martedì 6 novembre 2012

Parole sporche


Lo sfratto - Acrilico su legno - 2012

PAROLE SPORCHE

Non ho parole di glucosio che scendono in gola, non ho sguardi accoglienti oggi e ho ricordi tangenti a sfiorarmi il corpo, ho galleggiato nel colore sospinta nei quadri con la forza di un getto d’acqua alla schiena, sopra un letto di dolore al confine con un cielo rosso, ho gettato il capo all’indietro e il rumore delle cascate erano echi distanti di risate che non avevo più. Fino a te. Ho cercato il distacco da tutto, perché quando la morte ti ha presa, mi ha strappato le viscere tutte e mi sembrava di non avere più sentimenti da predisporre come maschere per la mattina a venire, non riuscire più a digerire tutto questo bilanciarsi a fatica per errare con grazia in questa glassa corrotta di gente stabile che digerisco a fatica.  Ho inghiottito uno sfratto che sfratto non era, non c’era contratto sulla mia casa, era un atto, una parola, una stretta di mano in nero, come il pensiero. Ho ricevuto in faccia lo sfratto dalla gente furba che così bene si adatta a succhiare il tuo sangue con cannucce colorate come bevande d’estate, un’estate che non ti appartiene, come a lumaca senza conchiglia, di un mare che non riesci a respirare ma non te ne puoi neppure separare, mancano le gambe per camminare su questa disonesta terra. Effetto serra. Eppure mi crescevano viole del pensiero sul cuore che si orientava come un girasole verso il sole, avevo petali nel vento… Ora ti dico parole tabù, che fanno vergognare, che fanno abbassare gli occhi, che  sarebbe meglio tacere per un girotondo tutti insieme, un allegro girotondo di bugie  e sorrisi alati su volti sbagliati, ma queste parole cupe, come tende pesanti, di oscuri sipari e attori così stanchi… “DISOCCUPAZIONE – SFRATTO –LAVORO IN NERO – MANCANZA DI OGNI DIRITTO – POVERTA’ – PENSIERI DI MORTE – MANCANZA DI ENTUSIASMO – BILANCIO - DEPRESSIONE-OSSESSIONE – LACRIME -LACRIME SOLE, LACRIME SOLE…

Si è da soli… perché è solo chi dice la verità… è lasciato solo in questa società, è lasciato solo a portare il suo lutto, la sua vergogna pari alla sua onestà, ti dico una parola che fa più scandalo della più censurata scena in “Ultimo tango a Parigi” “D-i-s-o-c-c-u-p-a-t-a”, se me la ripeti, sillabandola piano, guardandomi in faccia, come dicessi “Ti amo” sarò legata a te, per l’eternità.

Si avvicina il Natale e il consumismo sulla disoccupazione, con un pizzico di religione e di compassione fa male, tagliateci le vene e aggiungete un po’ di limone e sale, che le vostre ostriche vadano a male, e vi graffino la gola come tutti questi diritti che ci sono caduti dalle tasche bucate.

Ma sei Disoccupata, disoccupata, lo dici come fosse colpa tua, forse lo è, forse sei solo te, questo dice la società, e ti butti la benzina addosso, o ti portano via tuo figlio, te ne devi fare una ragione, se non hai un’occupazione, è questa società che ti cosparge oggi di benzina, e parla della tua instabilità, e chiama “periodo” quasi il tempo di uno sbadiglio, tutti gli anni che non hai lavorato, dove tu senti il peso di ogni minuto, non hai cuore di chiedere aiuto persino a un amico, si chiama “dignità”, e la dignità è una parola che scende dall’iride colorata proiettata verso un sole assente, che scava le guance, raggiunge il tuo collo, finisce sul cuscino, solo i morti ti sono vicino. La dignità si mastica in silenzio in uno spazio senza tempo, la notte ci ripensi, ripensi alla giornata che ti avvolge di sorrisi, di “Come va?” di “passerà” di gente che non è a contatto con la realtà, la tua disoccupazione è peggio di un film porno, diventa indecoroso parlarne, la società vuole il suo ottimismo, e questo è il suo consiglio, non parliamo mai di tutti questi guai,  e del resto se anche volessi sfogarti, parlarne, aprirti questa censura come cerniera, ne ricaveresti sguardi che ti farebbero sentire sporca, allora sarebbe tardi per rimangiarsi tutto e cominceresti a dissimulare, a scusarti, fino a sentirti in colpa verso te stessa, tradita due volte, uccisa dalla loro indifferenza e finta compassione ma ancora più uccisa dal tuo supplicare, inginocchiarti, e genufletterti, NELL’ASSURDO OLTRAGGIO VERSO TE STESSA DI “prendere le tue parti”.
E quindi per quella parola “Dignita’” se me la ripeti, se tu me la ripeti a un millimetro dalle mie labbra, senza abbassare lo sguardo, bevendoti la mia rabbia, ti bacerò per sempre, dove vuoi tu. Eddai, vinci questo tabù e parliamo di DIGNITA’.

Ma sì, sorride, si getta indietro il capo, “Oh ma è tanto tempo fa, non ricordo neppure come si fa”

Sola.

E’ vero ho dipinto molto, in fondo sono una pittrice e poi sono anche un’attrice e quindi una persona forse precaria già nell’identità, forse che ognuno si segna il suo destino, e quello che chiami talento, ammesso  che lo sia, è qualcosa che esce da dentro e che ti porta via, lontano come una furia celeste, il tuo corpo straziato passa sulle teste votate all’obbedienza e alla disciplina, del resto ogni minuto che passa tu non sei quella di prima, va bene, mi serve immergere i pennelli nel dolore, ho il cuore che è un barattolo ad ore, e anche la mia pittura non è accondiscendente, la mia pittura sente, sente l’odore della paura, il sapore dolciastro e nauseabondo di una scusa, e sento la vigliaccheria e mi viene da ritrarre il corpo, e da scegliermi un’altra via.

Sola.

Ma piena di sincera ammirazione… come un fenomeno da baraccone, un idealista, surrealista, un po’ egoista e narcisista che sa dove finisce il bello eppure non è neppure colpa sua se fa i duelli con ironia, e se perfino nel bilanciare il fioretto o la spada o nella scelta della pistola, c’è qualcosa di erotico che stona con l’idea della battaglia, che getta sguardi lascivi sull’idea di guerriglia.

Sola.

“Ideali” Ti dico una parola sporca, te la dico vicino all’orecchio, te la sillabo in modo perfetto, se riesci a non farmela tacere, puoi tenermi per sempre le dita sul cuore.

Eddai diciamole tutte le parole sporche quelle che non sono concesse,: “AMORE, LOTTA, RIVOLUZIONE, IDEALI, DISOCCUPAZIONE, FUTURO…

“Futuro” se lo dico piano, se dico questa parola sporca al tuo orecchio e te la scandisco quasi venisse dal basso, e tu la ascolti senza lo sguardo distratto, ma te la bevi tutta come un atto d’amore anche non ti piacesse il sapore, allora io ti prometto che sarò tutta la vita per te.

E ci muoviamo piedi nel catrame, ho percorso la mia meraviglia sollevandomi dal capo le ciglia, il peso dei tuoi sguardi bassi, ogni passo è più pesante, ogni uomo più distante, ho un incessante rimescolio interiore, necessità di vomitare, sentire al contempo la voglia di lasciarsi andare direttamente proporzionale alla rabbia crudele, all’esplosione di quella guerra interiore tra ciò che si deve e ciò che ha ragione, vorrei scambiare un patto di fede soltanto con la mia rivoluzione, vorrei scambiare un bacio moderno con questo inatteso ballo all’inferno, e prendermi la totale libertà di dirvele tutte queste volgarità è di scambiare le lacrime agli occhi e il più cieco dolore, con uno schiaffo sulle vostre facce stupite di puro erotismo e colore, pensa che mistero profondo come il mondo, è proprio quando affondo che mi colpisce al cuore l’odore del rosmarino, il colore delle viole, le tue labbra morbide di scuse e ideali, dove vorrei poggiare la schiena per dormire più serena, ai ricchi e ai potenti, ai corrotti, ai navigati, agli scaltri ed arricchiti, agli snob incensurati, ai vostri delitti commessi ogni giorno e ai nostri sensi di colpa per averli solo sognati, non saprete mai come si addormenta pulito e stanco un operaio, un clandestino, con un sonno che lo travolge come quello di un bambino, così pieno, così vero, meritato e pulito, e non saprete mai come due esseri ricchi solo dei loro guai possano stringersi vicino, quale livello sublime raggiunga il loro erotismo, perche’ disperato e profondo, perché alla ricerca dell’immortale voglia di dimenticare, come l’ossigeno che si deve respirare dopo un’apnea profonda. Immonda. Ai ricchi ed arrivati e annoiati che si muovono per mostre e teatri alla ricerca della cultura fatta da chi conosceva la paura, non la certezza di ogni istante, alle donne rifatte che si muovono a cosce strette, con tacchi alti alle 18 del pomeriggio, questo è solo un consiglio, vi muovete con sorrisi in serie davanti a quadri che sono state “scoperte”, davanti a un mondo così oscuro, cercate nei dipinti e tra gli sguardi degli attori, stati d’animo e stupori, e come fate? Se anche li vedeste non li riconoscereste, non sapete neanche amare, solo esibire, solo passare, che vi si richiuda addosso la vostra sterile superficialità che neppure l’età vi ha portato saggezza e giocate ad allungare giovinezza diventando voi stessi maschere teatrali, dalle quali mi guarderei dal farmi raccontare storie senza fine.

