lunedì 8 ottobre 2012

"Pietà"






Di una “Pietà” mai dipinta, ecco dove mi sono spinta, di un sogno ateo in punta di piedi a suggerire quello che non vedi, della morte di un uomo normale, chiamato Dio in un giorno essenziale, essenziale da consegnare alla storia e capro espiatorio per condurre un filo spinato di moralità che ferisce il corpo di ogni età, di ogni corsa contro il proibito, di ogni sospiro a un futuro negato, e mani impigliate ai confini come rondini nere lasciate a morire, dimmi di questo volo caduto, dimmi a cosa abbiamo creduto. E intanto sono qui con un dolore sordo, che cambia colore, che cambia giorno, che nelle sfumature più dure tradisce la rabbia, l’odio, il disprezzo, il cinico sguardo che io stessa rifletto nel restare viva senza te accanto. Tutto il colore  che ho pianto perchè ogni quadro nasce da te. E’ di questa morte che voglio parlare, di questa morte di chi rimane, di questa ingenua, blasfema Pietà. Di questa Pietà come una visione in negativo, del bianco e del nero, del falso e del vero, della traduzione in atto nel tuo cuore, della transvalutazione di ogni dolore, dell’odore del sangue, delle ginocchia alla bocca, della solitudine non cercata, come di un arto tagliato senza preavviso, una ghigliottina sul cuore dove il male è in ritardo e si guarda con orrore la mancanza di un arto come fosse di un altro, come fosse di un altro. Come te la spiego, come te la spiego la morte di chi resta, questa lenta agonia, una morte proiettata al futuro, e poi la metamorfosi per sopportare, per rimanere in piedi e per non cambiare, chi la tiene la testa a chi resta, sopra quali ginocchia si può consolare chi rimane, sospeso, tenuto, come ora tengo pochi pennelli tra le dita, come tu hai la mia vita. Lutto, un tonfo, nel profondo, un sasso lanciato in un pozzo nessun rumore di ritorno, il desiderio represso e le labbra cerniere, il sangue scivola dalla tua corona di spine, sul volto di chi rimane, e quel passaggio della paura, staffetta benedetta, gettata di fretta, a te la gara di questa vita, io qui mi fermo, e tu finisci la corsa, ingorda strada da percorrere ampia, infinita, e manca il fiato, si perde sangue da una ferita che nessuno vede, e intanto i sentimenti diventano anemici, rallenti, nessuno a cui passare questo dolore, a cui in fondo interessi la tua corsa, è un freddo che avvolge te soltanto quando il resto del mondo soffre il caldo, è il catrame sui sandali trasparenti nei piedi di un bambino, qualcosa che ha il diritto di sporcare anche il più ingenuo mare. Nuvole nere sui giochi più belli, piedi vicini e nudi fratelli, denti da latte scoperti in risate di amici , dove il patto più solenne era dividere poche ore di giochi presi seriamente, molto più di tutta la gente, di castelli di sabbia che erano saggezza per questo nascevano e morivano in fretta, bastava il tempo di guardare, e le nostre mani stringevano sabbia, e adesso c’è rimasta la rabbia. E in un giorno d’Agosto lancio in aria la tua felicità, testa o croce, e ti rubo la vita e ti spezzo la voce, ed è un onda immensa,  nera come la notte, la sua rabbia finisce in schiuma, è una Salomè dagli occhi d’argento e l’ultimo velo è l’odio che sento, dentro. E’ un mare che è un lastricato freddo, una notte spessa, un’aria come una mousse di cioccolato che non si respira, che mi ha disgustato e se le stelle sono canditi o diamanti o estetica pura, ogni notte è tagliata più dura, mi sembra di dormire su lastre di vetri rotti da tutte le grida dei singhiozzi repressi, di occhi bassi a confessare la tua assenza alla più neutra presenza di ogni dolore, il dolore che rimbalza nelle facce di pietra, quante volte, quante volte si muore. Persino gli amici o presunti tali, ascoltano parole che ti escono con difficoltà. Ti sembra che per il