sabato 31 marzo 2012

Altrimenti...

Altrimenti….

Che tutti abbiamo un tribunale minore e ci andiamo con il vestito peggiore, con le labbra tra i denti, gli occhi bassi e pensieri immensi, passi distratti, catene alle caviglie pesanti, che tutti abbiamo dormito poco, sudati i capelli alla base del collo, bocche socchiuse e meravigliate di tutte quelle favole del sonno tradite.
C’è in ogni donna una Giovanna D’Arco, una Gerda Taro, una Tina Modotti, una Maria Maddalena, una Frida Kahlo una George Sand, ma anche una palestinese senza nome lapidata come adultera, anche una clandestina quasi viva dopo una traversata in gommone, c’è in ogni donna una lettera scarlatta portata su una tetta con aria di sfida, e per ogni donna che muore un’altra ne arriva, ci sono tante donne che non ci sono più, dentro i tuoi occhi bassi, proprio dove guardi tu. Ti alzano il mento piano, sussurrano che ti amano e che non puoi tradirle ora. Ancora. Perciò… sono scontenta, amareggiata, umiliata, tradita, bleffata e sai che c’è… non mi va di essere comoda e neppure educata e forse neppure amata un granchè. E poi tutte le loro pupille alzate e quelle iridi sconsolate ma piene di rabbia e dignità… tempo fa, Ora. Che non c’è più lavoro. Che non c’è più stipendio. Che persino lo stupro non è certo il primo problema del mondo: ora che affondo. Ora che le clandestine muoiono sempre. Ora che togliamo i figli alle madri che non hanno un lavoro e li lasciamo nelle famiglie dove li violentano ma magari possono avere un albero di Natale, la famiglia tace, la preghiera porta pace e i peccati sono concessi, i perdoni riflessi, la mano papale sulla testa ti fa deglutire una vita onesta che anche il raggiro, un senso lascivo, il sapore di un ostia, la cristianità come ogni religiosità si diffonde, i muri si stringono e prendono le esatte proporzioni e tu non riesci a girare i talloni.Ora che una parabola gettata da Dio in un telefono senzafili di tuniche nere per strade solitarie e scoscese, ti scorre tra i seni, lava la bocca e il sangue. Cresci benedetta, senza neppure saperlo, ti trovi un credo addosso ancora prima di capirlo. Ancora, Ora. La paura del colore della tua pelle è più grande. Ora, ancora. Profilo, ¾ e frontale, la tua identità è schiacciata in un network, le tue labbra e il tuo seno un fatto mondiale, e si sale. Senti questo ascensore che sale è come un missile verso la luna, ti può portare ai piani più alti se sorridi, se giochi d’astuzia e non sbagli. Ora e Ancora. Te lo allungo un permesso di soggiorno, sei una bella donna nera, me la dai e io ti metto il timbro e ci leviamo questo ingombro. Come gli slip caduti sui tuoi piedi, cerchi sui pianeti, sollevi i talloni, te ne liberi. E si sentiva bello mentre agitava il manganello. Ora e Ancora, ti ammazzo perché sei gay, perché la tua libertà offende la mia autorità. Ti ammazzo perché manifesti, ti ammazzo per la tua sazietà. Ora e ancora, ti pago meno perché c’hai la gonna, le mestruazioni e sei donna. Ora, ancora, firmami queste dimissioni in bianco come il latte, che se rimani gravida ti posso sbattere fuori e tu da domani non lavori. Ora e ancora, ti ammazzo di giorno e di  notte, lo faccio con psicologia e botte, ti faccio tremare di paura, ti faccio sentire insicura, ti faccio sentire impotente, sola e demente, ti faccio ringraziare di avere questa mia bocca da baciare. Ora e ancora, uccidono donne ogni minuto ma non è certo il problema più grave che questo mondo ha avuto. Ora e Ancora, ti faccio sentire la colpa di ogni tuo pensiero pulito, di ogni sogno azzardato, Ora e ancora, e non è mai stato reato, e le lacrime salivano salivano sempre, come una bottiglia versata all’infinito sopra un cuore che trabocca già ferito, e la rabbia era un un bolo di saliva, come un nodo alla cravatta stretto, come un cappio prima del salto finale, e le mani, le mani stringevano sudore in pugni. E verrà da una bocca piccola e minuta, e verrà da una donna uccisa e umiliata, e verrà da piccole mani offese, e verrà da ogni donna inarcata la schiena, scoccata una freccia al suo tribunale peggiore, e non sarà amore, l’imputata sarà il suo giudice migliore. E urleremo in un coro possente di donne che c’erano e di donne presenti, di donne vive e di donne morte, di quelle tutte a testa bassa, spinte come dalla madre terra, spinte dalla vita alla guerra, spinte alla schiena dalle martiri del passato che ci ricorderanno di un sogno perduto, di un diritto taciuto, di un giorno venduto al migliore offerente, chi non parla, non vede, e non sente. E non basterà un’autorità, non basterà una ragione sbagliata venduta a religione, a dogma e giudizio, non ci finiremo ancora in questo precipizio e voi che le guerre le cominciate e voi che