E questo ogni volta mi deprime, dipingo la strage muta delle donne, dipingo una mattanza che si confonde con l’omertà fatta a scienza esatta, dipingo l’innocenza e lo stupore e il ritratto di una coscienza interiore in lotta con la legge volgare della superficialità che bisogna conservare, dipingo quello che non dico ma ci rimbalza sulle labbra strette dal dolore e io le vorrei tutte baciare e vorrei fossero parole, dipingo qualcosa che non so se sia appropriato appendere a un muro, ma che vorrei appendere certo dentro ogni cuore che ha male, che ha male. Un male sordo e duro, un male puro. E coprire con l’immagine quel buco.

“Mi chiedo se i colori  di questo dipinto si possano adattare al mio divano”


Mi chiedo ogni giorno se queste budella su tela si adattano al vostro sguardo.

Mi chiedo ogni giorno se dipingere col cuore non può che essere reato.




Strage muta - Acrilico su faesite - 2012


lunedì 8 ottobre 2012

"Pietà"






Di una “Pietà” mai dipinta, ecco dove mi sono spinta, di un sogno ateo in punta di piedi a suggerire quello che non vedi, della morte di un uomo normale, chiamato Dio in un giorno essenziale, essenziale da consegnare alla storia e capro espiatorio per condurre un filo spinato di moralità che ferisce il corpo di ogni età, di ogni corsa contro il proibito, di ogni sospiro a un futuro negato, e mani impigliate ai confini come rondini nere lasciate a morire, dimmi di questo volo caduto, dimmi a cosa abbiamo creduto. E intanto sono qui con un dolore sordo, che cambia colore, che cambia giorno, che nelle sfumature più dure tradisce la rabbia, l’odio, il disprezzo, il cinico sguardo che io stessa rifletto nel restare viva senza te accanto. Tutto il colore  che ho pianto perchè ogni quadro nasce da te. E’ di questa morte che voglio parlare, di questa morte di chi rimane, di questa ingenua, blasfema Pietà. Di questa Pietà come una visione in negativo, del bianco e del nero, del falso e del vero, della traduzione in atto nel tuo cuore, della transvalutazione di ogni dolore, dell’odore del sangue, delle ginocchia alla bocca, della solitudine non cercata, come di un arto tagliato senza preavviso, una ghigliottina sul cuore dove il male è in ritardo e si guarda con orrore la mancanza di un arto come fosse di un altro, come fosse di un altro. Come te la spiego, come te la spiego la morte di chi resta, questa lenta agonia, una morte proiettata al futuro, e poi la metamorfosi per sopportare, per rimanere in piedi e per non cambiare, chi la tiene la testa a chi resta, sopra quali ginocchia si può consolare chi rimane, sospeso, tenuto, come ora tengo pochi pennelli tra le dita, come tu hai la mia vita. Lutto, un tonfo, nel profondo, un sasso lanciato in un pozzo nessun rumore di ritorno, il desiderio represso e le labbra cerniere, il sangue scivola dalla tua corona di spine, sul volto di chi rimane, e quel passaggio della paura, staffetta benedetta, gettata di fretta, a te la gara di questa vita, io qui mi fermo, e tu finisci la corsa, ingorda strada da percorrere ampia, infinita, e manca il fiato, si perde sangue da una ferita che nessuno vede, e intanto i sentimenti diventano anemici, rallenti, nessuno a cui passare questo dolore, a cui in fondo interessi la tua corsa, è un freddo che avvolge te soltanto quando il resto del mondo soffre il caldo, è il catrame sui sandali trasparenti nei piedi di un bambino, qualcosa che ha il diritto di sporcare anche il più ingenuo mare. Nuvole nere sui giochi più belli, piedi vicini e nudi fratelli, denti da latte scoperti in risate di amici , dove il patto più solenne era dividere poche ore di giochi presi seriamente, molto più di tutta la gente, di castelli di sabbia che erano saggezza per questo nascevano e morivano in fretta, bastava il tempo di guardare, e le nostre mani stringevano sabbia, e adesso c’è rimasta la rabbia. E in un giorno d’Agosto lancio in aria la tua felicità, testa o croce, e ti rubo la vita e ti spezzo la voce, ed è un onda immensa,  nera come la notte, la sua rabbia finisce in schiuma, è una Salomè dagli occhi d’argento e l’ultimo velo è l’odio che sento, dentro. E’ un mare che è un lastricato freddo, una notte spessa, un’aria come una mousse di cioccolato che non si respira, che mi ha disgustato e se le stelle sono canditi o diamanti o estetica pura, ogni notte è tagliata più dura, mi sembra di dormire su lastre di vetri rotti da tutte le grida dei singhiozzi repressi, di occhi bassi a confessare la tua assenza alla più neutra presenza di ogni dolore, il dolore che rimbalza nelle facce di pietra, quante volte, quante volte si muore. Persino gli amici o presunti tali, ascoltano parole che ti escono con difficoltà. Ti sembra che per il lutto non ci sia un’ età a renderti più forte, nessuna via di fuga, nessuna scorciatoia, nessuna amnesia totale, vorresti la pazzia, escono parole scelte, scelte lentamente, persino scelte male, posate a fatica, perché ogni parola per spiegare come si muore è un taglio trasversale sulle labbra e sanno di ferro, e gli altri sono altri e non c’è contenitore … non vedono, non sentono chi muore, è tempo sprecato, è una vita parallela in uno specchio gettato nel caso, sono pupille assenti e tu hai spilli puntati nel cuore, il tuo cuore che soffre è un riccio che si muove veloce di notte per mangiare abbastanza, per potere andare in letargo e sperare che l’inverno sia lungo. E il peggio che ti può capitare è il dolore confessato quando lo avresti dovuto censurare, perché in risposta hai avuto una pacca sulla spalla, che per te erano ossa, una parola di circostanza che ti ha fatto sentire in colpa, a chi ho offerto il mio dolore… E si muore di umiliazione, di disagio, si muore anche per essere nel posto sbagliato, il tuo corpo così stretto al mio, che diventa termine di conversazione, chi si è permesso un’ opinione? C’era una danza, era tutta nostra, una favola unica mai tramandata, mai cambiata e ne’ sporcata di bocca in  bocca e mai censurata, c’era una vita, una vita nostra, fatta di piccole, pure cose, che nessuno doveva vedere con occhi sguainati come terribili spade, che nessuno doveva bisbigliare con fiato cattivo e poterle sporcare con la sua vita superficiale, perché c’era un amore, un amore così profondo che era un mondo a parte, come ora sei nell’arte e dentro me. C’era un sorriso di gioia distillata dove lasciavi le orme del tuo passo felino e come essere umano mi inchino a tanta grazia regalata, leggera e delicata come una libellula che sfiora l’acqua, ma all’improvviso è stata mattanza e ho visto il mio corpo galleggiare di schiena, di pancia e di profilo nella tua assenza che era un mare di sangue, nuotare piena di rabbia spostare le altre “me” che restavano a galla, non accettare di fondo la morte e di conseguenza neppure la vita, scolara bocciata in filosofia, un Due per il comportamento, lanciato quando ero di spalle, una critica finita tra le scapole come una palla di carta, che neppure si raccoglie a malapena si guarda, lasciata la lezione per il mio malcontento, sentirmi una ribelle senza la pelle oltre che l’armatura, aderire alla mia paura, e dopo quello che avevo temuto come l’incubo peggiore che si è avverato sotto i miei occhi, e ho inciampato sul nostro amore, sono volata a una distanza infinita, sei sempre sotto le mie dita, se questo fosse un mondo sincero, dovrei andare con la faccia rivolta al sole uccidere i tuoi assassini senz’armi ma con il mio stesso dolore, farli contorcere per ore, fino a vederli traboccare della mancanza che fa più male, allora invocherebbero la stessa mia Pietà, e la morte avrebbe un’altra realtà, sarebbe anche per loro il peso alla testa di una corona piena di sangue, di tutto il sangue di chi resta, dell’ingiustizia e dell’impotenza, del destino senza preavviso, della cruda e sola verità, siamo esche galleggianti sul mare… prima o poi qualcuno sparisce e anche se gli altri restano a galleggiare non sono da meno le loro ferite. Cos’è successo da quand’ero tra i banchi con i miei 13 anni che sembravano così imponenti, con un seno appena accennato, senza trucco, con il viso imbronciato, quante persone ho incontrato, quanti amori che un cuore come può sopportare! Solo dimenticando, solo avanzando, solo diffidando, solo volendo, cercando,  e ora che non importa neppure una firma falsa per giustificare questa mia assenza, per fare fuga dal mondo, dalle regole e dall’educazione, ora che manca l’ora di religione per copiare, la vita mi ha dato una Pietà diversa da capire.





