mercoledì 15 gennaio 2020

Clochard - parte seconda

 
 
Clochard - drammaturgia Eloisa Guidarelli - seconda parte -
 
 
 
Ettore – E tu donna barbuta ce l'hai un uomo? Ce l'avrai avuto un uomo.
 
Gretel – Certo che ce l'ho avuto. Ce ne ho avuti tanti. Quando ero giovane lavoravo a un villaggio, un centro naturista in Corsica. (pausa) “La chiappa”. (pausa) E lì mi sono innamorata di un francese, se sento ancora una parola in francese mi calo le mutande e piscio qui, sulla strada. Ma io non ce l’avevo con i francesi, prima. Prima di fidanzarmi con quello. Ora vorrei essere un cecchino nella macchia e farli cadere uno a uno. Ero troppo autentica, troppo vera, non ero così mielosa, affettata e neanche così stronza. E’ che quelli l’odio te lo tirano fuori, si impegnano finché tu all'ennesimo “Salut" gli tireresti un gancio in bocca. Steso. Ci passo sopra. Sembra che hanno fatto la storia, non sono una che si censura ma stavolta è il caso. Ho una rabbia dentro, vorrei avere quei sacchi che hanno i pugili, con una sua foto grande tutto il sacco ed esaurirmi a forza di calci e pugni. Meglio dell’orgasmo. E dovere sentire quelle frasi: "l'unico amore è quello della mamma" a me, a me che lo amavo! "per una donna, una donna è solo affetto - ribadiva - tu sei una donna, solo una donna non una madre” , cosa, cosa? Gli faccio io, speak English, Italian o speak cazzate? E’ venuto fuori questo concetto, capito? Roba da prendere la propria passera, metterla in un beauty e portarla via con il resto degli affetti personali. Montarla in un altro giorno, con un altro uomo. Cominciavo a capire che tra noi andava meglio quando per via della lingua non capivamo un cazzo. Ma l’ho imparato il francese, perché aiuta sapere una lingua, sì. Guarda qua! Dipende per fare cosa (ride sguaiatamente). Quando vai con uno straniero hai questa enorme libertà, non capire quello che dice, che è come dire la pace. Tu Mosè capivi il tuo uomo, parlavate la stessa lingua, lo credo che ti butti in mare. Insomma ci sono i ruoli, tu sei donna e non sei madre e se tu sei madre non sei donna! Allora, la prima l’ho capita, la seconda mi ha fatto vedere rosso come i tori! Mi è passato il 68 davanti, ho visto bruciare il reggiseno e penso persino di essermi rivolta alla Madonna da non credente, per chiederle se avevo capito bene (pausa, ci riflette sopra)
 
 Vabbeh magari è vero...
 
Ettore – Ti ha risposto così la Madonna?
 
Gretel – Ettore tu sei così scemo che commuovi! E’ che il mio uomo aveva quel cinismo, quel dire “mi avete fregato, ho sofferto e per dispetto non amo più” Ma allora sei morto tu! Un idealista morto non serve, un amante morto in altri letti non serve, quindi dì al tuo sesso "alzati e cammina”! E' che l'uomo ha il cervello nell'uccello e non può soffrire, l'unico modo per colpire un uomo nel profondo è un calcio nei coglioni! Che fai Mosè piangi? Ma non vale per te, tu hai il cuore di una donna, anche la testa, tu hai solo il sesso dell’uomo ma non conta, cioè non è che non conta il tuo sesso, merda, io non ci so fare con le parole, va bene, e neanche con i sentimenti e con i sentimentali, ma che cazzo ti piangi, smettila, scusa, scusa!
 
I due si guardano perplessi, Mosè piange. Buio. Cambio scena. Un altro uomo sul marciapiede solo.
 
