martedì 14 giugno 2022

La tua follia asciutta di cicale sotto il sole


 

La tua follia asciutta di cicale sotto il sole.

 

Avevo scelto accuratamente il vestito e la biancheria intima per un romantico vaffanculo. A passo veloce, sfuggenti riflessi dalle vetrine come scatti rubati all’anima, falcavo l’aria a passo marziale, per non essere in ritardo al funerale del nostro prequel di un sesso senza seguito.

Puoi toglierti la maschera so che dietro non c’è volto, amo la sincerità del tuo corpo senza testa perché hai la maschera di quello che hai voluto che vedessi nella tua mano destra. Mi piace quando accampi scuse, e pensi che io sia così scema e me le beva, quel castello di cazzate di carta, una sull’altra, in equilibrio precario non mi offende più, l'offesa di te stesso sei tu. E poi quanto ossigeno di botta alla tua partenza, sei strisciato via veloce e sinusoidale ti sei infilato dentro l’ascensore, dandomi le spalle, io avevo il tempo di una colazione. Sola. La più bella colazione della mia vita. Tutto era buono, la pasta era una favola, il caffè era vero caffè, e io avevo addosso quel cappotto, era il mio quadro perfetto, lo stesso cappotto che avevo sdraiato dentro la macchina dell’uomo che davvero ho amato. L’uomo che ho amato di più e non eri tu. Quando sei talmente innamorata che ti dici potrei morire, morire adesso che tutto è perfetto, che del resto so già tutto, morire adesso tanto che differenza fa, siamo l’eternità. Un cappotto coperta, una macchina bianca come una barca, a precipizio nella notte sulla neve, la luna perpendicolare al battito cardiaco, posso ancora sentire sotto i polpastrelli le gocce d’acqua e vapore di disegni interrotti e sublimi ai finestrini. Ne ho bisogno, mi protegge, mi scalda, mi pare mi faccia volare e sbattere porte, sono io, quel cappotto sono io, potrebbe andarsene allacciato da solo con tutte le mie idee sotto nude e calde. Avevo le mie valigie, una tracolla sulla spalla destra, una tracolla sulla sinistra, un incrocio di lacci sul petto, sembravo pronta per il confine, sembravo il dott. Zivago, e non mi sarei girata mai. Era freddo, era sciopero, avevo ogni motivo per essere felice e ancora ogni motivo per essere depressa, ma ero e basta, e la mia colazione era perfetta. Era stata una bella notte, al mattino potevo pure non essere io, del resto non sapevo neppure chi cazzo fossi tu, non sarei uscita da quel bar, si la parte migliore è stata la colazione peccato che tu te ne fossi andato o magari è stato proprio per quello. Da lì seduta come tanti, quanto dolore passato, quanto dolore ancora avrei avuto davanti. Tanto rumore è come il silenzio. Fa lo stesso effetto di isolamento intatto. Ecco perché nei Bar vanno a scriverci dentro. E’ come stare in un utero con voci e ombre esterne che non ti riguardano ancora. Quando sono staccata persino da me e dal mio stesso nome e sento come invece siamo tutti legati uno ad uno in un tragico, assurdo, comico destino. Ferma assente nel presente, il sapore del miele sulle labbra. Ora sarei uscita e tutto sarebbe ricominciato, veloce, un carosello folle, ma se restavo sospesa in quell’acquario di luce gialla, lì tutto era al rallentatore, era danza. Rumore dei piattini, parole gettate per abitudine, sorrisi che si sdraiano sui volti inconsapevoli di sorridere, sguardi scontrini, nell’ora di andare e di morire, rituale impastato ancora di sogni e vite parallele. Il nulla ha un rumore, un sapore, è un sottofondo di cucchiaini che mescolano e denti che masticano, pensieri dislessici in ritardo o in anticipo sui gesti abituali. E io senza nome e senza storia. Se fossi restata fino a scomparire… dissolvermi, nel concerto per lavastoviglie e sussurri, tra i grazie e arrivederci, un bar come una stazione, di arrivi e partenze, un’area di decompressione.  Invece, ho bilanciato le borse e sono uscita nel freddo. Senza neppure compensare ho affrontato l’apnea del mattino. E le voci tutte mi sono rotolate alle spalle, scivolate sulla schiena come rose del deserto spinte dal vento freddo della porta spalancata. Cammino nella città vuota, questa è un’altra vita, so che sono sola all'interno di me stessa, è come guidare un sommergibile nelle tenebre, i passanti sono scogli e rocce che evito con una disinvolta maestria, che ironia siamo tutti soli e non possiamo condividere davvero, possiamo raccontarci, esplorarci, scoparci, proiettare identità, desiderarci, ma siamo sempre soli, viviamo soli, moriamo soli, possiamo pensare di avere amici, nemici, a loro volta soli, pianeti che ruotano, entrano in collisione, si sfiorano, tangenti, indifferenti, in un ciclo indipendente continuo e solitario. Nessuno di noi ha scelto di nascere, la nostra vita è cominciata con una non scelta, e forse dopo in grande parte è proseguita con l’illusione che ci fosse una scelta, certo scegliamo, ma in base alle opzioni che ci si presentano, in base a quello che abbiamo, mai o quasi mai per