venerdì 14 settembre 2012

Fino a te

"La danza dell'Eterno Amore" 2012

"Fino a te" - 2012

Fino a te



Fino a te stavo sdraiata braccia a croce, scendeva acqua salata dagli occhi e aveva la tua voce, senza paura galleggiavo sul mare del dolore, mentre le piccole onde che mi sbattevano a fianco creavano il distacco dal resto del mondo, e un corpo colpito troppo in fondo era come ritagliato da forbici del destino e incollato su un paesaggio che non conoscevo, eppure ci galleggiavo, eppure ci respiravo. E fino a te, le lacrime mi hanno sospesa, il mio letto era un mare grigio con creste di spuma, fino a guardare negli occhi la luna e ogni alba, senza te, ogni lacrima era un perché, la risposta nelle ossa e nelle risate dei gabbiani, quando ami sei l’universo e quando manca chi ami è tutto perverso, diverso, e galleggiavo su distanze infinite, come palafitte le mie ferite, come abito la mia pelle bagnata, il senso di colpa dietro una risata, fino a te, e salire e salire, fino  alla fine della vertigine, fino alla fine di ogni paura, l’arcobaleno dell’indifferenza, poi l’assenza di ogni premura, e nemici nuovi e rapporti caduti, in una guerra crudele di ideali impiccati, e una famiglia senza braccia che ti guarda impotente essere niente e la morale che come una suora scura copre il tuo corpo come fosse un dolce, con bugie al caramello, qualcosa di familiare che oggi mi fa vomitare, ho il cuore finito dentro un forno, e ceneri da spargere sospese tra le mie dita ogni giorno. Ho una rabbia estrema che mi scorre sottopelle, “sei diventata fredda, sei sciupata, sei l’analisi esatta della tua vita, sei un sogno di un volto sfuocato avvolto in un cappotto per caso, occhi allungati fino alle tempie a scrutare il regno del niente , come stai, le labbra di un disegno sensuale coprono un viso intero, non è proporzionato il disegno, sto male e il mio volto è sincero”. E non c’è altro da dire, altro da fare, e nessuno sa come stai quando stai male, cosa fai di te. E davanti ho l’ultimo giorno dei tuoi pochi anni e un racconto che mi usciva dalla gola, per tenerti abbracciata ancora, ogni parola era una salita, ogni parola verso la tua vita, e ti parlavo del nostro incontro, il tuo piccolo muso è oltre il sogno, è la più bella visione che mi ha mai dato il mondo, senza percorrerlo, senza viaggiare, senz’altri confini del tuo respirare, sto seguendo pigramente un’umanità  che da tempo mi ha esiliata, attraverso te ero stata adottata, ero entrata nella natura, avevo i piedi immersi nella terra e sentivo il respiro, il passaggio delle formiche, il sangue scorrere nelle nostre vite, e fino a te. E tu eri sale, acqua da bere, figlia da amare e da salvare, e poi eri la lotta e un posto sicuro dove potevo appendere gli ideali al muro e riposare accanto a te, eri la purezza, eri la mia parte pulita, il mio respiro, dove ogni odio ferma i passi, dove fugge l’assassino, eri la mia casa, eri una favola vera, dove un uomo per bene si toglie il cappello, eri la soglia di un paradiso che potevo toccare e dove nessuno doveva pregare per amare ed essere amato, dai tuoi occhi era salvato, dove finisce il giorno e dove comincia la sera, eri un confine sottile, l’equatore appoggiata come acqua piovana sulle mie labbra, mi tenevi a galla… e sentivo le tue fusa dentro gli organi vitali erano quelli i miei ideali, la pioggia che bagna e il sole che scalda, eri tutta la mia vita, il sorriso della gioia, quando mancano domande, perché eri la risposta, anzi eri tutte quante, e te ne sei andata così in fretta, a me è rimasta la voglia di vendetta, come l’ultimo saluto fosse tutto il sangue che ho bevuto, di quella ferita immensa che mi taglia il petto fino alla pancia, ti canto la danza dell’Eterno Amore, dove una colomba mi è uscita dal petto è tutto quello che non ti ho detto, è la gioia volata via, la purezza che mi ha lasciata, se adesso questa ferita fa così male da maledire il mio avvenire significa che ti ho amata, ti ho amata da morire, e grazie a questo amore sublime, perfetto fino a te, non posso più accettare un amore umano di convenienza, di strategia, basato sulla bugia, allora dietro le orme delle tue piccole zampe, come dei graffi che mi hai lasciato sulla pelle, cicatrici che sono i regali più belli ora, perché mi ricordano te, e se mi chiedessero di scegliere tra un anello di diamanti e questi tagli io sceglierei questi tagli io sceglierei l’amore vero, quello che un essere umano non può concepire neppure con il pensiero, fa male, fa male un mondo imbecille, che non sa difendervi, che non sa capire, fa male da morire, fa male questo mondo infermo che tutto calpesta, che tutto muore dove lui passa, fa male dare spiegazioni, essere quattro o cinque contro milioni, fa male essere estremisti, essere appena intravisti e mai capiti, fa male essere derisi, fa male fino in fondo fare l’amore con un uomo che non ti ama  e non capisce le tue lacrime e ti ferisce, con tutte quelle domande che vedi sospese dentro le sue nere pupille, di pozzi profondi e assenti di sentimenti, di un’eco che non torna, che male fa la domanda che non si fa, perché non si comprenderebbe mai la risposta e subentra quel pudore, quella eterna distanza, che succhia dalle mie vene anche l’ultima speranza di potere condividere, che pazzia, la mancanza di te. Fa male vedere la stima degli altri e il loro stupore che si mischia a un sottile dissenso e curiosità e diventa pietà …come avessero pestato in un catino ogni tuo organo vitale a piedi nudi, ridendo, godendo e ora tu sei il vino migliore della giornata peggiore. Fa male essere diversi, fa male non accettare queste regole, fa male l’esilio e più ancora ogni consiglio, che ti dice “stai cheta, stai tranquilla, nascondi la tua meraviglia, vai avanti a testa bassa, tutto passa, tutto passa, il tempo aggiusta le cose e sui morti crescono rose”, sugli ideali cresce letame e se tutto va bene tutto va male. Tanto morirò dicendo che non ci sto, tanto sono morta già quando sei morta tu,  e vorrei chiedere alla morte bestemmiando se ora lei può amarti tanto, darti tutto quello che non posso darti io, me lo deve, lo deve sempre, la sorella che passeggia accanto, che ti toglie il sogno e il canto, quella di cui nessuno sa, che si ha paura ad avere sulla bocca, come una bestemmia a messa, come un rutto ad una conferenza, come chi dice quello che pensa, che ti tocca e ti porta via, e a chi rimane lascia il vento dentro, un vento freddo, che alza foglie, in un turbine di domande in un silenzio fatto di polvere, ma fino a te è l’odore di mare, è l’odore della mia pelle, è il colore che ho dentro gli occhi, fino a te sono seni e mani e tutto il mio corpo ti rimane abbracciato e se la morte ti ha liberato dal dolore non ti ha liberata da questo amore, questo amore che arriva fino a te. Donna serena, morte nera che me la porti via e ti vedo la schiena, ricordo che ti ho supplicata di cancellarle la paura negli occhi, ricordo che te l’ho consegnata con labbra che tradivano i pensieri come pesci neri si muovevano in acque torbide e melmose, l’ho accompagnata col suono della voce e c’è una Pietà dopo la scena della croce, solo che non c’è un dio caduto tra le braccia di una madre, ma un corpo di donna tenuto da un padre, perché sorella nera, dal fascino della paura, non muore solo chi muore, c’è una morte peggiore in chi rimane con il cuore finito nel tuo nero catrame, come un uccello che non può più volare, e come le lavo queste ali ora, se lei è accanto a te che riposa. E tu senza posa mi dai il tempo, come elemosina buttata accanto, il lutto, ho una domanda per te, quando si muore dove finisce il colore degli occhi?
 E tu di cos’hai paura? Mi chiede la donna scura, e ha l’argento dentro…
Io ho paura della paura..

 Perciò toglile la paura dagli occhi, baciala sempre e tienila accanto, che non senta la mia mancanza, la mancanza di chi ami è la tortura peggiore,  usale ogni premura perché lei non abbia paura, e quando verrai da me non dimenticare di portarla con te, di portarmela tra le braccia, così come me l’hai portata via, perché lei è più mia della mia fantasia, e perché dove lei è ora io possa sdraiarmi vicina, respirare l’aria che butta dal naso, che mi porta brezza marina.


sabato 25 agosto 2012

Muse Sbagliate








Muse sbagliate.