-         Sono padre, figlio, amico. Sto navigando solo, il timone nella mano, all’orizzonte niente di preciso, una calma che scende a placarsi sul cuore. Solo piccole onde piatte, solo il loro lieve rumore come canzone. Potrai fuggire ovunque, ma ovunque nel mondo sarò tuo padre, potrò fuggirti ovunque, ma ovunque nel mondo sarai mio figlio. Qualcosa mi sfugge. Come lanciato dopo anni di sofferenze nel mondo, nella vita, ancora, solo appena sedato, tirato come biglia sulla sabbia, sulla pista tutta curve di un bambino di cui seguo le tracce. Il mondo è crudele, banale, ma oggi tutto questo non mi riguarda, come se i miei occhi trattenessero solo amore con tenacia e lasciassero scorrere tutto il resto in un buco nero che mi si apre all’altezza del petto. Non so quanta disperazione ci sia in me per giungere a questa soluzione, per mettermi al centro di un sentiero a gambe incrociate e aspettare. Tutto mi filtra attraverso. Una corsa sfrenata e poi bloccarsi di scatto e … che tutto ciò che ho appena superato, mi travolga, per poi, come onda che si gonfia alle spalle, darmi la spinta, la spinta avanti. Sono nudo, il corpo a croce, galleggio nell'acqua e di me non so più nulla o forse tutto per la prima volta. Dopo non essere riuscito a spiegare a nessuno la sofferenza che mi ha travolto, sopraffatto e strizzato come spugna. Dopo e ancora dopo essere rotolato dentro me più e più volte. Ora. E non so più dove arrivano le mie braccia di padre, dove ho lasciato cadere quelle di figlio, piangente, deluso, sui fianchi.
 
Buio, cambio scena. Ettore, Gretel e Mosè, i tre clochard guardano lontano.
 
Ettore – Non ci crederai ma vedo un altro uomo in mare.
 
Gretel – Ma sono uomini o salmoni? Che è la stagione? Mosè è tuo parente quello? Quanti devono arrivare ancora? Questa è la notte più di merda della mia vita!
 
Mosè – Vado a tirarlo su.
 
Ettore – Guarda prima che non sia il poliziotto, fingono a volte di essere morti come i ragni…
 
Gretel – Guarda l’ha preso. Speriamo bene... se non è una brava persona lo ributtiamo!
 
Torna Mosè trascinando un uomo per le braccia
 
Ettore -  Guarda, questo è più furbo c’ha le scarpe come le mie!
 
Gretel – Ma non le ha!
 
Ettore – Appunto, lo conosci Mosè?
 
Mosè – Io non lo so, non so nemmeno il mio nome.
 
Ettore – (rivolto a Gretel) Dovresti farlo rinvenire come con Mosè.
 
Gretel – Va bene, ora mi metto sotto vento.
 
Uomo - Ho acceso la radio, c'era il mare in ogni canale.
 
Gretel – E’ toccato anche questo. Che notte. E’ troppo, troppo anche per dei barboni. Che fate voi due impalati?
 
Ettore – Io e Mosè andiamo a cercare qualcosa, qualcosa da mangiare. Lui non ha ancora mangiato.
 
Gretel – Ma è notte.
 
Ettore – Ma qui c'è un istituto, un istituto con dentro delle suore e proviamo a bussare, i disgraziati come noi si sa mica hanno orari. Se uno c’ha fame…
 
Gretel – Non è mica Natale, non vedi? Non c'è mica la televisione che riprende la buona azione, o vedi la televisione? A Natale ci fanno una cena coi fiocchi. Tu devi solo aspettare e mangiare tanto da fartela durare fino al prossimo Natale!
 
Ettore – Merda siamo a Febbraio. Mosè tu dovevi aspettare  Natale a fare il barbone, però vieni che si va io e te, si va, tanto per ingannare lo stomaco, se tu allo stomaco gli dici che stai andando per cercargli il cibo, quello per un po’ si placa sai? Vieni ci facciamo la litoranea dei bidoni, sai la gente a volte butta cibo ancora commestibile.
 
Gretel – Ecco andate, che vedo se riesco a dormire.
 
I due se ne vanno, rimangono Gretel e l’uomo.
 
Uomo – Io sono Mangiafuoco.
 
Gretel – Tu guarda, io la Fatina!
 
Mangiafuoco – Nella mia zona mi chiamano così per via della barba lunga.
 
Gretel – Perché la tieni così lunga te la vuoi calpestare?
 
Mangiafuoco – Mi faccio crescere la barba fino a quando mio figlio non torna e se me l'hanno ammazzato, finché qualcuno non mi spiega perché, perché me lo hanno ammazzato, chi mi ha portato qui?
 
Gretel – Un ragazzetto che non si ricorda il nome. Uno che nell'acqua si era buttato come te. L’ha tirato su Ettore, l’altro barbone, ora se ne sono andati.
 
Mangiafuoco – Paura di dimenticarmi di me. Una persona. Paura del mio io. Tornerò a essere solo figlio? Prolungamento di qualcuno, appendice di un corpo esistito prima del mio. Dipende solo da me e da cosa il mondo ha deciso di presentarmi come menù dei miei prossimi giorni.
 
Gretel – Amen, qui non abbiamo mai avuto un gran menù...
 