come siamo, il meglio, il peggio, d’istinto, per convenienza, per vigliaccheria. Ruminiamo sereni massificati in un ampio recinto, difendiamo confini con orgoglio, e spaliamo merda dai mulini a vento. Siamo il nostro sogno irrisolto. Lo accarezziamo, lo addestriamo, e gli diciamo di attaccare. Lo teniamo nascosto, in un punto a volte troppo profondo, e non è più scandagliabile persino ai nostri occhi. Pesci ciechi nell'acqua nera, privi di luce, guidanti da istinti e movimenti lenti o a scatti, fermi sul fondo, le branchie mobili a setacciare ossigeno accarezzati dalla melma. Siamo talmente soli che quando non esisteremo più, tutto questo non esisterà più, non esisterà più solo per noi. "Noi" un plurale dal dolore singolare. Ora conoscete una solitudine più grande e perfetta di questa? E' indubbio c'è genialità nel sadismo della vita, negli universi paralleli e nei buchi neri dei pensieri, possiamo prenderla con sarcasmo, cinismo o con una certa ironia, possiamo essere disperati ma con stile, possiamo portare un dolore intatto con occhi colmi di fascino. La verità è che siamo il nostro amante, la nostra famiglia, il nostro amico e i nostri nemici, i nostri genitori, mentori e professori, il nostro tribunale peggiore e il nostro carcere a vita e quindi è di vitale importanza andare d’accordo con se stessi e lavorare sull’autostima, perché tanto vale trovarci almeno interessanti ai nostri occhi non potendo separarci da noi stessi. Il nostro portafortuna durerà più di noi, i nostri abiti, le nostre mutande, e la nostra sigaretta dureranno più di noi, il nostro inquinamento durerà più di noi. Ci muoviamo come immagini virtuali senza sentire la nostra fragilità e il rumore del nostro sangue come un fiume rosso controcorrente ci dice che siamo tempo, siamo fatti di tempo, tempo che abbiamo stabilito e creato, potevamo essere solo ossigeno, sentimenti incostanti meravigliosi fragili ed eterni, ma abbiamo deciso di essere minuti, ore e secondi, abbiamo deciso di avere fretta, di bruciare, quasi che correndo e zigzagando potessimo galleggiare in eterno in questo stagno. La donna urla all'improvviso e io non so neppure se sono a Bologna, ci sono due falchi che hanno fatto a pezzi due colombi, mi avvicino con la paura di riconoscere una coda piumata attaccata all’addome, non voglio vedere il capo di quell'animale altrove, non voglio cercare con gli occhi del dolore pezzi da ricomporre nella memoria, ma soprattutto non voglio conferma di un orrore vissuto con anticipo. Perché allora mi avvicino come un soldato abituato alla morte, perché non posso tirare dritto? Devo guardare i corpi, la morte, la lotta, la preda e la caccia, devo vivere tutta la paura, implodere di impotenza. Eccolo il tempo esatto della responsabilità dell’incontro. Essere tutto. E questo tutto non ha pietà di me.  Perché il mio volto è una maschera di freddo e distacco, perché arriva come eco tragica la tua risata unica, piena di dolore trattenuto e poi esploso? Un ricordo lento e liscio che si allarga come olio. E’ tardi su tutto quando mi avvicino alla donna,  mi cadono  parole monocordi e tragiche da labbra impotenti, sono lacrime, attonite e costanti, gocce cadenzate nel lavandino di un film di Bergman, i passi si muovono seguendo un metronomo interiore, il dolore è così antico, qualcosa di insinuante e cinico, annaspa per recuperare un po’ di egoismo per la sopravvivenza, ma non lo trova. Non posso. Non posso sopportare questa vita e il suo peso. “Si signora, ci sono i falchi, i falchi attaccano i colombi” E’ uscita da me questa frase? Ha un senso, è ordinata, comprensibile, strano dentro ho una tempesta e niente è ordinato e comprensibile. Ci sono i falchi, si anche a Bologna, continuo a parlare a me stessa con gli occhi fissi sul sangue che resta. Guardo la mia coda e le mie ali distanti, vedo il mio corpo spezzato, chiaramente. Ci sono prede, come me, il cuore ci batte veloce, sono morta tante volte signora, tante volte, sento tutto, sento la paura a miglia di distanza, i passi mi ricordano il dolore di esistere. Ho falchi su di me, stanno in un punto alto, fino a quando non si precipitano sul mio corpo per farlo a pezzi, ho falchi sopra la testa. E il momento peggiore, il momento peggiore è sapere che posso tornare a sorridere, il momento peggiore è quando a quel dolore trascinato nel tempo io non appartengo, c’è qualcosa di ingiusto nell’elaborazione del lutto, c’è qualcosa di terrificante nei lineamenti che devo trattenere per non farli svanire, c’è qualcosa di inquietante nella distanza che crea il tempo portandoti via tutto, perché alla fine ho qualcosa di chi amo fino a quando lo trattengo. Dentro. E lo psicologo con fare da psicologo mi parlava da Marte. “Soffrire o essere felici alla fine è una nostra scelta, se ci pensa bene noi possiamo scegliere di soffrire come di non soffrire” Ah si? Perché cazzo sono qui...  Lo guardo come si studia un insetto mai visto prima.