 Avevo la giustificazione per l’assenza ingiustificata dal mondo, e te l’avrei posta sotto lo sguardo finito di mangiarti il panino, divorarti il panino, la tua leggerezza, il tuo corpo sospeso come il tuo pensiero, sorridevo, mi ha sempre fatto sorridere il tuo modo di mangiare senza alcun rispetto, lo apprezzo, mi piace persino la tua fame. Mangi nello stesso modo in cui fai sesso, d’improvviso e con appetito. La libertà di avere la casa sporca e di lasciare tutto da lavare, e fare pulire a una donna di servizio. Non ti devo aspettare è per questo che non mi puoi amare. E tu parli, e ridi, e scherzi e mangi e poi in alcuni momenti mi guardi perplesso c’è qualcosa di strano in me … sembra non ci sia con la testa, ah ecco la giustificazione … Assente causa… un imprevisto, irrefrenabile bisogno di allontanarmi dalla lezione, di religione, di ammirazione, di condizione, mi chiedevo circa te, “cosa vuole da me?” “Che tu stia zitta  e che tu sia felice”. Che tu stia zitta e che tu sia felice. Mi è passato il 68 davanti agli occhi, non potevo neppure risponderti bruciando il reggiseno, non lo avevo. Ah è così, va bene e posso tradirti quando sei via? Non rispondi… quindi acconsenti… il succo di mirtillo che mi bevo sotto i tuoi occhi è sangue tra i denti. E’ vero, ci diciamo tutto, qualsiasi cosa, quasi qualsiasi cosa, quasi, quel quasi è una porta del tempo che si apre a caso in un momento e siamo distanti anni luce, siamo a una distanza infinita quanto l’universo, e se il mondo fosse piatto non sarebbe diverso, vorrei dirti: non sai niente di me e io non so niente di te… sono anni che bleffiamo, ci adattiamo e ci conosciamo per quello che ci siamo concessi di conoscerci, ci siamo inventati uno per l’altro, potresti dimenticarti di me, potresti farlo?  Fallo ti prego, pensa che niente è vero, guardami, ora, adesso, daccapo. Chi sono, che faccio al tuo tavolo, cosa voglio da te e tu da me…? Ma no, tu mi conosci… sai quello che penso e sai che sono felice e vuoi che stia in silenzio. Il tuo mondo è facile, prevedibile come le caramelle alla menta nella casa di un vecchio, chissà perché hanno sempre caramelle alla menta i nonni, sempre, quintali… di caramelle alla menta… in vasi trasparenti. Menti. Ma è impossibile conoscere la propria musa, perché una musa è una scusa… per non conoscere nulla neppure di se’. Fanny e Alexander e il loro teatro nascosto, di un mondo sbagliato e mal predisposto, fratelli di quello che ci è caduto addosso,  mani nelle mani per le vie più oscure, chiusi in stanze bianche senza le preghiere, con l’ombra lunga di un crocifisso al muro, che come un gecko scivola sopra l’intonaco bianco, gli occhi rivolti al soffitto, censura di ogni sentimento, per te l’amore è un prete ingiusto, severo, che ti obbliga ad un credo, per me l’amore è la fuga da un prete ingiusto, severo, che mi vuole bruciare l’anima nel suo silenzio ottuso, per me l’amore è pisciare in testa all’ipocrisia, la guerra aperta al “lascia che sia”, la vendetta cieca contro ogni indifferenza e superficialità, diventare sbagliati per onestà, ti parlo dei giorni miei, non so cosa sei e qui cosa fai, cosa vuoi, vorrei dirti che t’amo per te è uno spergiuro. E forse lo direi solo per questo, mi trovo a mio agio in difetto, e poi un sentimento tiranneggiato, sporcato e giocato a dadi, un sentimento mercanteggiato a tale punto, che non so neppure se ti amo, se lo saprei dire, senza temere che tu… sguinzagli la polizia dei tuoi tabù. E siamo fratelli, amici, sento tutto ciò che dici, però questo rapporto lo trovo un po’ incestuoso, come Fanny e Alexander  che nuotano stretti per le mani, le guance gonfie d’aria, buffi come rane, usciamo per respirare, rimani. E poi oggi amici e domani fratelli e poi amanti e poi ribelli e poi artisti e poi persone tristi e poi maschere decretate nell’ora di andare, chiudiamo la porta alle spalle, e siamo da inventare. Ma tu te ne vai e quando ci sei io rimango da sola più che mai, stretta tra le tue braccia, stretta nel tuo silenzio. Non ho più paura. Non ho più paura senza te. Quel prete agghiacciante che ti bacchetta le dita delle mani, perché non mi ami? Quella tua paura nera fatta di una gonna ampia e bottoni fino alla gola, la colpa che cammina, il frusciare della veste, il fanatismo del “si deve”, e io come una bambina a giocare, qual’è  la parte migliore che non ti potrà turbare, io in camicia da notte ad aspettare di scappare via, noi strette le mani. Rimani. C’è un teatro per nasconderci tutta la vita, e tu lo sai e tu lo fai, e lo fai senza di me. Cosa sei, guardo l’amore che non ho avuto mai scivolarmi dalle dita, ho i piedi sporchi di catrame  e delle tue strategie, le tue paure imbrattano le ali dei gabbiani, inibiscono risate a pelo dell’acqua, si muore dentro e la pelle rimane pulita e intatta, un sorriso dipinto, come fai a non sapere che è finto. E qui te ne devi andare, perché dove c’era stima ora sento l’odio che sale. E qui te ne devi andare per sempre da me, perché sul mio dolore profondo hai cantato una canzone volgare, hai ammirato una bagascia che ubriaca mi ha vomitato sul cuore e tu eri complice e io in errore. La tua musa di uno scritto incompleto ti mostra il didietro e una scomoda verità, tu quale eroe sei, quale filosofo e profeta, che deve scavare le vite altrui perché la vita manca dentro di lui. Tu sorvoli la superficie ma ti vuoi confrontare con chi ha troppe ferite, mettere il tuo nome e cognome accanto a un buco profondo dove la storia scritta da un altro attende il sepolcro del tuo ultimo racconto, e poi svolazzi leggero, come la penna che salva, la penna della giustizia e degli ideali, perché non sali su questo treno di dolore reale e scopri davvero cosa vuole dire stare male, quando intervisterai te stesso, nel viaggio più lungo e meno divertente, forse lo dovresti a qualcuno a cui hai rubato tutte le lacrime che tu non sai piangere, vampiro del dolore, secondino dell’amore, parli da una vetta alta a chi sta in profondità, qui manca la luce per vedere chiaro, a te manca l’onestà. Hai un vestito sicuro, le spalle coperte e intervisti chi è spalle al muro, ora io intervisto te, come ci si sente e perché? A sgranare le vite degli altri come piselli maturi, e riempire un catino di fatti oscuri, un minestrone pronto di ideali da servire, con questo nessuno smette di morire, ma tu ti sei divertito, ti sei sentito giusto, a posto, perfetto… e quando c’è troppo dolore in una meta, in una dichiarazione, in un fine vero che sfugge, allora condiamo il tutto con un po’ di farsa, un po’ di teatro, di zucchero a velo, due battute da camionista, perché sono sempre un idealista ma teniamo il freno, prego. Bisogna parlare del dolore che brucia in un cielo sereno, coprire il sangue con piume d’oca e lividi neri con baci di velluto. Allora adesso te ne devi andare da me, perché tu non osi un granché, tu ti metti in battaglie che grondano sangue, ma lo fai bilanciandoti troppo, tu hai il salvagente, il paracadute, i guanti dove ci vogliono mani nude, e come fai a trovare l’arte vera se non sai cos’è l’amore se ti eviti il dolore e fuggi ogni responsabilità, e come faccio ora io che in te vedo tutto questo a celarmi dietro il sorriso, dietro un falso rispetto, come faccio a prendere l’amore che avrei voluto darti, ammassarlo per un cambio, di denaro sporco, restituito in pezzi grossi di invidia vera per la tua vita troppo facile che per me oggi è un' offesa, che sapore ha, mi chiedo, sulle mie labbra una tua storia con un’altra donna, ma sì vai da lei, ho bisogno di sentirmi leggera, di sapere che non ci sei, ho desiderio che un’altra mi rubi la scena e un poco provo rabbia mista a pena, in fondo so cosa c’è dietro di te. Cosa vuoi che ti dica, avevi una musa a cui avevi dato uno specchio, ti ci potevi specchiare senza trovarci un difetto, ora cosa ci vuoi fare se anche la tua musa ti ha mandato a cagare. C’è una famiglia senza braccia, ideali che lottano con la risacca, piedi sporchi sotto lenzuola pulite, di corse notturne e paesaggi segreti che tu non vedi, c’è sulla mia fronte pallida un buco della serratura posato dalle tue labbra come un bacio di premura, non hai la chiave per sapere tutto quello che sta dietro un volto, e dietro quella fessura scura che ho appena sopra lo sguardo c’è una lotta che dura anni, c’è il tuo ritardo, e tu ti inganni nella pace finta degli sguardi addestrati come fortini, ci sono intenzioni che sono ponti levatoi,  tu cammini piano verso me, sotto si agitano coccodrilli, c’è una finestra sulla mia nuca con sbarre di ferro e quattro angoli di cielo, e ho fossette sopra le natiche dove donne passano un filo, è l’abito migliore il nudo che ti do… però, ci sono Madonne violentate e questo è un peccato mortale e poi c’è una Madonna crocefissa nella mia chiesa e ci vorrebbe un Dio scemo a trovarlo blasfemo, perché le donne sono messe in croce da un eternità ma nessuno che dipinga questa verità. E poi c’è un dolore profondo, un pozzo di sangue mio, puoi toccare con le dita, la tua convenienza e la tua prudenza ti allontaneranno, il disagio ti salverà, dalla mia impudenza, dalla mia realtà, ho tagliato i ponti anche con chi non dovevo e cosa credevo… che il mondo avrebbe apprezzato, applaudito, che mi avrebbe salvato, ma sì… che sia… la sicurezza dell’ipocrisia, la convenienza all’occorrenza, salviamo l’apparenza, brindiamo alla superficialità e moriamo ad ogni età, ho scelto da sempre la curiosità, e spiare il dolore pensando di non essere vista è stata una mia svista lo ammetto, così ci sono finita dentro, addirittura sotto, fino a dovere uscire da un’apnea, dove il fiato interrotto ha preso lo spazio di ogni concetto, ma poi ho scoperto quello che già sapevo, se tocchi il fondo del tuo dolore quando è immenso e ti martella le tempie, come campane costanti in giorni di festa solo per gli altri, e lo senti nello sterno e devi quasi compensare, salire veloce e poi ansimare, dopo la risalita galleggi sulla gioia infinita, e poi la serenità e poi la felicità che ti lava i piedi, e labbra fresche sopra i seni, i tuoi capelli si allargano sull’acqua come mani aperte, come stelle marine, costellazioni vicine, piccoli branchi di pesci mordono il tuo corpo, è la stessa sensazione di una febbre alta, … quando senti che se ne va, una leggerezza estrema, sudore sul cuscino, che diventa ghiaccio sulle guance e sulla tua pelle, un soffio di aria fredda nel corpo che è stato bollente, riesci a sentirti tutta, fino alla punta delle dita, un cane che lecca la tua ferita, sei nella corteccia degli alberi, nell’aria  e nella terra, e la tua solitudine con l’umanità è il baratto che ti serviva per entrare nella vita che ti circonda e che abbonda di cortesia e amore, solo parla un linguaggio diverso, di certo migliore, di immagini e di odori, di sensazioni e colori, e di malinconia e da questa compagnia non me ne andrei più via… Ti sei scelto una musa ribelle che ti ha amato fin dentro la pelle ma poi non è che ti puoi stupire se ora vai a farti benedire, se avevi una musa più accomodante …una musa come tante, si sarebbe accontentata della poesia e di un ritratto perfetto e di tutto rispetto e ti avrebbe ricambiato con successo, non lo so, io di muse non ne ho, non mi fido tanto, metti che, siano tutte come me… allora un capolavoro rimarrebbe a metà, un artista schiacciato nella sua viltà, non è cosa di tutti i giorni che una musa ti tratteggi i contorni, che ti consideri un lavoro sbagliato e poco interessante, su cui ci si annoia in maniera elegante, ci sono donne idealizzate che vorrebbero solo essere amate, spogliarsi del tutto e gettare alle ortiche quell’abito che non si sono mai scelte, fatto di centimetri di bava costante dove dovrebbero solo esserci mutande, magari cellulite sulle cosce e mani a cercare e a salire verso ciò che vorresti proibire, e tutte le voglie interrotte perché potessi mettere in rima bugie come fossero scelte mie.

venerdì 10 agosto 2012

Maya


Non guardare - Acrilico su faesite - 2012





Non guardare


Per i clandestini che muoiono in mare,
Per tutte le donne di ogni colore che sono come Madonne
Per Maya e la mia battaglia.

