lunedì 11 febbraio 2013

Non posso più chiudere un occhio.


Ipazia - Acrilico su faesite - 2013


Foto Eloisa Guidarelli

Non posso più chiudere un occhio.


“Mi difenderai”
“Certo”
“Anche da te?”
“Non fare la scema”

“Posso fidarmi di te?”
“Si”

Bombe, parole cadono dall’alto e bucano l’asfalto di paure premature, chiusure, la pelle si fa autostrada bollente, il tuo cuore impermeabile, la mia veduta dell’universo amore, come di una Ipazia a cui hanno tolto la vista, e poi la mia rabbia nell’arte e la mia scomodità di vedute per onestà, gettata sempre fuori luogo, ho precipitato le labbra nel latte bianco e i tuoi occhi mi rimbalzavano accanto e tutt’attorno, al seno, alla schiena, all’ombelico, alla pancia, che danza di pianeti inopportuni, sono entrata armata nei sogni a fatica, tra le dita, sotto il cuscino, uno spray al peperoncino.
Ho forme di proteste parallele, oblique al piacere, ho tele da dipingere per sopravvivere che non mi danno tregua, e poi è più forte di me e di te, il taglio deciso, l’ironia nel sorriso, la sfida esistente già nel gesto elegante, “prego” ho valigie stipate di vento, attento, è tutto troppo pesante per un viaggio inesistente per questo urgente, pago con moneta internazionale, quella che fa più male, pago con l’assenza di ideali, asserisco con l’assenza di diritto, deglutisco, ti raggiungo presto,
protesto del mio passo lento e pesante, di un gesto esitante. La neve ha coperto di bianco una rivoluzione ferita, la vedo riempirsi di ghiaccio, le tocco il sangue caldo tra le dita, ci sono attorno seducenti sentinelle, come spose di neve, hanno tutte occhi neri senza pupille, le viole crescono nei posti più impensati, come un pensiero selvatico nascono in disparte, hanno il sapore dell’arte. Intanto è morta la rivoluzione, l’ha fatto senza cambiare opinione, l’ha fatto come un atto di tempo privo di senso.
Le ho baciato le labbra sotto una zanzariera a salice piangente, alla rivoluzione morta ho baciato le labbra semiaperte sfiorandole il ventre.
Acqua, ho sete, qui manca l’aria e la luce, anche se è così che ci si riproduce, osservo una coccinella nella stagione sbagliata, il volo di uno scarabeo delle rose, mi sembra che quel pettirosso saltelli con il mio sangue sotto le zampe e lasci piccole orme rosse, hanno la forma di foglie cadute, teste rovesciate e scoperte le nuche, hanno grosse vene le foglie, se le accarezzo sfioro l’idea della tua mano, amo tutte le stagioni, sono opinioni di tempo che dissentono come noi.
Noi
E non so dove tocca questa parola, dov’è cominciata, dove la sento ora, Noi
E non so dove tocca questa parola, dov’è cominciata, dove la sento ora, c’è uno stetoscopio invasivo e freddo mi passa il torace, il mio torace è una finestra di vetri e ferro a delimitare quadrati di freddo, senti il battito della pioggia? senti il battito più lieve e costante di quando si trasforma in neve? Solo il presente ha impronte digitali, al futuro hanno reciso le ali, e tu sei un presente dilatato che non diventa passato.
Ho anfibi pesanti, freddo ai piedi, pensieri a raccolta sotto una luna rossa, che mi hai portato a vedere, ho piegato il ricordo, l’ho infilato nel taschino sopra il seno, un momento e adesso cosa sento.
Dentro
Non credo al tuo romanticismo a dove te lo sei dipinto…
Ho inciampato sul tuo disappunto, ho teso le mani alla terra e prima al vento, sento i palmi bruciare, e quando alzo il volto dalla caduta vedo un angelo con il broncio, inginocchiato a terra, un corpo marmoreo, chiuso, lasciato andare, un cappello per l’elemosina, il sale sopra la neve per non scivolare, c’è un putto su un soffitto alto, dipinto per sbaglio, ha il sesso di una bambina, una freccia spezzata in equilibrio precario tra le dita, il mio spirito libero è sospeso sul soffitto a volta della tua risata.