sulle guerre vi adagiate e voi che sulla pelle strappata alle donne avete strumentalizzato i diritti e comandato le voglie, voi che non avete un’idea di cosa sia una vera marea, voi che non conoscete la sofferenza, quella data dalla condizione e dalla presenza, voi che non conoscete la paura di girare soli la notte, voi che non chinate il capo d’istinto pensando che una mano aperta siano solo botte, voi che non conoscete la strategia per salvarsi la pelle, le volte che ci ha salvato farci belle, essere scaltre e dire bugie. E quasi per riflesso la tua attenzione, uno sbadiglio allo specchio, un fremito, una lasciata occasione, stringo le ginocchia al petto, gambe mie quanto avete corso lontano dalle ipocrisie. “Osteria numero nove i soldati fan le prove, le fanno contro il muro per vedere chi l’ha più duro, l’ha più duro il capitano che lo tiene sempre in mano…”
Chi ha il potere e ne abusa… chi ha il potere e lo usa, chi ha il potere e lo annusa, l’acquolina alla bocca, sotto a chi tocca, ti do la libertà tu cosa mi dai, smetto di picchiarti se tu mi obbedirai, ti darò un diploma, un permesso, un lavoro, una carriera, se tu… In cambio tu…Ti darò una carezza se tu sarai il figlio che voglio, ti darò una certezza se di te mi lascerai un buon ricordo, ti darò un’identita se mi apparterrà ogni tua età. Pensavo che per avere un lavoro bastasse “lavorare”, ma a volte mi hanno proposto contratti in nero, male pagati per lavorare! Pensavo che in una manifestazione io potessi camminare, gridare slogan, nel rispetto, ma un poliziotto mi ha fatto secco, pensavo di essere libera di amare e di dire basta, ma quando l’ho fatto non ho visto più l’alba, pensavo che siccome nel mio paese morivo di fame qui mi avrebbero aiutato, ma dopo avere dato oltre 1000 euro da quel viaggio io non sono sbarcato, pensavo che l’umanità fosse solidarietà e speranza, ma ho trovato guerra, egoismo e arroganza, pensavo nel 2012 che essere gay fosse un fatto normale, ma mi hanno dato una lezione speciale, pensavo di potere girare sola la sera ma sono stata violentata da un gruppo, lo stupro di gruppo non è un reato, al limite un’offesa, pensavo che fosse importante il rispetto del pianeta ma a nessuno gli frega una sega, pensavo fosse bello amare, anche indistintamente, ma devi essere coerente e amare solo se ti può servire all’occasione, se c’è un tornaconto, se ha una funzione… pensavo di lavorare e potere crescere un bambino, ma mi hanno spiegato che chi lavora non può avere un bambino, perché possono toglierti il lavoro o farti un mobbing talmente pesante che il lavoro lo lasci tu, e non ci torni più, e ti senti in colpa, tu, non loro, perché hai perso il lavoro… Beh a questo punto pensavo che la gente dicesse basta, che si riempisse davvero una piazza, come una birra fino all’orlo del bicchiere e ubriacarmi della schiuma da bere, ma non e successo. Neanche questo. Però si sono suicidati in tanti in questa solitudine, in questo dolore ripartito in personali celle, se sapessimo stringerci per mano, sentire il dolore dell’altro. Dentro. Forse non sarebbe accaduto, forse qualcuno si sarebbe salvato, ma ci sono riusciti a farci viaggiare soli con i nostri incubi peggiori, a farci sentire gli unici a ad avere problemi, perché gli altri, gli altri sono sereni, e perciò se tu non hai un lavoro, non è che non si trova, sei tu che non sei capace, sei tu che non sei all’altezza, e ci cresce una vergogna dentro, lenta come una malattia, si mangia il tuo sorriso, si mangia la luce nel tuo sguardo, si mangia le tue sere fuori, perché non hai soldi per uscire e l’isolamento sale, magari vorresti gli amici più vicino, ma è colpa tua, hai mai detto chiaramente che stai male? Poi la gente ha da fare. La merda sale, un fatto personale, ma tu sorridi a stento, ti schernisci, ti chiedono come va, tu pensi alla salute e che in fondo ripetere sempre la stessa cosa sul lavoro, sulla disoccupazione e sentire da loro sempre la stessa risposta, “è la crisi, è un brutto periodo”, peggio ancora se ti danno un consiglio, e pur di non sentire le solite parole gettate per cordialità, eviti di dire, dici va bene, dici: “va’”… Vaffanculo! Ho un male dentro immenso, a stento respiro, come cazzo mi devo sentire? Senza futuro, senza avvenire? Con gli auguri di S. Valentino, con gli auguri di Natale, la Pasqua, il Carnevale, l’angoscia  sale, l’angoscia fa male, deglutisci sangue, deglutisci rabbia, ma il peggio è quando deglutisci indifferenza e ti sei perso l’anima. Non facciamolo, vi prego non facciamolo. Non facciamolo cazzo, non facciamolo! Riprendiamoci i nostri diritti, ora e ancora, ogni volta che ora e sempre ci riempiranno del loro niente. Altrimenti cosa siamo e cosa diventiamo… Altrimenti.