Mangiafuoco (guardandosi i piedi) – I piedi dovrebbero tenere il conto, la memoria di tutti gli spazi di terra percorsi dai primi anni di vita. La mente dimentica, non trattiene, perde pensieri, perde sentieri, come scolapasta dai buchi troppo ampi. Le piante dei piedi dovrebbero percorrere i ricordi. Ma per salvezza la mente bleffa, bisognerebbe viaggiare più spesso, tagliare cordoni ombelicali appena formati, penso quasi di capire chi fugge.
 
Gretel – Anch’io. Questa notte in particolare.
 
Mangiafuoco – Ho sempre pensato fosse infantile o vigliacco, magari è una ricerca della verità. Anche quella. Fino all’osso. Mentre le onde mi lambivano teneramente le gambe, i fianchi e, giocavo con le mani, trattenendo sassi, una terribile nostalgia, preceduta da una percezione, maturare era accumulare un’infinità di adii. Legarsi, fondersi con donne e uomini e doverli irrimediabilmente lasciare, così per i familiari e le cose. Del resto non è questa la morte? Ci viene dato e tolto, forse un viaggio è come sperimentare la morte. Un sapore appena gustato. Il tempo di riconoscerlo un giorno. Forse chi fugge non sopporta tutto questo, l'addio appostato come cecchino dietro l'abbraccio. Il killer sadico che ti strizza l'occhio immediatamente dopo il coito. Anche il coito è come sperimentare la morte. L’abbandono totale delle membra, come seppie galleggianti nel mare, qualcosa che era.
 
Gretel – E quello che era stato il sapore di un bacio… era e basta.
 
Mangiafuoco – Vorrei infinitamente trattenere a me, per sempre, per sempre l'affetto. Anche quello già provato. Vorrei potermi raggiungere e trascinare in un ultimo ballo, anche quando ho già detto addio alla mia donna. Ma come potrei farlo? Io non ho un passato.
 
Gretel – Non ho avuto uomini miei. Io sono stata loro. Io sono stata loro. E così ho dipinto donne che precipitavano dai loro occhi, affogate in bicchieri colmi delle loro stesse lacrime, ho dipinto donne con occhi che erano braccia, donne con troppi seni, bambine con troppa testa. Malinconia profonda di una vista che non si ricorda, non si traduce in ciò che pensavamo fosse la vita. Un racconto che non torna, perso in qualche fiaba. Ora ci deve essere un uomo capace di trattenermi, ma con un amore convincente. Un narratore credibile che mi affascini fino in  fondo. E che i suoi occhi non mentano e gli tengano il passo come le briglie a un cavallo.
 
Mangiafuoco – Credevo alle sirene. Ma qualcuno ha mozzato loro il canto, venduto le loro code al mercato del pesce, fatto uno scempio. Oggi hanno occhi tristi che si bagnano per il sale e sguardi imploranti motivi, chi gli ha saccheggiato il mare e perché? Ma è il padrone in difetto in questo mondo, è il padrone a dipendere dallo schiavo. Perché sono stati sempre gli schiavi indispensabili ai padroni e mai viceversa. E’ il padrone a dipendere dallo schiavo, lo schiavo deve solo capirlo. Aspetto solo che chi mi ha sedotto cambi rotta. Io tornerò nel mio profondo. C’è stata la possibilità di morire qui, adesso voglio vedere oltre, mi serve altra vita, altra polvere per morire meglio dopo. Mi serve capire chi si nasconde davvero dentro me, chi è quella creatura misteriosa che esce a scatti dalla conchiglia, quando sente che ci sto soffiando sopra, cosa la fa uscire, cosa rientrare nella fredda spirale scolpita dalle onde. Le onde. Il loro rumore. Basta questo. E se vuoi che tutto davvero si fermi, anche solo per un attimo, sai che puoi farlo. Puoi fermarti quando vuoi e riprendere il respiro. Soprattutto se la tua corsa sfrenata non ti permette di renderti conto del paesaggio attorno. Qualcosa che ti stai perdendo. Qualcosa che ti scivola via.
 
Gretel – Quando vedrò un’orca lontana mi ricorderò di lui, lui che amava le orche per la fedeltà e il bisogno del branco. E io tornerò pipistrello. La notte voli spezzati, planate improvvise, rapido stacco da basso! Proprio quando qualcuno avrebbe potuto toccarmi con la sua mano. Un giorno racconterò l’improbabile storia d'amore tra un'orca marina e un pipistrello.
 