E’ sempre una questione di soldi, di giustizia appesa a un gancio da macello, di protesta nella pistola puntata alla testa, di supplica, della mie dita verso la tua zampa che cerca, è sempre una questione antica, è S. Francesco  che si allontana da questo mondo con il corpo d’agnello sulle spalle che non sacrificherà per le vostre balle… E’ un mondo minore il mio, è un mondo in esilio Dio, ho due rivoluzionari appesi al collo e parole d’orgoglio sostituite alle lingue veloci di condoglianze gettate dal vostro palato in questo giorno che a me manca il fiato, sto all’angolo di un’umanità insana, che è morta dove la vita chiama, ama gli ideali di Guevara e L’amore di Assisi ho giorni macinati dei peccati peggiori, l’indifferenza con cui piantate le croci. E giocano tutti a fare dio… nessuno che dica allora muoio anch’io… a modo mio… lascio il vostro senso dei miracoli sprecato, e persino tutto quello che ho creduto, ho gettato tutto alle spalle nell’attesa della battaglia giusta come dell’onda perfetta per un surfista, mi manca la magia e l’ingenuità che avevo per vedere il cielo con gli occhi di un bambino, mi pesa enormemente questa guerra che ho nel cuore ma se non la faccio adesso potrei anche morire.


Non guardare,
Nell’agonia mi manca il tuo sorriso, che l’onda non me lo porti via, nell’agonia questo mare ribelle mi impedisce di sentire l’odore, l’odore della tua pelle, tu piangi e chiami e io non ho un domani, ne’ per me, ne’ per te, non ho un perché, a stento una canzone, e le parole mi tremano, passano a fatica come il vento da un portone a cui sto appoggiata come gettata e strappata perché non voglio che entri quell’aria sciagurata che ti porti via, si può perdere un lavoro, si può perdere una casa, persino l’idea di patria e non avere nazionalità, si può perdere la serietà, la dignità, la libertà, la sincerità, la purezza, la verità, la fede, l’educazione, si può perdere la ragione ma non si può perdere la vita di un figlio, la morte non da’ precedenze per età, questo una madre non lo sa, non lo può accettare, non lo può davvero sostenere, inciampano le preghiere e la fede diventa bugia, e il senso di colpa ti lambisce, ti ferisce, consuma la tua pelle, è come l’erosione dell’acqua, il senso di colpa ti sputa in faccia, e una madre si sente in colpa se un figlio muore, perché non l’ha potuto salvare, perché gli ha donato insieme alla vita il dolore, puoi non guardare. Eppure fa male. E poi un processo mai avvenuto, sospiri i nomi di chi ti ha tradito, sono un soffio del tuo respiro e hanno un forte vento  contro e al tuo perché io non rispondo.
La madre stringeva la testa del bambino sul seno,
il bambino succhiava sale,
Non guardare … sussurrate parole straniere cadevano da labbra segnate dal sole, dal vento, dal freddo, dalla notte senza tempo e in passato dalle botte. E dire che mi basterebbe l’odore del rosmarino, raccontarti favole, averti vicino. Non guardare, una madre aveva riccioli neri tra le dita affusolate, teneva la testa di suo figlio come fosse in un dipinto. E dire che mi basterebbe il frinire delle cicale per essere felice, per lasciarci andare, Non guardare.
Non guardare le onde, non guardare il fratello che muore, quanti soldi è costato questo viaggio all’inferno solo andata, hai una madre snaturata, volevo per te un futuro diverso, ma non c’è verso… se si parla di noi, se si tratta di noi. Non guardare e dire che mi basterebbe l’odore di pesce marcio portato dal mare, se fossimo a riva a sorridere e gridare, se fossimo … altri... come si fa ad avere paura per la tua pelle scura, e copriva il bambino con ogni premura, come può il mondo lasciarci morire senza intervenire, e guardava il volto del bambino che pareva dormire, non guardare, non guardare, sussurrava e cullava la madre, cantava e cullava la madre, una nenia africana, una nenia lontana, non guardare… puoi non guardare… Occhi clandestini, occhi stranieri, occhi sgranati, sguardi fieri, occhi di bolina sul mondo, non guardare andiamo affondo, e la Dea nera come una Madonna distante reggeva un bambino in fasce, niente parole benedette e niente latte, e la Dea nera sorreggeva la testa del bambino come fosse leggero sorreggere il destino, il bambino aveva la bocca sul suo seno, succhiava sale, non guardare. Succhio sale, succhiamo sale, abbiamo i piedi nell’acqua e l’acqua sale, abbiamo sale sulle ferite, indifferenti come le nostre vite, abbiamo sale dappertutto, diritti sotto sale, beviamo sale per la sete, ma graffia la gola e la sete non passa, la sete aumenta e dovunque guardiamo, moriamo, moriamo, moriamo, quanto costa un sogno, costa come un viaggio, come perdere un figlio strappato dall’onda, un male dentro che sale. Sale. Scongiuri la morte ma lei vuole guardare e tu non guardare, c’è una madre, è una Madonna nera, non è sospesa dentro una chiesa, non merita parole, non ispira preghiera, eppure è l’unica Madonna vera, ha gli occhi svuotati dai sogni, tanto costa avere bisogni… ha una supplica dentro il petto fa male più di qualsiasi progetto, se potesse passare suo figlio dalle sue mani alle altre mani… non le importerebbe di morire, se potesse dargli le ali, poi abbassa lo sguardo sulla testa piccolina, sta in una sua mano, lei è come una regina, sembra che neppure la morte, la fame, la sete e il freddo abbiano scalfito quel viso così bello, l’estetica della vita che ti fa bella quando dentro si allarga la ferita e di sangue ti senti traboccare, scosta i capelli del figlio zuppi di sale, lo vede sfuocato per via dello sguardo colmo di lacrime, solo sale per esprimere il dolore, per bere, per morire, succhiamo sale, succhiamo sale, non guardare, non guardare, la madonna nera sorride e la morte sembra leggera, sorride nel guardare il suo bambino, la sua pelle, le sue dita, le sue labbra, la sua vita, quegli occhi che ancora non sanno, ma su quegli occhi tutto il peso del mondo, immondo, mentre si spengono anime belle, come candele tutte attorno, senza rumore, senza clamore, senza neppure un filo di voce, come uccelli fieri di volare che d’improvviso vedi precipitare, puoi non guardare, puoi non guardare, o puoi adorare una Madonna bianca, pensare che il diritto alla vita sia un passaporto, che un morto sia diverso da un altro morto, che un figlio sia diverso da tuo figlio, ci sono scuse surgelate, vanno solo un po’ riscaldate, c’è una notizia a un telegiornale, passa veloce e puoi non guardare, non ci possiamo fare niente. E’ vero c’è chi oggi muore, e chi è morto da sempre. Porta una corona di fiori ma non per loro, posala sopra i tuoi confini, che dove lasci morire i diritti lì trovi gli assassini, i diritti appesi a fili da stendere, dove corvi hanno chiuso le ali, il vento passa tra le loro piume nere, e si dimenticano le parole vere, quelle da dire al momento giusto, nel lutto, profondo, dell’uomo che ha dimenticato, come si protesta, come si alza il capo, il dolore che chiude le ali e la voce, il dolore che trova per rifugio la croce, e dire che mi basterebbe sentire la risata dei gabbiani per arrivare con un sorriso incerto a domani, se è più facile dire che sono morti per burocrazia, vorrei lasciare il mio nome se sono battezzata, vorrei lasciare il mio passaporto e la mia carta d’identità, vorrei non avere nazionalità, vorrei avere diritto di vita, vorrei essere figlia del mondo, vorrei non avere una famiglia di sangue, vorrei essere orfana di un’identità che mi pone al di la’ dei loro occhi, della loro pelle, degli stessi sogni, della stessa voglia, degli stessi diritti, della stessa storia, vorrei piangere e bestemmiare per ogni uomo perso in mare come fosse mio padre, mio fratello, per ogni bambino come fosse figlio mio, posso non guardare, ho la nazionalità, la mia famiglia, la mia carta di identità, sono battezzata, sono salva, posso non guardare, essere il mio codice fiscale, ma per ogni morto in mare io sono più sola, siamo tutti soli, tutti beviamo sale, la morte ha fantasia, a volte abita le persone gli dona l’indifferenza… le consuma lentamente lasciandole in vita, tanto sono morte per sempre, di questa immortalità, di questa verità, puoi non guardare, ma un giorno non guardare farà altrettanto male, persino più male, non conosco alternativa o si muore nel dolore altrui o non si morirà mai e non per buona sorte, è che la morte non visita due volte. E tu abbandonavi la vita e io che avevo la tua testa tra le dita mi sforzavo di raccontarti del nostro incontro e di come avesse cambiato questo mondo e trattenevo le lacrime e volevo che le parole avessero mani di velluto sul tuo bel viso conosciuto, era il mio accompagnarti, era il mio saluto, ho parlato alla morte, “se proprio la vuoi, fai in modo che non senta dolore, dagli forza per questo viaggio migliore, dove non occorre carta d’identità o passaporto” e tu ascoltavi bambina mia, la favola che ti raccontavo lenta di noi e dei giorni nostri, adesso io ho la mancanza di te, adesso sono una madre che si chiede perché, muoio ogni giorno, mi hanno strappato il cuore insieme alla tua vita, mi hanno lasciato una battaglia da esprimere con le dita, mi hanno gettato una lotta da fare, e dei diritti che ho visto marcire, mi hanno cacciato in un tribunale con un lutto masticato che lascia in bocca un sapore amaro che non posso deglutire senza morire, senza morire. A costo di attraversare l’oceano delle cattive intenzioni, a costo di farmi nemici e vestirmi  di giudizi pesanti e infelici, a costo di raccogliere gli sputi del mondo, le minacce,  cercherò un esilio che disseta come acqua da bere nel deserto, un esilio e un’oasi di pace e incredulità eppure di spade e lealtà, a costo di perdere, a costo della bestemmia per la preghiera, a costo di non lasciarti per sempre, a costo di non dimenticarti mai, a costo di portare un’emorragia di sangue importante dentro me dove eri te, dove eri te. A costo di sentire tutto il male della parola rivoluzione, a costo di cambiare alla verità il nome, a costo di fare i partigiani di una pace finta, a costo di tutta la convenienza, per la tua assenza, per la tua assenza, per la malinconia che mi strappa gli occhi, per i sogni che ci hanno interrotti, per i diritti, per la giustizia, per l’amore, per tutte le ore che non passo con te, per i perché traditi prima che i tuoi occhi si chiudessero, per adesso, per sempre, per il passato, per quello che sarà e per quello che è stato, per l’indifferenza della tua morte, per l’inconsistenza dei valori, per quello che senza forze solo con il tuo sguardo imploravi e non c’erano risposte, per le mie colpe, per non poterti salvare, per il male che sento che respiro con il vento, per te, per te, comincio una lotta che avrà vita dentro la mia vita, decido adesso che la ferita rimanga aperta non cerco la cicatrice, non cerco il tempo che passa e aggiusta le cose e neppure “che tanto si muore”, non cerco scuse, per la lotta dei diritti non si è mai veramente sconfitti, per la lotta di oggi e domani tu rimani. Tu rimani.