 Pipistrello 33 – Ma com’è successo che questi qui …li hanno ridotti tutti così?
Anemone71 – Ma che ne so non era tempo di rivoluzioni, poi se li sono giocati, nessuna cultura, nessun ideale, premi  se ti comportavi bene, punizioni se ti comportavi male, soggiogati dalla vanità, dalla superficialità, le solite tattiche di ogni dittatura… oltre a un controllo capillare.
Pipistrello 33 – Che vuoi dire
Anemone71 – Social Network, blog, siti, cellulari, tutti schedati e supervisionati è normale e in più soddisfatti, compiaciuti, narcisisticamente cibati, come io e te anche…
Pipistrello33 – Sai che non ce la farei senza?
Anemone71  - Hanno trovato le password, le password per il nostro cervello
Pipistrello33 – Chiudiamo tutto, tutti!
Anemone71 – Vuoi diventare un social terrorista?
Pipistrello33 – Non possiamo più tornare indietro?
Anemone71 – E’ il progresso.
Pipistrello33 – Va bene io da domani smetto, posso, posso quando voglio…Hai visto la mia nuova foto-profilo, lo sai che sono arrivato a 5000 amici?
Anemone71 – Mi manca un po’ il sesso
Pipistrello33- A me quello virtuale mi arrapa un casino, poi dopo libero come prima…
Anemone71- Senza contare che quando non va lo elimini. Cioè la gente che non va la elimini… e non è reato!
Pipistrello33 - Piuttosto altro che piazza e ideali e il tempo che fu, picchiarsi per nulla…morire per cosa, domani esce il nuovo Iphone la’ all’apertura ci saranno casini, la polizia davvero secondo me farà fuori qualcuno, del resto si deve, ne vale la pena, domani tutti la’ e vedrai che l’unione fa la forza!

Già la loro.






lunedì 26 marzo 2012

E adesso che...