Cambio scena, ai bordi della strada, Mosè ed Ettore
 
Mosè – Il mio uomo dice che la morte è stupida. Anche morire per un ideale, la morte dice, è sempre stupida, perché  la morte è niente, dice. E io gli dico : "e questo, questo cos'è?"  E le parole mi escono a fatica e non sembrano venire da me, ma è da me che vengono. Sai, a volte sono stanco, vorrei dire al mondo, fammi scendere. Stanco di fare troppo parte di tutto. La politica, la guerra, sono lontane. Sono lontane, no? Da me, da te, da noi… Sono in una scatola che si guarda, sono nella carta che si legge, sono in un computer, ma implodono dentro i lamenti di uomini senza scelte e senza nome. Il mondo piange, gli ho detto. E io piango con lui. Vorrei fosse solo amore, verso i bambini, gli animali e lo stesso pianeta, vorrei che la gente amasse la gente. Semplicemente, vorrei solo conoscere la parola “dare”, avere, sarebbe di conseguenza implicito, e poi che si tornasse al baratto, che non si maneggiassero più soldi, che il petrolio non fosse mai più importante della vita, che la religione non fosse più un’abile strategia di guerra, che un figlio non fosse quantificabile in spese e bilanci. Che fosse figlio. E basta. Ma lui mi ha risposto che il mondo non era bello, semplice e perfetto, e lui riusciva a dirmelo con un sorriso quasi di scherno, tanto che mi sono sentito fesso, ingenuo e piccolo, poi mi ha detto: “leggi Sartre, la sua filosofia, leggi Eco!" Li leggerò, li leggerò, da come parlava di quei libri sembrava avere ottenuto tutte le risposte. Li leggerò. Guarda, Ettore! Una cicala, ha lasciato la sua pelle attaccata a un albero, l’involucro trasparente, perfetto, ci sono tutte le zampe… Sento che anch’io presto uscirò dalla mia stessa schiena, rimarrà un’enorme buco, vedi? Così rimarrà la mia pelle perfetta, incantata nell’ultimo atto quotidiano. Io sarò in un altro posto, nato da me stesso, lasciato da me stesso. Qualcuno passando troverà affascinante quello che era e non è, quello che era e non è di me.
 
Ettore – Ma Mosè, dov’è lui? Credo che dovresti tornare da lui.
Mosè – I legami sentimentali li vivo e li archivio, sento la fine come il lupo percepisce il fuoco. Eppure mi attrae il cibo, mi avvicino all’amore per cerchi concentrici, spalleggiato da un branco inesistente. Cerco di sapere il più possibile di chi ho di fronte, tutto senza parole. Gesti, sguardi, la mimica del corpo. Le parole sono abili maschere, indispensabili in questa ipocrita società, ma... gli occhi, gli sguardi, i gesti, le pause, soprattutto quello che non si dice, quello che di colpo si cela, quello resta intrappolato negli occhi, e allora, magari, si cambia discorso. E poi i respiri, gli odori, mi dico, torna ancora indietro, torna a quando non avevi strategie, né parole e guarda, osserva… trai conclusioni. Impara ad allontanarti tu, senza aspettare che il mondo si congedi da te. Non ho consequenzialità, non ho percezione del presente, per voi barboni, invece, il presente è ciò che conta. A me escono frasi risolutive, stupidamente romantiche, neppure collocabili in questo tempo, tanto più in questa notte. Glielo ho detto che, se non lo avessi visto più, gli avrei voluto bene sempre, e lui mi ha risposto: "io sono qui adesso". La parola “adesso" e, il suo accento, come muro d'acqua m'è planato addosso, ho avuto il tempo di guardarlo meravigliato, prima di esserne travolto. La parola “adesso” non esisteva. Cosa mi stavo perdendo. Ero già morto senza saperlo. Ho risposto qualche “sì”, senza sentirlo. Ho lasciato cadere  tutto il dolore e l’odore di morte. Il sonno ci ha colti, immediatamente. Sentivo la mia mano chiusa nella sua, non mi ha mai lasciato tutta la notte. Dovrebbe bastarmi questo.
 
Ettore – E’ nella natura umana, niente ci basta mai.
 