mercoledì 18 luglio 2012

Virago






Drammaturgia – Eloisa Guidarelli


Pezzo tratto da   “…. Quello che avete dentro…
                                   Tiratelo fuori!”




Virago è in piedi in reggiseno e asciugamano in vita, ma l’asciugamano rivela forme tutt’altro che femminili, il gruppetto fissa l’asciugamano ipnotizzato -


Virago – Che c’è! Potrei essere un normalissimo travestito o non avete mai visto neppure questo? Solo che non lo sono, ce lo avevo appena accennato, ma il caro dottore che mi aveva in cura ha fatto questo bel lavoro, ha fatto qualche esperimento, Oh per carità poi mi ha sposato, diceva di amarmi, era indeciso, il dottore, se voleva un uomo o una donna e nell’attesa di asportarmi o ingrossarmi il seno, mi faceva crescere il pisello, ha offerto parte della sua faccia per questo, quando si dice una testa di cazzo. Se non lo facevo fuori chissà cos’altro si sarebbe inventato Frankeinstein.  Sono uomo e donna e non me lo sono mai scelto. (Diviene triste) Il mondo, come è fatto il mondo, c’è il bagno degli uomini e delle donne, non c’è un terzo bagno per chi è tutte e due e, le docce? Se vado dagli uomini mi guardano le tette, se vado dalle donne mi guardano il pisello, essere un fenomeno, un fenomeno da baraccone, da circo, rispondere alle domande a cui io centinaia di volte da solo ho provato a rispondermi e amare chi? Come amare e chi? Come amare e chi, senza fargli male, senza ferirla o ferirlo e le parole, maschili e femminili, i lavori maschili e femminili o più maschili o più femminili. Da bambino sotto l’albero di Natale pregavo mi arrivasse un’identità, pregavo per magia di sedermi sul cesso come una donna senza vedermi pendere quel piccolo pisello, ma il mondo, come è fatto il mondo, va pazzo per questo, pensate che sia finito il tempo delle streghe? Il tempo in cui ti bruciavano in piazza o il nazismo prendeva i diversi e gli ebrei e li faceva uscire da un camino? No, la violenza ha una gamma infinita di sfumature e su di me le sofferenze fanno arcobaleno.

Silenzio di tutti –


Arturo – Io ti sposo.


Virago – Tu sei un pervertito, ecco perché, ma nessuno lo farebbe. Oh! Come amante sì, per questo credevo che quel dottore mi amasse, sapete chi mi ha veramente amato, da chi mi sono sentito veramente amato per pochi minuti interminabili per poi perderla per sempre di vista?

Libera – Una donna?

Virago – Era una donna, ed era per me un angelo. Ero andato in piscina, ero andato con un costume intero da donna, il seno mi usciva prorompente dal costume e sotto si vedeva il resto, ma lei era entrata nella mia corsia, tra tanta gente, naturalmente in acqua fece caso solo alla mia parte superiore e mi sorrise con un sorriso di una solarità infinita, diceva semplicemente amo te e amo tutti, amo te perché sono del mondo e niente può togliermi gioia, tutto questo in quegli occhi chiari, in quel sorriso bianco e pochi ciuffi di capelli biondi che uscivano da quella cuffia in silicone nera. Le tirava la pelle tanto era stretta, le segnava quella tenera pelle, avrà avuto vent’anni, e cominciò a nuotare vasca dopo vasca, come un pesce, ne fece quaranta di fila, virava alla fine, facendo uscire dall’acqua le gambe, affiorare il sedere, per poi scomparire ancora. Il nero del costume, lucido come la pelle d’un pesce, mi evitava veloce se le capitavo davanti, per non interrompersi, per non farci male. Ma mi aveva sorriso, era entrata nella corsia dove ero io, non si era spostata, non se ne era andata, soffiava aria nella mia stessa acqua, posava le sue labbra, apriva i suoi occhi dove io posavo le mie e aprivo i miei, perché per lei non ero un diverso. Andò a  farsi la doccia, io la seguii, di nuovo sotto la doccia sorrise, tra i capelli che si toglieva dal viso e la schiuma, osservò i grandi seni, era così piccola e tutta donna lei e lo sapeva, guardò veloce all’altezza delle mie gambe, perché i miei seni erano troppo dritti e duri e perfetti, non morbidi e imperfetti come i suoi, trasalì un momento e scostò lo sguardo, capii che non mi voleva offendere e capii qualcos’altro, eravamo soli nelle docce e lei desiderava, lo sentivo, e il suo sguardo costante alla porta me lo confermava, che nessuna donna che non potesse capire entrasse e mi ferisse con lo sguardo e mi ferisse con le idee o mi facesse addirittura uscire. Il verde di quegli occhi arrossati di cloro avevano sorriso, avevano avuto paura, avevano amato, capito e protetto, nel giro di pochi secondi, era stata figlia, amante, amica e madre…

Libera – Virago quanto dolore, continua, parlaci dell’amore…

Virago – L’amore, lo riconosci appena ti è passato davanti, perché è troppo forte e improvviso e tu te ne difendi o lo guardi impotente come un incendio che ti brucia la casa, ti porta via tutto ciò che sei in un battibaleno ma… è fuoco e lo guardi mangiare e lo guardi e basta senza potere reagire. Ti puoi solo lasciare investire. (Riprendendo la storia trasognato) – Così si lavava senza togliersi il costume, scostandolo e insaponandosi, non per pudore, non mi voleva sbattere in faccia la sua femminilità, aveva capelli lunghi e biondi, era andata allo specchio sciogliendosi i nodi, la sua pelle scossa da brividi di freddo, era donna lei e lo sapeva, era viva di qualcosa e lo sentiva, era viva della coscienza di sé. – Pausa sofferente – Che è tutto ciò che occorre per essere in vita. Non avevo resistito  a tale delicatezza, mi avvicinai lasciando che l’acqua scorresse…

Arturo – Parlaci dell’amore Virago, continua.

Virago – Le accarezzai i capelli con le mie mani rozze e le dissi “ Guarda che bei capelli ha il nostro pesciolino”

Braga – Che frase del cazzo!

Libera – SSSSt! E’ bellissima coglione!