E adesso che…

L’umiliazione, la ricerca del lavoro più umile, poi la disponibilità, la sincerità, l’onestà e di contro il sospetto, e il più furbo, e il “ti fotto oggi se posso che domani è un altro giorno”, e lo spolpamento fino alle ossa. Divorano, e lo chiamano banchetto, i tuoi buoni propositi, succhiano ossicini unti delle tue brave intenzioni e ti rendi conto tardi che la tua anima s’è persa incastrata tra i loro denti. Sono licenziata sempre, ancora, prima di cominciare. Un qualsiasi lavoro. Mi si da’, tanto per… sfiducia a prescindere, i lavori mi scivolano addosso come preservativi lubrificati e stretti, altezza palle, da far diventare viola e scordare ogni orgasmo. Forse devo scrivere un romanzo decente, fare quadri eccellenti, visto che i lavori prendono distanza da me, e una mano rossa e callosa con le unghie lunghe, mi si conficca nel collo, mi trascina per i capelli e mi sbatte la faccia dentro questo foglio o dentro questa tela, o a spiare le quinte di un palcoscenico.
Quando sono diventata puttana, e neppure per soldi ma per fame,
quando puttana ho smesso di dipingere aspirando di servire ai tavoli per pagarmi un affitto in nero, là dove non arrivava l’aiuto nero di mio padre, anche lui nero,
quando sono diventata puttana e mi sono messa a impaginare libri d’altri che prendere ora in mano la penna brucia. Bella penna, l’ho fottuta al ristorante, quando mi hanno dato il “benservito” come cameriera, e io che lo credevo un complimento.
Quando sono diventata puttana, e di conseguenza ho allontanato quasi tutti per essere, meglio, di tutti.
Quando sono diventata così fragile e se lo ero anche prima perché non mi è mai pesato tanto come ora.
Quando ho smesso di desiderare un figlio, perché è meglio vivere per se stessi  e morire anche per se stessi.
Quando ho smesso di implorarti amore, e una saracinesca mi è cascata sulle labbra, di conseguenza pensarti di rado assomiglia a case dietro la nebbia o alla lingua quando si passa e ripassa su un dente scheggiato. Nient’altro.
Quando sono cresciuta indebolendomi, contorcendomi, seducendo e mai che io riesca ad essere, almeno, davvero stronza. Una puttana buona, attenta all’altrui dolore, una puttana che non conta i soldi e si chiede se chi le ha violato il corpo e il cervello almeno ha goduto.
E l’anima è finita a un incrocio, sfrecciano macchine tutte attorno e lei si guarda spaurita con occhi arancio, e io scendo dall’autobus, corro col fiato alla gola, sono in mezzo all’incrocio e faccio per salvare il piccione ferito, lui vola, meglio, si apposta sul cornicione. Potevano investirmi.
Ma la mia anima è lì, è dove c’è paura, è dove c’è qualcuno che non può difendersi, la mia anima è lì, ferita, sofferente, c’era il mio corpo e quello del piccione, ma l’anima era una e io ero lì. Ero lì, all’incrocio dove sfrecciavano le ruote. E quindi aveva senso, aveva senso andare in strada a raccoglierlo, sì, solo un attimo prima l’ho pensato: “è pericoloso”, ma poi ho buttato lo zaino sul marciapiede, lui era già lì, dove era pericoloso. E io sarei sempre rimasta lì anche se non mi fossi mossa. E io sono sempre lì dove è pericoloso.
Forse più pericoloso è perdere questo, che io non perda mai questo, che io possa rimanere fragile, una puttana buona, ma che io possa vedere sempre la mia anima intorno e non soltanto dentro.
Sì, volete le ossa? Sì, volete le guance? E poi le mutande, le labbra, i denti, e le mani e le braccia, coprirmi di sputi intravisti nei vostri sorrisi? Tanto sono altro, sono altro, sono quello che non si vede, non si compra, non si predispone, non si apparecchia, non sono la preghiera per ringraziare del cibo avvelenato, non sono il quotidiano, non sono le rughe sulla faccia di ogni cattiveria fatta a farvi invecchiare male, non sono labbra siliconate e fretta di andare, perché non sono mai io a selezionare personale, non sono mai io a giudicare, sono quella che viene giudicata, sono sempre quella inesperta, sono sempre quella sospesa a un filo che ondeggia e di altri è sempre l’ultima parola, sulla mia vita, sulla mia gioia, paura. Sono stanca di fluttuare nei gironi dell’inferno con buone intenzioni, curiosità a palate, ali ai piedi e scarso ossigeno nei polmoni. Sono stanca di fare la prova dell’olio cuore sulla merda oltre la staccionata e scivolarci fino alle ginocchia, con uno stronzo che mi dice il modo per tenermi in forma. Sono stanca di amori in scatola, frattaglie simmenthal, sentimenti sorridenti al macello e insalate di promesse uscite dall’orto biologico nella scatola cranica del tuo cervello. Ma le tue quando mai sono state parole? Io ricordo ravanelli, cipolle, bietole, cetrioli…e acqua piovana di un Dio ingiusto che piscia a pioggia sull’idea vaga di romanticismo.

E ADESSO CHE UN AMORE NON LO VOGLIO PIU’,
E ADESSO CHE UN FIGLIO NON LO VOGLIO PIU’,
E ADESSO CHE ALLE PROMESSE NON CREDO PIU’,
E ADESSO CHE POTREMMO, LEGGERI COME PALLONCINI CHE SCOREGGIANO IMPAZZITI, VERSO UN CIELO A OSTACOLI, COLPIRCI, SFIORARCI, BALLARE UN TANGO DI CATTIVE INTENZIONI E DI SPASSO SOLTANTO, PENSA ADESSO, NON MI FREGA PIU’ UN CAZZO.

lunedì 12 marzo 2012

Dico a te...