Mosè – Persino gli amici, in realtà, non cerco più. C’è l’esigenza di sopravvivere agli affetti. Tutti. Da quando questo dentro di me accade, le persone come api attratte dalle cose più dolci, insidiose, mi avvolgono del loro ronzio con proposte allettanti. Attratti dal succo della mia determinazione, dall’odore che sprigiona la tua pelle quando hai deciso di essere solo. Non sapevo potesse essere afrodisiaca per gli altri la ricerca disperata di me. L’annullare tutto intorno, il bastarmi. Il mondo ti lascia solo sempre, ma quando tu ci riesci, quando tu lo vuoi, cominci a mancargli e  qualcosa si stringe a te. Subdolamente tesse lenti rapporti, e parole a bava di ragno creano ragnatele perfette, allora persone come equilibristi, persone che hanno fatto parte della tua vita e perfetti sconosciuti, si calano dall’alto, tenendosi al filo teso, creato dalla propria bava. Ti guardano. E' il fascino di chi si vuole lasciare tutto alle spalle ad attrarli, di chi tenta un passo dopo l'altro di non sapere altro, o forse, è che dal momento che tu ti siedi e guardi, soltanto, compaiono subito giocolieri al tuo fianco, giullari o tristi clown, attori d’ogni sorta, venditori ambulanti, ognuno a carpirti lo spazio. Lo spazio attorno. Alla società non va troppo che tu ti fermi un attimo , che dica “onestamente qui non ci capisco più un cazzo", alla società va che tu sia l'ingranaggio e che si continui comunque a girare. Se ti fermi ci sono uomini e donne con l’acquolina in bocca che assaporano il tuo distacco. E’ tutto così erotico.  Ti si avvicinano, ti annusano, percepiscono “il nuovo”, oh sì! Eccome, lo percepiscono. Ancora prima di te. Ti temono ma ti seducono, ti seducono perché ti temono. Lascio fare. Deve passarmi tutto sopra e poi attraverso, c’è l’esigenza di trasformarsi in roccia, lasciarsi accarezzare dal vento, plasmare piano dal mare, consumarsi, diventare sabbia, conchiglia, letame. Sentirsi non immortali ma biodegradabili. Ho  corteggiatori d’ogni tipo, sbucati dal nulla, a chiedermi : "Mi concede questo ballo?" Aspettano di farlo quando io sono sporco di fango. Sorrido, stanco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 3 gennaio 2020

Clochard





Clochard - Drammaturgia - Eloisa Guidarelli - Parte 1°




Clochard
 
 
 
Di
 
 
 
 
Eloisa Guidarelli
 

 

 

 
 
 

 
 
 

 







Personaggi :

 
 

Gretel

 

Ettore

 

Mosè

 

Mangiafuoco

 

Poliziotto

 

 
 

 

 


Una donna dall’età difficilmente definibile, una clochard, rumore del treno sulle rotaie. Avviluppata in una coperta, vestita per strati, con maglie logore, lise, sporche, capelli bianchi, testa bassa, respira a fatica. La testa le crolla, per poco russa, ma poi di scatto, come sorpresa, la rialza immediatamente, cerca qualcosa in un sacco di plastica, tira fuori del pane e un vasetto di carne, sembra quella per cani. Il muco le cade sul pane e fa una fatica incredibile a mangiare e respirare contemporaneamente.
 
Gretel – La gobba mi costringe a stare piegata, va bene perché non vedo in faccia la gente, la gente che si è spostata. Non riesco a mangiare e respirare, non so se ho più fame o se sono più stanca, respirare e dormire si può fare, mangiare e respirare è fatica per me. E’ bene che la gente si sia spostata, perché non devo chiedere il posto, il controllore si ostina a chiedermi il biglietto, e io faccio finta… Dove l'ho messo? Un momento che cerco, lui è nervoso non c'ha tempo, io tempo ne ho tanto invece. Non lo trovo, e svuoto il sacco.Tiro fuori un foglietto stropicciato, glielo porgo, ma scuote la testa, è solo un foglietto mica il biglietto. Quante storie! Adesso non può farmi la multa, può anche farmela ma come la pago? E lui lo sa. Può portarmi dai poliziotti ma io non ho un documento e neanche io so più come mi chiamo. Possono tenermi dentro se vogliono, ci guadagno anche un posto caldo, ma poi lo sanno,  mi devono lasciare fuori. E' incredibile come la legge vada a rotoli, quando non hai denaro non te lo possono chiedere, quando non hai un nome non ti possono perseguire e se non hai una casa... Fa finta di niente e sorride a una ragazza. Lei il biglietto lo mostra. Lei fa ancora parte della storia. Non io. Ma la ragazza mi è seduta di fronte, l’altra gente si è spostata dalla puzza perché mi sono fatta la pipì addosso e anche la cacca, ma lei resta. Da sotto la mia testa, caduta sulle ginocchia, mi sembra bella. Cerca di spiarmi, ora quasi mi tocca, questa crede che sono morta, ma io Tiè! Mi rialzo. E' una diversa, mi tratta come una persona, ci sono mille posti vuoti questa notte e lei sta qui a sniffarsi tutta sta puzza, ah per me non è un problema. Mi sposto tra le porte del treno, piene di spifferi, cosa ti porta a guardarmi, la curiosità o la paura? Quando rientro la ragazza non c’è, ma ci sono i suoi guanti... La ragazza non c'è ma avrebbe voluto lasciarmi i suoi guanti e un biglietto scritto, non l'ha fatto. Ma avrebbe voluto. Avrà temuto per un momento di finire così, come me, ma solo il treno è lo stesso. Solo il treno. Non è qualcosa che si attacca, però è uno specchio scomodo, sì. Questo sì, lo capisco.
 
