado di sopportare la verità e “quale” verità, c’è un equilibrio leggero e discreto in queste bugie strette d’assedio nella quotidianità, “oltre” cosa perciò? La verità migliore è quella che si adegua alla comunità, al mostro grasso della società, madre eterna che pensa e detta legge per te, siamo trasportati, siamo amati, vestiti sempre per l’occasione e con una spinta alla schiena ogni mattina ci accordiamo come strumenti musicali e parole in rima, fluiamo. “Hai fatto merenda?” “Non nuotare hai appena mangiato”, “Non ti toccare è peccato”, se vai molto indietro con questa registrazione di vita incasellata come un alveare, dove sei disposto e alternato con il miele, modellato a cera d’api, dove pensavi di sostare ma non puoi scappare, hai un cuccio dato di traverso, uno scappellotto secco e duro perché hai le dita nel naso, non è bello, ne’ educato, “Saluta”… e se non voglio salutare… questo bambino cresce male! Ma se nello spazio di memoria vai improvvisamente avanti e salti trastulli e spazi pubblicitari, ti trovi davanti a una realtà nuova, a quel giorno di prova, in cui starà soltanto a te dire si, dire no e saperti spiegare il perché, viene il giorno in cui una scelta sarà già un fatto di identità, e forse sarai la persona più furba e leggera di questo mondo o magari sarai in quel fumo irrisolto di lacrimogeni e paura, di rabbia come unica cosa sicura, di ideali finiti nelle tue braccia cascanti, striscianti, dove le riserve delle tue ultime energie spazzate via saranno disposte nel tuo corpo a croce, di un cristo moderno ma sempre preso di scherno, perché un ideale è a volte un reato, un sorriso può diventare offensivo, e se tiravi sampietrini con l’entusiasmo di un figlio che sventola in alto un tema giusto e ben scritto, ora sei stato portato da due poliziotti, uno per lato, che sicuri e certi di stipendio, penseranno a correggere il tuo malcontento. Siamo violini, suonati dalla dittatura, dall’ordine e dalla paura, siamo dietro le righe, siamo “Sissignore”, siamo tanti “devo” siamo tanti “prego”, siamo “Vuoto”… siamo confini e filo spinato, siamo passaporti e carte d’identità, siamo permessi concessi, del resto essere schiavi è qualcosa di noto, di costante, di intimo come le mutande, è persino consolante, è deresponsabilizzante, corroborante, conveniente, il rapporto tra schiavo e padrone masochisticamente seducente. Amiamo il nostro cattivo odore e ci piace andare a dormire in lenzuola pulite con i talloni neri di polvere di strade contorte ma piene di storie. E non ci sono impronte digitali su queste vite tradite, non c’è identificazione di chi le ha colpite. E sappiamo incassare pugni e ferite. Siamo camaleonti, cambiamo colore e ci adeguiamo al sapore, abbiamo la vista a 360 gradi si tratta di affari, ma è un concetto di sopravvivenza, di resistenza, cosa c’è di sbagliato a nascondersi tra gli scogli quando non è astuto trattare con un mare forza 8, è al di sotto delle possibilità, nascondiamoci e attendiamo tempi migliori e poi mi arrivano odori rassicuranti di cucina, tutto torna sempre come prima. Il movimento lento delle tue chele che pranzano nella tovaglia apparecchiata di sale è teatrale. La società ingrassa e ti presenta il delitto perfetto, senza un difetto. L’anima non mostra lividi e contusioni, anche quando cova ribellioni, poi i ribelli sono pochi e finiscono male, hanno quel fascino letale che trascina, ma muoiono giovani e tutto rientra nella norma, torna come prima. Allora attendo questo livellamento come alta marea non basta farsi un’idea, bisogna avere vie di fuga necessarie, e intanto pensieri all’arsenico danno espressioni alle mie sopracciglia, i tuoi sentimento yo-yo, salgono e scendono, deglutisco, obbedisco, mi ferisco, striscio tra i muri, nello spazio angusto di due ruote, percepisco l’assenza, la frequenza dei pettegolezzi delle foglie, il soffio del vento per un momento ha dato brividi al mio collo, si è piegato lento come un ramo sottile sotto le zampe leggere di un passero. Mi sono trovata un rifugio sul mare ho diviso cibo con gatti del porto e gabbiani, stavo dentro uno scafo rotondo, avevo le onde a sbattermi contro le orecchie e la culla naturale, acqua che scende che sale, vivevo di quell’odore di marcio  e di pianto che senti al mattino, “aveva piovuto, aveva goduto della giornata senza timone, senza ragione”, le bandierine segnavento degli alberi del porto tintinnavano di continuo all’unisono, il direttore d’orchestra era il vento, il sangue scorreva allo stesso ritmo, ero sola al momento e non avevo neppure esattamente un sesso perché faceva lo stesso, sfogliavo la rabbia di Henry Miller, e finivo col portarmi quell’erotismo aggressivo all’altezza di ombelico, nei passi sciolti e indipendenti di tutti i miei momenti spesi nel tragitto del ricordo tra la città e il porto. Se sentissi le