Particolare- Foto grafica Andrea Moretti

Dico a te…


Con l’orsa maggiore nella milza, un cielo stellato sulla tua meraviglia, scarpe da tennis a respirare la nebbia, e i dubbi mi entravano nelle narici, la mia pelle ha il sapore di quello che dici, aprire l’armadio in una giornata di merda come gli scuri quando la porta è già aperta, ed essere investita con un colpo netto, di taglio, da ogni sbaglio, da ogni tuo eccesso, ma va bene com’è, va bene così, va bene perché qui si tratta di me, che ogni vestito fa bene, che ogni vestito fa male, che oggi mi accontento di questo come dell’olio col pane. E’ catrame sotto i sandali trasparenti, giochi di infanzia distanti, echi portati da venti incoerenti, lo senti il mare all’orecchio? E’ insinuante, seducente, coerente, lungimirante come quello che non ho detto. Ho un cassetto pieno di vetri rotti, consumati dalle onde, ho la mente piena di colori trasparenti che il mare ha fatto galleggiare con lunghe onde come lingue golose, dalle gole profonde. Ci danzavo con la mia impotenza, forse un fatto di coerenza, siamo di noi gli avvocati migliori, siamo di noi scaltri seduttori, perché fondamentalmente si è soli. Siamo i rifugiati, siamo i clandestini, siamo i persecutori, i fuggiaschi e gli assassini, siamo qualcosa che ancora non c’è, e siamo gli imputati di tutti i processi e siamo i giudici maledetti e siamo quelli comprati e venduti e siamo ideali di giorni passati, siamo pensieri sfusi in una macchina a gettoni su una spiaggia, una moneta ed esce il colore della mia rabbia. Siamo sabbia, duriamo meno di una fotografia, di un passaporto, di una poesia, siamo biodegradabili al 100% ma non sappiamo goderci un solo momento. Perché? Abbiamo le mani piene di sangue, di voglia di conquista, di denaro sonante, siamo pronti ad uccidere, a tradire e ingannare ma ci spaventa essere in grado di amare. Perché? Abbiamo potenzialità alle punte dei piedi, solleviamo appena i talloni, ma perdiamo velocemente l’equilibrio, i buoni propositi si allargano a terra come una macchia d’olio, una macchia di sangue, come acqua piovana, come piscio, i buoni propositi lasciano un odore, un alone distante, un ombra di cui non teniamo conto, mi è scivolata dalle spalle, ma non c’entra ora con questo discorso, i buoni propositi sono pozzanghere. E parli, parli e non sai quel che dici, e hai troppo studiato e poco vissuto, e parli e parli, le tue labbra ad imbuto, per non invecchiare mettiamo il silicone come a chiudere spifferi di tempo, forse non passerà di qua, forse ingannerò l’età, e parli e parli e non riesco a seguire questo mondo impotente che non sa più che dire, questo mondo che si perde il capitano in mare che lasciamo affondare con ciò che rimane. Carrellate di occhi di bambini, carellate a braccia tese, se non è un numero sopra l’avanbraccio, è un piede in catene, occhi grandi, immensi e tondi, lì è ferma la dignità, sembra riflettere, sostare, ruotare lenta gli aculei come riccio di mare in una grotta scura.  E  poi io e te. Il cuore sospeso, un simbolo fiero, nella teca trasparente, nelle palpebre socchiuse, quel tanto che basta per farci passare la luce, come una persiana, come un sogno che non ingombra, come una sana, scaltra, neccessità, siamo rifugiati all’angolo di un letto, scagliamo sassi piatti sul lago stupefatto… ci mancherà anche questo. Un orgasmo perfetto. Questa piattaforma di cemento posta in mezzo al mare, che a stento, a larghe bracciate abbiamo raggiunto, fendendo l’acqua nera come velluto, per un solo minuto non c’era una fine o un inizio, solo due corpi poggiati, sollevati, trattenuti e intrisi di giochi, di spazio, ideali e ossa, sangue e poesia. Viscere a parte, la nostra arte. E poi i volti felici, i tuoi occhi sereni, trasparenti, pozze d’acqua in cui potevo immergere i piedi, è così, ti vedo distante e capisco che sei importante, è così, quando sei in mezzo alla gente, la gelosia è più presente, vorrei darti senza ferire, vorrei darti senza tradire, vorrei darti senza vanità, non vorrei allargare le tue ferite con parole delicate, con parole favorite, mi basta quello che sei, mi basta quello che siamo, quello che non pretendiamo di sapere, mi basta quello che abbiamo.  