Virago – Sì, forse era pure una frase del cazzo, si voltò di scatto, poi il suo normale timore si trasformò ancora in amore e paura di ferirmi, mi vedeva, vedeva questa mascella enorme, questa barba rasata che mi deturpava la pelle e quelle ridicole boe in silicone e il mio cazzo e il costume nero da donna e, per la prima volta anch’io mi vedevo nell’immagine verde che lei mi rifletteva, aprì ancora il suo sorriso e quelle perle di denti bianchi e allegri mi salvarono ennesimamente dalla paura che sentivo, la paura di non essere. Disse: “Grazie” e io aggiunsi subito per paura di perderla : “Sei un pesce, nuoti come un pesce, ti chiamerò pesciolino quando ti vedrò” Le dissi anche che spesso nuotavo la sera e poi prese la sua roba e se ne andò, portandosi dietro, quella scia d’amore incondizionato che faceva parte di se’. Io rimasi al freddo e senza identità, assaggiando un sentimento gratuito che non avrei osato chiedere. Non era sesso, ne’ desiderio di lei, lei era come un’immagine sacra, che puoi solo guardare e lasciare che ti investa di tutto e lasciarti tornare niente, la doccia scorreva e questo era il solo rumore che sentivo dentro, e questo era solo ciò che ero in quel momento.

giovedì 5 luglio 2012

Testa o croce








Stavo all’angolo della tua mente  giocavo con l’arte dei miei perché, avevo un sorriso carta da zucchero, ero leggera come le note di una canzone che non si ricorda più a memoria, ero necessaria come l’idea della rivoluzione, sbagliata come la storia, annoiata dei fatti annodati stretti, di un cibo benedetto che lascio all’angolo del piatto, aspetto lo schiaffo, se avessi fatto la brava, lo so, da maschilista quale sei, se avessi fatto la brava oggi ne morirei… Se avessi giocato di strategia… lo so, se avessi giocato di strategia, che ingenua a perdermi dietro la fantasia… se avessi… se avessi e non ho… uomo perfetto di chi sarai e di chi sarò,  a quale gioco giochiamo, forse “Ti amo”, scusa la mia risata… non è giornata, con ciò, mi dispiace quasi per il peso che porti dentro di te, queste definizioni esatte, queste risposte giuste, questo dispensare minuti e il tempo delle giornate, come perle preziose di collane sgranate in preghiere costanti, questo odore di incenso, questo essere costretto in un progetto onesto con tutto e tutti forchè con te. Che vuoi da me, che ti ho dato la schiena, per cambiare argomento, per rubarti la scena, che vuoi da una come me, che sta andando controcorrente inciampando quasi per la fretta di evitare la via retta, che vuoi dal mio dolore, dalla mia gioia, dal mio sapore, poggiare le tue mani pesanti su seni assenti dai tuoi impegni quotidiani, cosa ami… e perché… tu corteggi l’assenza di me, della quale io stessa sono innamorata, io non posso entrare in questa giornata, come potrei parlarti dell’oblio è solo mio, come potrei parlarti della corruzione nella curiosità, nella fantasia, nel sentire alle orecchie un nome, e come posso dirti dell’ingenuità disarmante che veste il corpo di chi è in colpa da sempre, ti offro l’odore della mia pelle, poggia l’orecchio sulla ferita, sulle rotaie di questa vita, senti arrivare il locomotore, è stato un errore e si deve pagare, è un mondo in punizione, è un mondo in preghiera, è un mondo di espiazione, è un mondo di peccato, è un mondo di santi e di chi ha sempre bleffato, è un mondo esteriore, è un mondo per errore, è un mondo che ti giochi d’azzardo, cammino su vetri rotti e quando non mi taglio … è un miracolo senz’altro. Però tutti a spiare sotto i cappucci neri dei pensieri nelle briglie dei migliori avvocati, non parlo, non penso, non dico senza il mio legale, osare fa male, e sento che l’arte mi scende dalla schiena, mi accarezza le natiche, mi è tra le gambe e sento pensieri bollenti e taciuti di vizi cresciuti dietro a sbarre imponenti, senti, senti. Vieni, vieni ti manca poco, senti l’odore di quello che hai lasciato per fare felice un padrone inventato, io faccio l’amore con il vento e le cicale tu mi guardi e stai male, di me e di te e di tutti i perché, io mi gioco tutto in un momento esatto, tu aspetti troppo e sei distratto, sento la tua acquolina alla gola, la passione non rassicura e non ti consola, povero dio divenuto censura, prurito, vergogna e persino paura, e con la lingua penzoloni, muoversi a carponi sono gli ubbidienti, quelli al posto giusto e al momento esatto si presentano puntuali, nella bocca un “sissignore”, quelli che un giorno forse diranno quanto tu vali o ti compreranno, signora mia, priva di ogni fantasia, profuma di grana la tua ipocrisia, signora mia scandalizzata, da una donna più nuda, da una brutta giornata, scandali di sole e rancidi a morire, scandali come pozzanghere d’invidie, lasciate stare… stiamo ai lati di vite differenti, io ho scelto di non coprire gli occhi, questo mi permette di soffrire anche di più, ma c’è qualcosa di assolutamente divino quando sei felice dell’odore del rosmarino, del rumore delle cicale, del vostro sguardo che sale sulle mie gambe nude, c’è qualcosa di squisito nel vostro disappunto, c’è qualcosa di lascivo, nel vostro sguardo unto, c’è una spinta migliore alla schiena e la coscienza mi lascia serena. E come stai tu che non ti sei toccato perché saresti diventato cieco, e al dottore non hai giocato, non era educato, come stai con il vestito pulito nella cresima migliore della tua idea esteriore, se salti la messa e sputi l’ostia te la faccio vedere, ci stai a pensare, tempo scaduto,  era un gesto di pace, testa o croce, o usi la testa o servi la croce, ho un’idea precoce di rivoluzione, eravamo fratelli e stavamo al centro della via di un campeggio pieno di pigne, di una strada fatta di polvere, di una vita di meraviglie, ci infilavamo sotto la maglietta le bocce all’altezza del seno, e aspettavamo di fare ridere tutti i passanti, perché… eravamo adulti nani con tette in silicone, eravamo parodie libere di un passato senza colpe, eravamo glabri dal senso del peccato ed era così bello quando a uno sconosciuto scappava una risata.  Affondo le labbra nel latte bianco, a 12 anni in jeans rotti sul culo ci si sente uno schianto, come ti va, passavo di qua, curiosità nella volgarità, gioco di fioretto nel tuo giorno perfetto, come si sta ad avere la propria crescita interiore in agenda, a consumare ogni esperienza per appuntamento, forse in quella “data ora” ci si consola. Che fai, vieni di sotto con me, suoniamo tutti i campanelli, siamo così scemi e così ribelli, cosa fai, vieni con me, si entra in Chiesa, si finge di pregare e poi ci si tocca e si guarda la faccia che fa il prete, vieni con me c’è una battaglia di pigne tra bande rivali, vieni con me… che la cattiva via porta alla fantasia, vieni con me scrivi la favola nera, inventiamoci pirati buoni di certe occasioni, non facciamo male a nessuno… ma la loro moralità quella ti ucciderà… E mi innamoravo sempre del capo di qualche banda, e da bambina non ero esattamente una femmina, avevo dato un nome ad ogni parte del corpo e nulla era sporco, ero talmente dentro la natura da usarmi ogni premura e i capelli erano aria, i piedi mare e sabbia, i capezzoli acerbi viole senza giardinieri, crescevano i seni con i miei pensieri. Veri. Gioca con me.  Ero talmente dentro la natura che niente faceva paura e se mi avessero detto tornerai cenere non mi sarei stupita perché sentivo nella cenere la vita. Buttiamo l’ancora di questo vascello, tu dici è un gommone e neppure bello, allora vieni via ho una diligenza tutta mia, tu dici è una vecchia macchina da cucire… E solo per questo non vuoi salire?

mercoledì 20 giugno 2012

L'Innocente






L’Innocente.