lutto non ci sia un’ età a renderti più forte, nessuna via di fuga, nessuna scorciatoia, nessuna amnesia totale, vorresti la pazzia, escono parole scelte, scelte lentamente, persino scelte male, posate a fatica, perché ogni parola per spiegare come si muore è un taglio trasversale sulle labbra e sanno di ferro, e gli altri sono altri e non c’è contenitore … non vedono, non sentono chi muore, è tempo sprecato, è una vita parallela in uno specchio gettato nel caso, sono pupille assenti e tu hai spilli puntati nel cuore, il tuo cuore che soffre è un riccio che si muove veloce di notte per mangiare abbastanza, per potere andare in letargo e sperare che l’inverno sia lungo. E il peggio che ti può capitare è il dolore confessato quando lo avresti dovuto censurare, perché in risposta hai avuto una pacca sulla spalla, che per te erano ossa, una parola di circostanza che ti ha fatto sentire in colpa, a chi ho offerto il mio dolore… E si muore di umiliazione, di disagio, si muore anche per essere nel posto sbagliato, il tuo corpo così stretto al mio, che diventa termine di conversazione, chi si è permesso un’ opinione? C’era una danza, era tutta nostra, una favola unica mai tramandata, mai cambiata e ne’ sporcata di bocca in  bocca e mai censurata, c’era una vita, una vita nostra, fatta di piccole, pure cose, che nessuno doveva vedere con occhi sguainati come terribili spade, che nessuno doveva bisbigliare con fiato cattivo e poterle sporcare con la sua vita superficiale, perché c’era un amore, un amore così profondo che era un mondo a parte, come ora sei nell’arte e dentro me. C’era un sorriso di gioia distillata dove lasciavi le orme del tuo passo felino e come essere umano mi inchino a tanta grazia regalata, leggera e delicata come una libellula che sfiora l’acqua, ma all’improvviso è stata mattanza e ho visto il mio corpo galleggiare di schiena, di pancia e di profilo nella tua assenza che era un mare di sangue, nuotare piena di rabbia spostare le altre “me” che restavano a galla, non accettare di fondo la morte e di conseguenza neppure la vita, scolara bocciata in filosofia, un Due per il comportamento, lanciato quando ero di spalle, una critica finita tra le scapole come una palla di carta, che neppure si raccoglie a malapena si guarda, lasciata la lezione per il mio malcontento, sentirmi una ribelle senza la pelle oltre che l’armatura, aderire alla mia paura, e dopo quello che avevo temuto come l’incubo peggiore che si è avverato sotto i miei occhi, e ho inciampato sul nostro amore, sono volata a una distanza infinita, sei sempre sotto le mie dita, se questo fosse un mondo sincero, dovrei andare con la faccia rivolta al sole uccidere i tuoi assassini senz’armi ma con il mio stesso dolore, farli contorcere per ore, fino a vederli traboccare della mancanza che fa più male, allora invocherebbero la stessa mia Pietà, e la morte avrebbe un’altra realtà, sarebbe anche per loro il peso alla testa di una corona piena di sangue, di tutto il sangue di chi resta, dell’ingiustizia e dell’impotenza, del destino senza preavviso, della cruda e sola verità, siamo esche galleggianti sul mare… prima o poi qualcuno sparisce e anche se gli altri restano a galleggiare non sono da meno le loro ferite. Cos’è successo da quand’ero tra i banchi con i miei 13 anni che sembravano così imponenti, con un seno appena accennato, senza trucco, con il viso imbronciato, quante persone ho incontrato, quanti amori che un cuore come può sopportare! Solo dimenticando, solo avanzando, solo diffidando, solo volendo, cercando,  e ora che non importa neppure una firma falsa per giustificare questa mia assenza, per fare fuga dal mondo, dalle regole e dall’educazione, ora che manca l’ora di religione per copiare, la vita mi ha dato una Pietà diversa da capire.