Voglio danzare con ogni mio sbaglio, voglio una danza con il tempo sprecato, come ballassi sul corpo insepolto di tutto quello a cui ho rinunciato, voglio guardarlo questo reato, nello specchio che di noi mai riflette, come vampiri dalle gole interotte, come vampiri dalle ali represse, voglio ammirare ogni mio errore, toccare quel corpo nel suo orrore, vedere come persino il colore si assorba dal viso e non porti rancore, voglio scusare questo pallore e tutti i giorni della mia vita assente, tutti quei giorni che non sono stata presente, ne’ scaltra, ne’ astuta, ne’ brava o efficiente, e poi la pigrizia mia, guardala, posta in un angolo per cortesia, guardala leccarsi le labbra, additata eresia, adultera, satira, nullafacente, portata in manette al processo veloce nella mia mente, adossata la colpa in un filo di voce, le usciva la parola incoerente, labbra carnose a sussurare “innocente”, ma neppure lei ci credeva, la pigrizia lesa e offesa, la pigrizia pretesa e spogliata, la pigrizia lasciva e vogliosa. Sua! La Colpa! Suo ogni  sbaglio, e se nella vita mi trovo in ritardo, sua  la colpa di tutto! Era con gli occhi grandi rivolti al cielo a sognare, quando nulla di concreto si poteva mettere sotto i denti, si poteva mangiare! Sua la colpa, di questa puttana e un pugno sulla tavola, una bestemmia disumana, sua la colpa dei pensieri perversi, sua la colpa per carità se non mi piego alla società. Un dito puntato dritto tra i seni, testimoni muti e blasfemi, un dito puntato senza pietà, spinto alle spalle da un vento di moralità. Facile eh? Dare la colpa a una parte di se’… dividere il mondo in buoni e cattivi, dividersi il corpo e le intenzioni separando le lische, succhiando bene, porgere a lato del piatto quello che non ho detto, quello che non ho fatto, e si torna puliti… Fatelo con amore, mangiate di me la parte migliore. Parlo a te… fai la pace con me, fai la pace con la parte nera, con gli occhi pesti, con un viso che oggi ha una brutta cera, fai la pace con me. Così ho preso la mia pigrizia, la mia parte d’astuzia, la mia cattiveria, la mia parte assassina, la mia parte vigliacca, la mia parte sbagliata e quella bloccata e poi quella infangata e quella avvolta dai sensi di colpa, come colla, come una polpa rossa che le imbrattava le spalle, perché? Perché non esisto senza di te. Allora ho preso quella donna terrena, quella da me resa blasfema, quella che era alibi e scusa, e ballando con il suo corpo bianco e molle, ho baciato il suo delicato collo, lavato la sua schiena, sentito la sua pelle sotto le mie dita, il suo cuore ribelle, ogni sua dipartita, pettinato i suoi capelli, fatto la pace con quegli occhi gemelli, aprezzato i suoi sguardi perversi, ammirato le sue dita delicate, come quelle delle fate, come quelle delle streghe, come quelle raccontate. Leccato tutte le sue dita. Ci sono mani, tante mani, mani nelle mani, mani abbracciate ai fianchi, mani appoggiate alle spalle, dita intrecciate a dita calde, mani che sfiorano filo spinato, mani che fanno godere, che toccano per darti piacere, mani per uccidere e salvare, mani per creare e incendiare, ci sono tante parti di te, ci sono tanti occhi tuoi, ci sono occhi bassi e ci sono occhi furenti, ci sono occhi attenti e ci sono occhi assenti, ci sono occhi perduti, ci sono occhi che sono dolore, ci sono occhi larghi per il piacere, ci sono occhi per vedere, per guardare, per osservare, per capire, per raccontare, per testimoniare, per odiare, per dirti: qui ti devi fermare, oltre non puoi guardare. Abbracciavo le gemelle di me, tutte quelle gemelle perverse, chi ai fianchi, chi alle spalle, e c’era poesia dentro la follia e c’era la vita e la morte, l’inizio e la fine, un sentiero sublime, si poteva mangiare, ogni passo aveva un sapore nella gola, correvano per la strada queste parti di me, consapevoli che l’una senza l’altra non avrebbero compreso la vita misteriosa che avevano, forse tutte potevano, forse tutte occorrevano, erano come sorelle giovani e allegre appena scappate alla ghigliottina, che non avevano sul capo alcun giudizio che si affidavano al vento, che vivevano il loro momento, come streghe fuggite all’impiccagione, come donne fuggite alla flagellazione, erano l’unico sospiro del mondo, un polmone verde immenso, erano al passo con la foresta, con la notte, con il mistero, avevano un corpo fiero e sospeso, un cuore leggero, un filo di voce, erano scampate alla tortura, alla paura, alla congiura, corpi bianchi sdraiati sull’acqua, seni turgidi schiaffeggiati da piccole onde, echi di risate profonde, risate che fanno paura, risate di varia natura, risate di bocche diverse, risate disperse, e si chiude sotto un tetto di foglie, questo appuntamento mio, questo incontro con l’inconscio, con te che sei il mio io, sfumando i corpi nudi e impuri, i denti bianchi di quelle ninfee assenti, sfumando le condanne, dalle donne distanti che non sanno tornare a se’. Perché? Quando non  devo fuggire il mondo devo fuggire da me.