E tu che cantavi, mi lasciavo crescere i capelli, mi tagliavano gli ideali, dalla bocca non possono uscire  parole, è spesso cucita e la bocca è una ferita, le mie parole per questo escono sempre dalle dita, e il pensiero è un serpente arrotolato che dorme sotto le sopracciglia, sfiorato dalle ciglia,  palpebre che sono cancelli e dietro fiori belli, non calpestare le aiuole, un giardino privato assetato, ci volano farfalle nell’unico giorno di vita, e spiegano le ali tutti i minuti lenti che tu non senti. Il pensiero non passa dalla bocca, abile incantatrice, quando come vento solleva le labbra sui denti, tu scorgi un piccolo triangolo bianco, e ti perdi. La bocca è una donna che seduce alzando le vesti, e tu ti fidi, raccogli le intenzioni, soppesi le occasioni, e ci sono mille deviazioni,  c’è una danza dei sette veli a cui non credi ma ti concedi, eccome se ti concedi, le parole sono belle e perverse, si seducono a vicenda, come le idee diverse, come pesci che lottano nell’ombra,  le code trasparenti e colorate s’avvolgono gettate nella lotta dell’estate, in una piccola vasca di cemento, ornata apposta per dare un senso di foresta nascosta nel tuo grigio convento, perciò stai attento… Però se il pensiero esce dalle mani non c’è scorciatoia migliore e in agguato di noi stessi possiamo solo guardare. Questo sciopero di sentimenti, queste risate sott’acqua, espresse dagli occhi, tutta la seduzione che sento quando mi si impone il silenzio, è come dire a una bambina viziata di reprimere una risata, occhi negli occhi,  labbra serrate, facce quasi attaccate, pupille nelle pupille, la tua pelle, la mia, la mappa sfuocata di ogni fantasia, perde chi ride per primo e chi ride è cretino, impossibile non farsi una risata, non fare scoppiare la censura, un cuore bambino non conosce paura. Premura. E siamo daccapo aspetto il tuo coraggio, ti cammino intorno, ti cogliessi mai in fallo. Ti amo per questo senz’altro. Cammino sul filo da un tempo infinito, non c’è rete di salvezza, l’equilibrio richiede la calma e tu vai troppo di fretta. Tu non ti fermi a pensare, tu non ti fermi a sognare, tu sei l’aria fredda che colpisce il viso, l’ossigeno della giornata, la tua vita non va capita ma respirata. E in una nuvola mia di rabbia e incanto con il tuo odore addosso, il vento soltanto, mi sale dalle gambe, mi afferra le cosce e soffia su labbra nascoste. Pensavo all’ultimo giorno del mondo senza un lavoro, senza una casa, pensavo all’ultimo giorno del mondo quando nello stomaco hai un sogno, il sogno ti scalda, ti porta via, ti bacia il collo, ti prende ai fianchi, il sogno che sputa alla polizia, il sogno è come un filo d’erba che osservi bucare il cemento, il sogno è morbido, piega il capo alla carezza, come una donna benedetta, il sogno che annaffi nel tempo, il sogno ha sete e pretende e soprattutto lui non mente, il sogno che sta in una mano come il mio seno, il sogno esce dagli occhi, te li fa belli, ha un odore sulla pelle, chi sogna è di certo ribelle, il sogno è anarchia, il sogno è filosofia, il sogno fa della vita reale una vita speciale, il sogno segna il passo, per colpa di un sogno si sbaglia tutto, sa di piscio e di rosmarino e ti respira vicino, sa di selvaggio sulla clausura, sa di blasfemo sulla preghiera, forse chi sogna fa paura, la seduzione è cosa nera, ma preferisco una vita sbagliata che una vita mai sognata. Il sogno non si adatta, il sogno si arresta alla gola, a volte ti consola, ti porta alla fine della giornata con un’aria malinconica da innamorata, ti lega i polsi con le manette, ti concede la chiave per ore perfette, il sogno si adatta nei corpi fanciulli, nelle menti pulite, e cerca le ferite, il sogno se è vero ti basta, il sogno se è vero segna il tuo passo e tu ti senti di un’altra razza, ne’ migliore, ne’ peggiore, è solo che non ti riesci più a mischiare con chi ha smesso di sognare, perché smettere di sognare porta pace e a volte una quasi serenità, come quando ci si abitua  all’idea della morte, e la paura della morte diventa scarsa professionalità, perché smettere di sognare fa diventare adulti, di quelli che tirano avanti senza chimere, di quelli concreti su cui si può contare, di quelli che non hanno bisogno di chiedere, pensare, amare, di quelli leggeri, di quelli da approvare, perché sognare, sognare fa male, e poi quanti sono morti dietro un sogno, meglio morire per un bisogno, sognare si può da bambini… oltre si diventa cretini. Ma li avete mai visti quelli che portano i sogni dentro, i disadattati di ogni momento. Ti ho vuotato le tasche sul letto, sul letto di coperte nervose, gettate a legare le nostre caviglie, ti ho svuotato le tasche e uno a  uno ho messo i miei sogni vicino, come gioielli di plastica, come il tesoro di un bambino, il progetto di un assassino, come sassi trovati sul mare, come ti appare la mia collezione? Sono sempre un passo indietro a ogni tuo segreto. Ti ho svuotato gli occhi dalle lacrime che non ho più pianto, e con le mani penso di averti dedicato un canto, quando cercavo nella tua pelle tutte le ore della mia vita e mi sembrava che il tempo andasse in salita, in salita come vidi l’acqua andare una volta quando una tromba d’aria mi ha quasi travolta, i sogni poggiati come soldi rubati, stropicciati, tra il mio e il tuo respiro, tra il mio seno e il tuo petto, le mie labbra, il tuo ombelico, tra le nostre pance, gendarmi alle spalle che non vediamo ma sentiamo, battono a terra il fucile, e non riusciamo a dirci “Ti amo” che forse neppure lo sappiamo, il poco tempo a disposizione che da’ l’amore come la prigione, così uno sguardo è l’infinito e pesa molto di più quello che non dico, devo fare stare tutto in una tasca, devo scegliere bene, quello che può servire, quello che conviene. Ci sarà aria abbastanza, ci sarà una catena lunga a sufficienza, così io ti ho mostrato veloce quello che al mondo avevo rubato, quello che al mondo non ho dato il permesso che mi fosse trafugato, stava in una tasca appena, stava in uno sguardo in tralice, stava in un sorriso incompleto, nel bacio che ti ha visto sorpreso, stava nell’andare via, ho soppesato l’immoralità, ho tagliuzzato la mia identità, non gli ho neppure lasciato la mia parte nera, serviva a me come al giorno la sera. Ho scambiato l’oro per vetri colorati e consumati dal sale, perché seguendo il profilo di quelle forme lavorate dalle onde con il dito ho capito. Ho poggiato le mani sulle mie ginocchia, giocavo con la mia pelle che persino il pudore era strategia e non sono tua e neppure mia, seduti gambe divaricate e piedi poggiati altrove, talloni contro i talloni, ad arginare il bacino artificiale delle nostre risate, erano lì per noi e ce le siamo bevute in parole cadute come da quelle macchinette di plastica sulle spiagge che vomitano palline trasparenti, te le sei comprate, cadevano a terra come l’estate. Sono qua, ho svuotato i miei sogni, con questi non si compra niente, ma con questi so come ci si sente, se questi venissero a mancare allora capiresti fino in fondo cosa è il male, non è necessariamente un dolore, forse è l’esatto opposto, è un anestetico profondo, perciò ho preso anche tutto il mio dolore, voglio conoscere il sapore delle ferite su quello che dite. . . E i sogni derisi e proibiti, sogni perseguitati, sogni che ti attaccano il corpo come l’edera il tronco, sogni per ogni galera, sogni scossi dai poliziotti, sogni schiaffeggiati sul lavoro, sogni che tolgono il decoro e suscitano un’invidia profonda e si affonda. Negli occhi dei sognatori, si affonda nei loro errori, si affonda tra le loro gambe, si affonda inutilmente, rimani sospeso come sul mare, puoi galleggiare, essere un corpo morto, dondolare, hanno occhi distanti, un ritmo calmo del cuore, sono onde e correnti… li percepisci e non li senti, gli uomini a cui i sogni scorrono sotto la pelle , scorrono come una corrente fredda, si rallenta… si prendono le proporzioni della vita, si fa l’amore con gli ideali e si è felici senza alcuna ragione, si è felici per condizione, si è felici in un minuto che sembra infinito, uno sguardo fiero e pieno di dignità di chi si sarà anche reso ridicolo, di chi non si tradirà, di chi non si venderà, di chi non si perdonerà di lasciare l’incertezza per la comodità. Di lasciare un sogno per la realtà. E lascia la famiglia che ti accarezza la testa, dicendo “mi basta che cresca onesta”, e lascia il sorriso che si scopre sul viso come un palcoscenico abituale, mentre una mano glaciale, orgogliosa, ti mostra alla società, frutto senza età, con le dita lunghe e sottili, unghie laccate a suggerire come ci si deve prostituire, poggiate sotto il tuo mento. “E’ sempre buona in ogni momento” e lascia la mano appoggiata alla guancia, “sembra una santa”,  e lascia labbra che ti baciano di fretta “speriamo non abbia grilli per la testa”, lascia il tuo nome caderti giù per la schiena, “devi stare serena” , lascia l’ostia benedetta, la comunione, la recensione, lascia la censura, tieniti la paura, parla di te, lascia che il tribunale più nero ti scruti davvero, poi nella tua essenza beviti fino all’ultimo sorso la loro sentenza, spietata quanto la tua incoerenza, e poi di tutte le tue contraddizioni fanne un punto d’orgoglio, in quell’elenco interminabile di delitti e di accuse che come gocce d’acqua sporca cadono ora dal viso, la pancia…l’ombelico, le dita dei piedi… per essere soltanto di se’ stessi si è disposti a correre tutti i rischi, a farsi credere maledetti, che ti cada la pazzia sul timido sorriso, che la malinconia ti lecchi tra le scapole, mentre a testa bassa sarai punita perché non sei della tua razza, che il ghiaccio dei giudizi altrui lasci la scia sopra la tua pelle calda e scura, come la lumaca sopra la foglia bagnata, scambia il dolore con la risata, e quando si avvicineranno con un bisturi alle tue tempie, con parole lente e senza colore, ti spiegheranno che è naturale, che è così che si muore, che la morte si accosta alla vita con curiosità infinita, come le loro lingue astute alle tue orecchie, allora porta i tuoi sogni bambini in un angolo sicuro, in un nido, in un punto oscuro, che sta dentro te, e come una madre fiera con la bava alla bocca e ringhiando tieni lontani i cacciatori  scaltri, quelli che hanno un cuore anemico e bianco, come la neve, un cuore che pare lieve e lascia orme pesanti da te appena distanti, quelli che ti avvicineranno, spareranno, spareranno… lo faranno anche leccandoti le dita dei piedi, lo faranno quando non li vedi, lo faranno quando avrai brividi di piacere, lo faranno quando sui tuoi occhi le chimere volteggeranno a schiere, lo faranno sulle tue intenzioni sincere.

Come si potesse uccidere un sogno…, l’innocente lo sa e si addormenta spesso con tra le braccia un fucile e accanto un orsetto. L’innocente lo sa… E questo caldo alla testa, questa afa dentro, questo pensiero tremendo, mi apro la camicia alla finestra, un’onda perfetta che si chiude e si avvolge davanti al mio viso, ha ingoiato per sempre questa infermità, ti offro conchiglie e alghe marce tu cosa mi dai? ti offro l’amore, che è come l’odore della terra dopo una giornata di pioggia, lo farei se mi raccontassi i sogni tuoi…