Si avvicina un uomo che trascina un carrello pieno di cose.
 
Gretel - E tu chi sei?
 
Ettore – Barbone, lunga e folta barba. Per metonimia, la persona che la porta, persona che, ai margini della vita cittadina, vive d'elemosina o d'altri espedienti, incolta nell’aspetto e nell’abbigliamento.
 
Gretel – Ma che sei scemo?
 
Ettore – No, sono Ettore, non sarai una di quelle che parla la notte?
 
Gretel – Mi sono appena cacata addosso e tu ti preoccupi se parlo la notte?
 
Ettore – Sì, quello non è un problema, io alla puzza ci sono abituato e poi tiene lontani i ladri, questo è il terzo paio di scarpe.
 
Gretel – Non hai scarpe!
 
Ettore – Me le hanno date di un modello che non si vedono, è l'unico modo. Poi sono comode. Ce l'hai un nome?
 
Gretel – Ne ho uno al giorno se è per questo, perché io sono una che si annoia e poi la prima forma di schiavitù è il nome che si porta, io non lo porto, così nessuno mi chiama e non sono costretta a girarmi. Non mi hanno mai addomesticata a me.
 
Ettore – Ti dispiace se mi metto qui?
 
Gretel – Si, mi dispiacciono un sacco di cose ma non posso evitarle. L’importante è che non ti conosco e non voglio conoscerti, solo perché dividiamo lo stesso marciapiede.
 
Ettore – A me quello che mi ha rovinato è che ero un bambino sensibile, troppo. Mi ricordo che disegnavo bene da bambino e sapevo raccontare certe storie, certe storie che non tutti capivano, un giorno la maestra disse di inventarsi una storia sulle mele.
 
Gretel – Anch’io avevo una maestra che si faceva le canne...
 
Ettore – No, davvero... Io l'ho presa seriamente, ho fatto un fumetto, era la storia di due mele che cadevano dallo stesso cesto e poi ne passavano di tutti i colori, c’era chi se le voleva mangiare, rischiavano di essere schiacciate, i bambini le calciavano, ma loro rotolando si salvavano sempre ed erano sempre insieme, avevo poche vignette e dovevo concludere la storia, così ho disegnato le mele che si tenevano per mano, la strada all’orizzonte infinita, una diceva all'altra : “ …e come i vecchi invecchiano noi marciremo insieme” . Tutti mi presero in giro e la maestra disse che marcire non era romantico, forse non lo era, ma le mele non invecchiano, marciscono. Io vedevo la verità, l’ho sempre vista così com'è, né bella, né brutta, la verità. Un bambino ci rimane male quando si ride di una sua storia, di un suo disegno.
 
Gretel – A me facevano la religione a punti, sì non c’erano i voti, c'erano dei punti che ti potevi guadagnare facendo disegni, o scrivendo poesie o studiando la religione, avevi più punti se studiavi la religione, un po’ meno per una poesia e solo tre punti per un disegno!
 
Ettore – E se eri ateo?
 
Gretel – Non era contemplato, io ero atea già a sei anni e così preferivo i disegni, ma dovevo farne un sacco, valevano solo 3 punti! Disegnavo la Madonna, ma la facevo troppo bella, come una modella e con due gran poppe e il crocifisso in mezzo!
 
Ettore – Era una morte migliore, per il Cristo, intendo.
 
Gretel – Sì, ma non lo capivano, Giuseppe lo facevo giovane e bello, ma quello che non piaceva era che a Gesù gli disegnavo il pisello. Ma perché? Ce l'avrà pure avuto! Un po' come la tua storia sulle mele, non ti fanno crescere con la verità, preferiscono che vieni su a metafore. Li vedi questi piedi? Sono di un poliziotto.
 
I due alzano lo sguardo verso l’alto. Momento di pausa e risposta. Il poliziotto non è visibile. Vediamo solo i suoi piedi.
 
Gretel - Sì domani ci spostiamo, lo sappiamo 24 ore, domani ci leviamo.
 