sabato 3 marzo 2012

Giovanna d'Arco nell'anno dei Maya

Foto di  Andrea Moretti
Giovanna d’Arco nell’anno dei Maya

Ci sono giornate che le tue ossa sono cave, tu sei leggera, tu potresti volare, che di niente ti frega, che niente non hai, che senti l’odore forte di qualcosa di vero, che neppure il cimitero è un brutto posto per camminare.
C’è un lungo corridoio di cipressi, un lungo corridoio di paletti, dei ragazzi del 15-18, di vent’anni neppure, di un sogno interrotto, c’è un lungo corridoio di fiori finti, e fagiani che volano a pelo dei tuoi istinti, non c’è nulla di spaventoso nel cielo e tu oggi ti senti e finalmente ti somigli. C’è un lungo corridoio di ragazzi, uno per cipresso, uno per stelo concesso, uno per manciata di terra, uno per l’idea della guerra, che forse non è mai di chi la combatte e neppure di chi muore, ma il mercato nero ha un sorriso marcio, il potere ne ha un altro, non sarà la prima ne’ l’ultima volta, che l’essere umano si conceda questa vergogna, come un ballo fuori luogo, un invito disgustoso, qualcosa che non si rifiuta, e ci si lascia alla paura, alla congiura, all’ingiustizia, al valore, alla patria di tutti, alla morte dei soli. Ci penso sempre a tutti quei ragazzi mentre con l’aria nei piedi percorro i miei passi, avevo un ramo di cotone tra le dita fredde e c’era la neve, avevo fiori secchi e c’era il sole, varcato il confine dei verdi cipressi, si vendono fiori, si ammassano le corone, si fanno marmi bianchi, si fanno belle tombe, se paghi. Non c’erano privilegi e neppure errori, c’era un silenzio pieno, che gustavi come la luna di sera, come una guancia rotonda e bianca, e l’aria ti bacia il collo, la vita ti affianca. E le labbra contro una fotografia, fredda di inverno  e le labbra contro una fotografia che te le brucia in estate e uccellini di paglia in un paradiso calmo, di un sorriso posato dove hai immaginato sorridere l’altro. Confini. E’ come allungare la mano sullo specchio d’acqua. Ora sento l’odore del motore, dell’olio che si allarga nel mare, ora torno bambina, sul porto pirata di una barca a vela, la fantasia è naufragata, si è infranta sul seno di un giorno sereno nella grassa risata, qui allarghi le braccia e i piedi sono scalzi, qui cammini lenta e non ci sono orari, qui non sei disoccupata, qui non manca la casa, qui sei cenere o terra, quasi l’aria è più bella, qui non ti mancano i soldi per avere un bambino, qui non ti mancano i ricordi, qui almeno se ti manca il futuro non ti senti in colpa e porti meglio quel lutto, qui posso urlare che t’amo che tanto non senti, qui posso urlare che t’odio e tu non ti spaventi, qui posso entrare, il cancello è aperto, non c’è un biglietto d’ingresso, anche se tassano anche voi morti… Dov’è Robin Hood cazzo! Poi qui c’è sempre poca gente…. Che parla con i morti… che si ferma un momento, che tenta di capire cosa ha importanza. Davvero. Io vengo qui e come un pavone faccio la ruota, io vengo qui con la mia intimità, con questo schiaffo di serenità, ma io vi porgo il groviglio profondo delle budella di questo mondo, della paura di addormentarmi la sera, manca il lavoro e ogni certezza, in questa vita manca la carezza, così per quanto strano, qui la pace mi prende per mano e io ritrovo stabilità, come fossi morta tempo fa e avessi capito tutto d’un fiato, che sono disposta a buttare nel lago questo collare che porto al collo, questo pesante collare di ferro, questa fottuta società, questa paura, questa viltà, questa voglia di dire la mia e poi liberarmi da questa follia, da questi inchini al servizio del nulla, voglio che il cuore mio mi appartenga, voglio che le lacrime non mi siano rubate, voglio che i sorrisi non mi siano rubati, voglio che la vita tutta si ribalti che siano i morti a portare fiori ai vivi, che siano loro con i loro sorrisi a spiegarci gli errori di cui siamo intrisi, voglio che tutti i ragazzi di questi cipressi portino al parlamento i sogni rubati, li stendano tutti vicini, allineati, che si squarcino il petto e urlino sempre “puttana nel mondo non cambia mai niente!” e tutte le donne da quel profondo, che mi sospingano la schiena, che portino i miei occhi in faccia ai tuoi, che mi facciano gridare perché di certo non sei più importante di me, che sono stanca che il sesso maschile non debba spiegare, non debba capire, che anche l’ultima amazzone concessa, arrischi il suo collo e perda la testa, per l’ultima battaglia onesta, stesso stipendio, stesso tradimento, stessa voglia di scoparsi il mondo, è una vita che attendo… questo momento, nessuna donna che si debba agghindare, nessuna donna che si debba prostituire, stessa gioia, stessa paura, nessuna libertà concessa. Repressa. Prenditela, come si taglia una testa! La rivoluzione nasca sotto le palpebre, e nasca sotto le labbra, quando baciano la tua foto ora che sei nel mondo che più non si meraviglia, la  Rivoluzione nasca adesso dall’acqua salata chiusa tra le mie ciglia, la rivoluzione nasca nel letto e nell’orgasmo che ti rassomiglia, nasca sotto le tue dita, nasca sotto le sue dita quando ti prende il seno, nasca nell’amore  quando appoggio il viso sereno e l’aria è soltanto il nostro odore.

Ti respirerei per ore.