 

Un conto alla rovescia e hai il tempo per nasconderti, poi ti vengo a cercare, non farti trovare. Ho le mani aperte sugli occhi chiusi, sono stelle marine pescate da acque salate e loro non possono più respirare neppure se adesso le ributterai in mare.

 

Aspetti le apro le porte delle mia anima nuova, ecco alla sua destra come alla sua sinistra le interiora, qui è tutto stato distrutto, ecco cos’è il lutto. Macerie dopo la guerra. Certo posso decidere anche di non soffrire, le chiudo la porta di questa anima a pezzi e ci facciamo due cicchetti? Posso essere un androide sereno, anzi a pensarci bene è per questa applicazione che la pago.

 

So che spalancherà le fauci il senso di colpa, conosco le risate piene del castigo, quelle uscite di corsa e lanciate sulle scale, sbattendo la porta, conosco i sorrisi traditi dal dolore, usciti quasi senza pensare ma che adesso vogliono arretrare. Una bellezza spenta, nascosta, una fossa comune, un cimitero di ossa, un azzardo colto in fallo. Il prurito osceno di verità immorali, cascate trasparenti dai denti, la sorgente fresca, di stupefacente bellezza.  La felicità e il dolore come due mani, palmo contro palmo, non vedi è sempre stata la stessa identica cosa, il sangue rosso che filtra nella neve, i popcorn e le ciliegie, una storia di merda, una colazione perfetta, un lutto nascosto dentro il cappotto, il tuo corpo spezzato, le ali perdute, un cielo capovolto, una donna spaventata, rassicurata prontamente dell’inevitabile. L’inevitabile non ha colpa, ma io non ho bisogno della colpa per stare male mi viene bene uguale. Il mio dolore non cerca scuse, scorciatoie, indulti. Non c’è cauzione per il mio dolore. Resta. Anche se pago. La resa, occhi testimoni fermi e incapaci come le mani, le intenzioni tenute a freno, un guinzaglio corto alle emozioni, perché se tremo lo vedono, lo sentono. Riesco ad essere felice nel dolore più profondo, perché lo esploro, ci cammino dentro, esco dal lato opposto e ricomincio fino a quando lo trasformo.

 

Così nelle giornate più belle ho ricucito la mia pelle.

 

“Eloisa”.

Sento tutto il peso del mio nome quando mi volto a fatica.