Ettore – No, guarda non ho droga io, io sono un barbone, ma sono uno pulito, sì non mi conosci, perché mi sono ridotto così? Perché ti sei ridotto così tu! Ahi Basta! Che fai! Ho capito! Ettore, scherza, scherza, che te la fai con un barbone? Grande e grosso e se la fa con uno come me, che sta su per i quattro venti, sì vai! Gioca con il manganello, vai… che è l'unica cosa grossa che ti ritrovi tra le mani…
 
Gretel – Guarda che io non voglio casini, quelli non li devi fare incazzare!
 
Rumore del treno sui binari. Buio. Cambio scena. Una stanza, un ragazzo sui trent’anni . Voce del padre.
 
Voce - Dovresti rivedere la tua partenza, non credi? Alla luce di questi fatti! Guardami in faccia invece di imbottire quella valigia di stracci!
 
Figlio – Non sono stracci, sono le mie budella, non vedi?
 
Voce – Troppo facile tagliare la corda, e dove pensi di andare, con quali soldi? Dovresti invece chiederli a quella stronza di tua madre, non ne ha mai dati abbastanza per mantenerti!
 
Figlio – Mia madre, mia madre quando mi vede non mi chiede come sto, non mi chiama per nome, dice solo : "che fine hanno fatto i soldi che do a quello stronzo di tuo padre! E siccome è da quando sono bambino che faccio la piccola vedetta lombarda tra te e lei in questa farsa da libro cuore, ora vado. Non chiedo più niente. A nessuno. Ora me ne vado. Però prima ho da dirti una cosa, sai quegli attacchi di panico, sì pa’ quelli per cui mi facevano il valium in ospedale, ho capito, tutto risolto, era solo una questione psicologica, che non mi accettavo, invece nulla, sono gay! Pensa che mi credevo che mi cadesse il mondo addosso. Ma il mondo non cade addosso per questo. Ah, lo dici tu a quella stronza di mia madre? Papà non tenere la bocca aperta c’è una mosca che ti è caduta dentro. Io vado. Non torno. Così vi regolate un po’ voi con i soldi no? Pensa che sono talmente condizionato che quando vado in banca con il mio libretto, con il libretto… non sono romantico? Beh quando vado e chiedo dei soldi, miei eh? Miei alla banca, mi sento in colpa, mi sembra che l’uomo mi guardi severo e controlli quanto prendo e vorrei quasi scusarmi, perché prendo i soldi, i miei soldi. Non dire niente. Non puoi più farmi male, posso uscire da me e poi rientrare, come l’aria passa attraverso le finestre, anche se chiuse.
 

Porta che sbatte. Buio. Cambio scena. Il ragazzo solo

 
Figlio – Mi vedo davanti a mio padre, mia madre... in  un ultimo disperato appello, spiegargli con calma che sono diverso, diverso dai miei cugini, dai miei parenti, da chi fa le cose bene, si sposa con contratti e firme, anche se dentro, magari, piange o trema, ma c’è sempre alle cene di famiglia. Io manco sempre. Io da sempre sono la sedia vuota. La risposta non data. E mi vedo parlargli col cuore in mano, parlare a mia madre, al mondo, per ultimo a me. Me. Arrivo come l’ultima immagine di un mazzo di carte sventrato su un tavolo, da gesto esperto di esperto giocatore. Alla fine del gioco c'ero io. Io che dico a loro, accettatemi e basta. La voglia di vivere, la voglia di morire, alternarsi come la luna con il sole, solo raramente godo di un tramonto. Sono in lotta da sempre con me. Sono stanco. Ho di fronte un uomo profondamente tormentato, una strana alchimia di ragazzo e adulto, c’è qualcosa dentro di lui, qualcosa come una profonda sofferenza, ma sprigiona rabbia, a volte euforia. Mi racconta storie. E’ in grado di trascinarti dentro, ti artiglia con lo sguardo e... con le mani, gesto, dopo gesto, disegna le parole che ha letto. Io scorgo il quadro incantato, perfetto. Il tormento cerca il tormento, l’inquietudine cerca l'inquietudine. Sarà per questo che ci siamo trovati. E forse non voglio davvero sapere tutto dell’uomo che ho accanto. E' un bisogno umano, ma non dell'amore. Amare, come si ama un perfetto sconosciuto poi non si ama più. Accettarlo soltanto. Dargli tutto senza stabilire per quanto. Prendere tutto senza chiedere stati di famiglia. Non lo sappiamo fare. Soffrire colma dentro, fino all’orlo. Esattamente come amare, voglio passarci attraverso.
 
Il ragazzo apre le braccia a croce e si sbilancia come per un tuffo nel vuoto.
 