Prenditi il piacere, l’istinto, il diritto a godere, e poi… Prenditi ogni ottima ragione per gridare il tuo nome, non perchè rispondi a un appello, non perché compilano uno schedario, non perché deglutisci quando ti iscrivono alle liste di mobilità… Incazzati per l’immobilità loro! Incazzati per questo mondo immobile, incazzati perché per sentire qualcosa di vero, porca troia, devi entrare in un cimitero! Incazzati perché questa vità è una bugia, e tu sei la più grande ipocrisia, incazzati perché le donne stanno tornando indietro… non se ne fanno nulla dei diritti, ci sono vie più brevi… più facilmente conquistabili e poi si entra anche in politica e poi si fanno soldi facili…
Ahhhhhhhh!
 le mani alle orecchie, il vestito a fiori, le spalle scoperte,  le cosce di fuori, stavo seduta, la testa caduta tra le ginocchia di una vita vissuta di fretta, concessa, come una scossa elettrica, e voi a bisbigliarmi alle orecchie… cose quasi perfette… non mi suiciderò come Giovanna D’Arco…
Alzati, lotta, datti una mossa! Fatti una doccia, togliti il suo odore, indossa l’armatura migliore, tagliati i capelli, prendi la spada, muori nel sole non nelle tue scuse, e risparmiaci le preghiere, mostraci un po’ di azione dannazione!!
-         Ma perché? Me ne sto qui a galleggiare sul mio orgasmo, mi si sdraia il sorriso da guancia a guancia, il mondo sta vorticando nel cesso, ho tirato giù l’acqua, qualche genio troverà la pozione, la ragione, la tua rivoluzione… Ho deciso di godere, di farne un mestiere, vuoi vedere?
-         Guarda che hanno tassato anche le puttane!
-         Si ma non quelle che la danno per fame spero? Che porcheria tassano pure te fica mia…Che devo fare?
E tutti i morti del cimitero in un accorato profondo pensiero come un rutto a lungo trattenuto urlarono in faccia a quell’anima innocente “Niente” Come niente?      Le dissero che non ce la poteva fare, che in fondo stava a frignare, che non aveva neppure l’aria adatta per partire così alla riscossa, che di certo le avrebbero spezzato tutte le ossa… Allora lei si offese, pretese le ragioni, volarono foglie bagnate, le tornarono in mente sere d’estate quando lui, quell’uomo importante, le sussurrava alle gambe, l’uomo che sussurrava alle passere… Accidenti che cavolo di eroina posso diventare! Ogni scusa è buona per ansimare e neppure di dolore! Allora si tatuò il cuore, cancellò di lui l’odore, si fece una striscia di fiori secchi sulla tomba e giurò alla sua vita una guerra immonda, feconda, rotonda. Uscì dal cancello del cimitero nero, nella testa alcun pensiero, andò a casa dal suo uomo lo violentò, non gli chiese perdono, ma gli uomini non si possono violentare…Chi lo ha detto?  Lo farò eccitare… E così fece ma non lo fece finire, lo lasciò lì duro a tentare di capire, e questo è niente confronto a partorire! Poi con l’amaro in bocca ma a livello di ovaie l’eterna riscossa, andò dal suo datore di lavoro, era un tipo strano, mano morta che la sfiorava, ma lei era in prova… pensò al mobbing di tutti i giorni, a quel viso scemo per caso che si trovava davanti al suo sguardo, quell’enorme assurdo naso come un grosso cazzo gettato tra gli occhi, ma poi si riprese, divenne cortese. Una notte la passò a raccogliere una carriola di merda, dedizione eterna, quasi un giardino zen, gliela portavano pure gli amici, lei per tutti aveva sguardi felici,  fece l’alba e in luce gialla, ai confini di un giorno perfetto, gli rovesciò tutto il contenuto davanti alla vetrina allestita per Natale.  Compiaciuta.
La merda sale, tutta la merda di tutti i giorni, la merda torna, la merda si sa, la merda prende, la merda da’. Poi andò da quell’uomo sincero, quello che le affittava la casa in nero, fece una spiata a uno della finanza,  lui tentennava, incerto sui fatti… e sulla testimonianza, lei tagliò corto e disse : “se va gliela do a oltranza” E lui  che era un tipo essenziale, corse nella sua veste ufficiale, e lei si leccò le labbra… Dove si estendeva questa vendetta, un piatto freddo non ha alcuna fretta, la prode Giovanna d’Arco dell’anno dei Maya non aveva un lavoro, non aveva una casa, se ne fotteva della fine del mondo e la morale di questo pezzo rimato è che prenderla in quel posto non è reato, soprattutto se tu sei chi lo prende e chi lo mette è il governo o lo stato, ma ribellarti è una cosa seria, cambiare anche un giorno della tua vita, sentire l’intensa gioia infinita di chi del suo corpo non fa cibo per sciacalli, di chi è disposto a dare l’esistenza, perché finiscano gli ingranaggi oliati per l’assenza, l’assenza di voci, l’assenza di anime, l’assenza di diritti, l’assenza di gioia, l’assenza di amore, e poi l’assenza di stupore e di rancore e persino di paura. Qualcuno può lottare, perché il niente non diventi una realtà, grande, immensa, un cancro della coscienza con metastasi ovunque, metastasi di indifferenza. Avevo fiori secchi, un vestito leggero, li posavo fuori dal cimitero, lì vedevo la morte peggiore, lì sentivo un disagio costante, umiliante, mi saliva con la lingua le gambe, l’indifferenza tagliava le guance più del freddo, più del diamante.
 “Qui riposa la mia società senza palle, senza dignità, senza un futuro ne’ di qua ne' di la’”.
- Ma davvero  vuole scrivere questo e come lo vuole il suo nome?
E possibile al sapore di lampone? Il suo di cosa sa?