viole del pensiero nero nella gola e capissi il bisogno della parola ancora, o un camion di “non ti scordar di me” diretti al mattatoio, facessero in tempo a imprimerti il colore turchese della meraviglia che mi rimane nelle ciglia, come un collirio vischioso che appanna lo sguardo… avevo diritti, dove adesso ci sono persone in colonne con il capo basso sotto il vapore acqueo che non mi fa vedere chiaro, se sentissi la mia voglia di vita, se sentissi quello che sentono i miei giorni privi di rinuncia, se sentissi il suono dei nomi, se dietro ci vedessi sorrisi di bambini, se potessimo avere anche solo divergenti opinioni al posto di umiliazioni, ho ossa cave come gli uccelli per volare leggera sopra i momenti più belli, tu hai reti per catturare, il cinismo si è appoggiato sul tuo volto, la mancanza di sorpresa, la tua pretesa convinzione lo hanno stravolto, la tua scelta di Sophie… la mia scelta di Sophie… una mano al seno che non allatta, una mano alla ferita intatta, alla beffa… della morte dentro e della tua pelle senza tracce delle guerre, del volo delle cornacchie che devastano nidi in gridi, e angeli stupiti, quanto stupore questo dolore, quanta poesia nell’incredulità, c’era una musica classica alata nella colonna sonora portante della tua vita, ho baciato sulle labbra e sfiorato con la lingua il tabù profondo dell’irrisolto dentro me, era un volatile spoglio del volo colava petrolio, aveva il collo ciondolante e sporco, e mentre il catrame mi avvolgeva lo sguardo avvertivo il ricordo del mare in ritardo, questa morte del Cigno, questo confine puerile tra l’atroce e il sublime, quanto caduto amore dalle dita, quanto disincanto e il futuro sono spaventapasseri… stanno abbarbicati come severi proprietari terrieri impiccati nel vento che sorridono a stento nel tentativo di spaventare fuggitivi di un’altra scaltra verità, attento a dove metti i piedi straniero, straniero nella tua terra, straniero nella tua pelle, straniero nel concetto fresco del sorbetto al limone che si succhia un coglione per la sua digestione, di una filosofia difficile da digerire… che il tuo grande peccato dipende soprattutto da dove sei nato, è questa matrioska del destino del più grande che contiene il più piccino, di questa scala verso l’abisso e il suo fondale ti guarda fisso, striscio a lato della discussione, ho troppa fame per avere un’opinione all’altezza delle tavole rotonde immonde, evito anche per tatto re e regine votati in parlamento all’unanimità del nostro malcontento, diplomati alla scuola della volgarità, con un master nei valori perduti, madri senza braccia, come abbattere questo muro di Berlino, come starti vicino, come abbracciare le spine, come toccare con le dita dei piedi rovine e farne un souvenir , come fare dei pesanti segreti amuleti da portare sulla pelle, mentre si corre, mentre si balla, si fa l’amore, ci si ammala, ci si addormenta, mentre ci si inventa, giorno dopo giorno nell’eterno ritorno di una ricerca di sé  che si smonta da sé, c’è un bisogno sacrosanto di bugie, ci sono foto di famiglia nella posa migliore poi senti l’odore di vite andate a male, di segreti custoditi dove sogni inascoltati sono stati gettati insieme a tante ragioni nelle intenzioni da riciclare sotto l’albero di Natale, da domani ti capirò, da domani cambierò, da domani cerco me stesso, da domani salterò con ballerine rosse di vernice nelle pozzanghere di fango, da domani la mia vita sarà d’oltraggio all’estetica del falso, da domani cambio l’armadio, perché adesso non ti sai gestire un momento? Perché adesso non senti quello che ho dentro, perché non capisci che adesso è tanto tempo, è tutto il tempo più certo che c’è, cosa sai del domani? Di cassetti che apri e ti restituiscono lingue di lavanda, sapore di casa, di lenzuola e biancheria, cosa c’è… che ti crea dipendenza da questa bugia, non sei neanche mai tua, sei un innesto, ben riuscito… sei una capacità di memoria che contiene una storia… Cosa sai delle immagini alate che come rondini a pelo d’acqua mi invadono la mente in sorrisi di festa. D’amore non si muore, d’amore non c’è umiliazione, d’amore non c’è senso di colpa, d’amore non ci sono scuse… Perciò se siamo tutte figlie di favole sbagliate e narrativa d’eroine che ci vuole vicine al sacrificio per amore, vorrei che oggi Ofelia alzasse il capo e dicesse “Non morirò d’amore per te perché sono innamorata di me”, vorrei che Desdemona anzitutto avesse realmente tradito e che Otello da uomo avesse capito… Vorrei che Romeo e Giulietta si fossero scelti un’altra eternità… Vorrei che la caccia alle streghe fosse distante, che non bastasse un dito qualunque, un inquisitore nel mucchio a manipolare il destino, a glorificare l’assassino,  ma soprattutto non vorrei occhi di cerbiatto dietro il fucile, perché quello stupore un attimo prima di morire… mi uccide.