sabato 14 gennaio 2012

Matite colorate


Matite colorate

La voce razionale di uno psicologo mi mostrò matite colorate, le poggiò davanti ai miei occhi, e io volevo quasi non ascoltare, quando preceduto da un sospiro disse:
“Cos’è l’amore?”, volevo dirgli: “Me lo dica lei, sono io che pago”, ma lo fissai triste, senza fiatare. “Questo è amore?” ; una matita era sostenuta e l’altra gli si appoggiava, come un uomo che appoggia il capo alla spalla di un altro. Mosse la matita che stava dritta e fece cadere l’altra. “Non è amore”. “Questo è amore?”; mostrò due matite a capanna, una sosteneva l’altra, ne mosse una, caddero tutte e due, “Direi di no…”, poi mostrò due matite in piedi, perfetto equilibrio, in effetti sembrava una coppia con scope in culo, un po’ rigida, ma la psicoanalisi approvava. Ora cercai di vedere tutte le coppie che conoscevo bene o appena, vederle come matite, mi crollarono quasi tutte miseramente, ma allora l’amore era un bisogno e basta? Nasceva sempre da un disagio o da una paura? Che fregatura immensa per tutti! Possibile che ci avessero rimbecillito con film e romanzi e innumerevoli atti di prodezze, quando invece rappresentavamo, ognuno di noi, una specie di droga, di antidoto, una sorta di viaggio o di canna per tentare di sorreggerci a turno? Ma poi pensai, chi è quest’uomo che mi parla dell’amore tirando fuori persone da un astuccio, e volevo davvero fargli domande personali, aveva trovato la sua matita? Una paziente raddrizzata? Che idiota, non mi riguardava, ero io la caduta, la caduta miseramente, e lui era caduto con me, noi eravamo la coppia a capanna, solo che poi lui si era rifugiato nella sua stessa prigione, quella da cui era evaso, sentendosi troppo bene da spaventarsi e volere rientrare. Un animale restato chiuso a lungo che teme ogni rumore, anche se la curiosità è tale da spingerlo sempre altrove, ma poi fugge veloce, torna alla tranquillità familiare! L’emozione non vale il rischio. Io, invece, non avevo una vita a cui tornare, e se l’avevo non ci volevo tornare, come mi avessero sbattuto la porta in faccia più volte: “Per te nessuna famiglia, sei nomade e lo devi restare, per te nessun figlio, per te nessun amore”. Il fatto è che mi tolse, lui mi tolse la voglia di cercare. E persi anche me stessa e adesso quest’uomo, ancora, mi aiutava a piccoli passi, a ritrovarmi, a camminare, non aveva soluzioni magiche, ma voleva farmi vivere una vita migliore, diceva. Avevo il diritto a una vita migliore. Lo pago. Esco. Lui ha una fetta di me, ogni quindici giorni, ogni quindici giorni si chiude in una stanza qualcosa che solo lì resta, e a me manca, mi sento liberata e usurpata al tempo stesso, non so cos’è l’amore, ma l’idea delle matite mi rattrista, comincio a sapere cos’è l’uomo in genere, un debole, sussurro, un debole… Che fugge i sentimenti, tanto alla fine in cura ci finiamo noi, noi che vogliamo guardarci dentro. Noi che tiriamo fuori tutta la merda, che ammettiamo tutta la nostra merda, perché non c’è fiore senza merda. Merda. Merda. Merda. Quando sto per chiudermi la porta alle spalle lui, il dottore, mi dice: “ Lei mi sembra anche molto triste…”, rispondo: “Si, infatti”. La porta si chiude. Ma nella mia mente se ne aprono mille, si aprono e si chiudono così velocemente, sbattono facendo un rumore infernale, dietro ogni porta c’è qualcuno che mi può ferire o uccidere, devo correre, correre, correre, fuggire, fuggire, fuggire…




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