E basta chiudere un occhio, non sono mai stata una Penelope lo so, e non so cosa farmene di uno stronzo Ulisse ingordo di sale e di arte, avvolto di egoismi e ripetutamente fregato dalle parole buttate oscene di tutte le sirene. Dov’eri quando inzuppavo la luna nel cuore, e avevo biscotti - ostie per confessare i miei perché, dov’eri quando bestemmiavo della mia comunione con te, o avevo le caviglie inghiottite nell’acqua e la testa aveva un peso di piombo, dov’eri tu e l’idea di noi galleggiava attaccata a una lenza, le tue promesse quando abboccavo scendevano giù e mi rimbalzavano accanto veloci, tu e quel coro di voci, tu che sai come sparire, come suggerire, come mentire, come bleffare, come ascoltare. Non mi basti più, ho desideri soldati che marciano insieme, ho una guerriglia in atto nel bosco fitto di tutte le mie pene, e nessuno che ci trattiene.
Sono andata alla lavagna con il peso di ottobre, con l’autunno sulle labbra e l’inverno alle parole, sono andata in punizione avevo fragole alle labbra e capezzoli ciliege sotto una camicia bianca, avevo trasparenze e idee di liquirizia, nel sorriso cinico si stirava la pigrizia, di spiegarti ancora, per l’ennesima volta cosa c’è che non va in questa storia.
Stolta, ragazza distratta, poi donna pazza, a giurare circa un’idea su una bibbia di cemento a cui non credo, a stento, dentro mi passa il vento, e le tue spalle girate, si chiama in eterno da questo tuo inferno, e gli occhi secchi, si toccano i pollici dei piedi, sento la polvere sotto  i talloni, sento tutto quello che tu non vedi quando mi abbandoni. Non si girerà, non tornerà, non mi penserà.
Sento l’amore fuggire via da sotto il palmo della mia mano, piccoli branchi di pesci argentati e minuti, sento la fantasia tornare, riempirmi i minuti, sento l’amo staccarsi dalle mie labbra, le branchie annaspare e tradurti in aria, scivolo dalla tua mano e fuggo lontano.
Il mare è solo mio. Quando balbetto addio, sono bracciate ampie, il mio corpo galleggia, forse non sei mai esistito, forse oggi ti ho tradito.
Avevo opinioni le hai barattate con umiliazioni, avevo sorrisi barattati per te con silenzi condivisi, avevo mani per dipingere barattate sul tuo petto in cambio di affetto, avevo occhi larghi per sognare barattati con il sale, avevo ideali nudi e senza tempo barattati per un tuo momento, avevo ali anche se non le vedevo, tu le hai barattate per quello che non ero.
Quindi pensa che momento quando tornerai fiero di te stesso, ti si gonfieranno i peli sul petto, e troverai la cinica perfezione girata di schiena, al posto di un sorriso dolce una parola oscena, al posto di una purezza inventata su di me apposta per te, apposta per te, una donna incazzata non più disposta a migliorarti la giornata, neppure ad ascoltarti un granché, hai tirato la corda, la vita ci ho avvolta, hai tirato un calcio alla schiena, i piedi hanno sfiorato la sedia, se c’era anche amore è rimasto impiccato a dondolarsi per ore.
Una Rossana innamorata di parole, di un amore visto in prospettiva una Giulietta decapitava i sogni caduti dal balcone, di un sentimento privato si è detto di tutto, mancanza di rispetto, condanna di gruppo, è colpa della tua pazzia, è colpa della tua intelligenza, è colpa della tua arte, è causa della tua assenza, è colpa del tuo corpo, è colpa delle tue idee, poveretto quanto ti pesa quel sesso, quanto costa avere lo scettro e decidere della libertà e misurarti con l’autorità, e incollarti dentro fino in fondo quello sguardo profondo della sua onestà. Mani alla testa, dita alla fronte, la stanchezza di tutte le donne del mondo, del marcio, del fondo che ritorna a galla e di questa orrenda tragica farsa, di madri, di vite, di donne tradite, all’ombra perenne del conquistatore, visi pianeti a guardarsi i piedi raccolti, i capelli come le alghe marine, ci si reprime, ci si morde le labbra, si affonda di nuca si ritorna a galla. E’ con questa protesta alla testa, è con questa stanchezza di base, è con la mia malinconia, è con l’odore della mia pelle, con i pennelli e con la