-         Mio amore, questo pezzo di vita salata è solo nostra. Un pezzetto di vita come piccolo pezzetto di torta, lascio a te la più grande, non ci sfamerà forse ma… toglie anche per poco quel buco allo stomaco. Saremo sorrisi di bambini a cui hanno riempito la pancia. Sorrisi di bambini denutriti dall’amore che si regalano pezzetti sporchi di pane. Di paure. Cuccioli che si leccano al buio,  soli. Cerchiamo di bastarci. Soltanto.
 
Buio. Cambio scena, Ettore e Gretel trascinano il ragazzo che ha perso i sensi, tenendolo rispettivamente per braccia e gambe.
 
Ettore – Respira? Bisognerà cavargli fuori l’acqua. Ha il tipo di scarpe che si vedono, domani rischia di non avercele più, domani glielo spiego.
 
Gretel –Ma che gli spieghi! Questo non è mica uno dei nostri, questo lo vedi com'è vestito? Questo domani qualcuno se lo prende, io non ci voglio parlare coi poliziotti però! Sarà trenta chili d’ossa... ma pesa.
 
Ettore – Guarda tossisce, forse vomita un po' d'acqua, meno male perché io aceto per farlo rinvenire non ne avevo…
 
Gretel – questo l'ho fatto rinvenire io dalla puzza, ed è solo il buongiorno! Mi sa che gli è andata storta, neanche i barboni si fanno più i fattacci loro, questo voleva morire e noi chi siamo per decidere…non siamo Dio. Io non vorrei mica essere salvata, una volta che riesco a buttarmi nel vuoto! Se uno mi ripesca lo riempio di calci in culo, stacci tu qui ora che si risveglia.
 
Ettore – E che gli dico io?
 
Gretel – Che sei vecchio e non sai farti i cazzi tuoi!
 
Ettore (la testa sopra il ragazzo che apre gli occhi) – Sei vecchio e non sai farti i cazzi tuoi, no io, io  sono vecchio e non so farmi... No, no, non ti preoccupare delle scarpe, ti ho messo quelle di un modello che non si vedono, nelle tue c'erano i pesci... ce l'hai un nome?
 
-         Non ricordo
 
Ettore – Ti possiamo chiamare Mosè, visto come ti abbiamo trovato, tu con l'acqua non ci sai tanto fare, ma solo fino a quando non ti ricordi…
 
Mosè – Sono un clochard?
 
Gretel – No, sei un ragazzo ben vestito, non ci si improvvisa barboni, lo si è per sfiga o per scelta o tutte e due, anche per scelta sfigata.
 
Ettore – Infatti anche tu non hai la barba, non sei una barbona, lascialo stare.
 
Gretel – Andate a quel paese tutte e due, clochard, barboni, senza tetto, invisibili, tanto domani chi vi ha conosciuto mai, domani ognuno per la sua strada!
 
Mosè – Avevo un ragazzo.
 
Gretel (ridendo sguaiatamente) Sei gay! Peggio che essere barbone, il barbone a volte, a volte eh? Lo rispettano ma uno gay, la gente dice di capire, di essere moderna, ma poi ride di te, tutti ridono di te! Se non ridono ti disprezzano e comunque ti disprezzano anche se ridono. E l’hai detto ai tuoi genitori? Mamma mia meno male che non mi è capitato un figlio gay, non che… i gusti sono gusti (ride ancora)
 
Ettore – Io lo avrei tenuto un figlio gay. L'avrei tenuto.
 
Gretel – Ho detto che non l'avrei tenuto? Vedi queste scarpe? Sono quelle di un poliziotto.
 
I tre alzano la testa verso l’alto.
 
Gretel – No, non l'ho mai visto, mostrami ancora la foto che guardo meglio, no… ma che ha fatto?
 
Ettore – No, neppure io l’ho visto, ma ce l’hai una foto dove non è incappucciato? Ahi cosa calci! Non l’ho visto quel cappuccio, quella faccia a cappuccio, quella testa di cappuccio!
 
Mosè – No, io…io sono nuovo io...
 
Ettore – E’ nuovo.
 
Gretel – E’ il mio figlio gay, domani andiamo via, tu sai che io dico la verità, mi conosci tu a me, no? Ma che ha fatto l’uomo che cerchi? Ha dato fuoco a cosa? Aspetta diccelo, ma dove vai... (verso Ettore) Che farfugliava lo sbirro?
 
Mosè – Grazie!
 
Ettore – E tu donna barbuta ce l'hai un uomo? Ce l'avrai avuto un uomo.