scrittura, con la paura allacciata alle caviglie, con le tue dita che non mi raggiungono più, che ora sono dove sei tu, dalla parte di chi non ama e non sente, dalla parte di chi tiene il potere e non mi stupisco oggi del fatto che so che di questo non posso godere, a me serve tutta l’incertezza, la paura, il disagio, l’amarezza, a me serve odiare, amare, sputtanarmi e risalire, ondeggiare sull’orlo del precipizio, persino il giudizio da boicottare, non mi ha mai riguardato il tuo angolo di sicurezza, il tuo bunker comodo e buio, il tuo prenderti per il culo, ho bisogno di stare di faccia alla vita, di prendermela tutta come se stessi a prua e si trattasse di acqua e di sale quando fa bene, quando sto male, come uno schiaffo a cinque dita, non so tracciare la tua linea di confine, non mi interessa quello che conviene e so che tra noi sei tu che sopravvivi e sono io quella a morire, ma io mi renderò conto della morte che arriva perché avrò vissuto la vita, forse tu sarai nei guai quando non le distinguerai, non posso più chiudere un occhio, masticarmi le parole  e tenere lo sguardo basso, per non scuoterti troppo, perché così non te la fai addosso, non posso più proteggerti adesso, la mia arte mi sputa in faccia, la mia stessa vita mi minaccia, mi strattona “sei di un’altra razza!”, ho bisogno della tua assenza per sentire la mia presenza, è un braccio di ferro interiore, un sorriso pubblico di circostanza, è come essere divorati lentamente da una pianta grassa, qualcosa che assomiglia alla danza, una morte senza rumore, che nessuno vede, che nessuno teme, che ha il colore acceso di un fiore. Una morte che profuma. Una morte elegante. Una morte accondiscendente e soprattutto in mezzo a tante, una morte deduttiva, una morte dovuta, una morte muta, una strage distante, una morte servita per cena, una morte per ringraziare, una morte di passaggio, una vita laterale, una vita nascosta dietro una tenda, una vita alla finestra, una vita suggerita, una vita che si presta, una vita mi passi il sale, una vita di come stai, una vita di bugie, una vita in stallo, una vita di malinconie, una vita in ritardo, una vita sospesa, una vita concessa, una vita leggera, una vita timida, una vita repressa, una vita che vita non è,  morti avvenute come un sasso nell’acqua, si richiude la superficie e poi ci si adatta, alle ferite, al tempo che passa.
Basta, fatti dimenticare, prenditi tutta la vita che resta, prenditela per viaggiare, ma lasciami sola, mi interessa sapere come si sta senza avere sopra la pelle le tue bugie filtrate come verità, ho bisogno di annusarmi, di entrarmi dentro e chiuderti la porta in faccia, di sapere di cosa so ora che non sono predisposta alla tua farsa, che sono libera da convenienze, che mi sono spogliata di cerimonie, che osservo i miei piedi neri e sporchi di una che è corsa altrove, lontana dall’ipocrisia, dalla vigliaccheria,  adesso che osservo i miei talloni scorticati di fresco, evasa finalmente da tutto quello che era importante, da tutto quello che non hai detto.
E voglio addormentarmi così, con la consapevolezza che non sei qui, che non sei di sentinella a questa vita che per ingordigia ti sei mangiato senza conoscere o avvertire neppure il sapore di tutto quello che hai rovinato.
E voglio cadere così sotto la tua sommaria esecuzione, sapere che il sangue che ho sulle labbra ha il sapore netto della ragione, e voglio lasciarti così senza più nulla da dire, oltre questo percorso interiore, oltre questa marea a salire, potrebbe essere un sorriso, potrebbe essere una stretta di mano, potrebbe essere l’acqua versata nel bicchiere, potrebbe essere un buongiorno sulla porta, una chiave nella serratura, l’automatismo nel divenire, una storia d’amore se è stato amore che finisce nel gesto consueto e banale della dovuta educazione. Come il nome di un’altra sulla tua bocca
 per errore.



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