giovedì 26 dicembre 2019

Fuori posto



Fuori posto
 
Mi chiedo avete avuto sete oggi? Mostro dalle fauci aperte sul privato, quanto avete annusato, atteso, fremuto e poi divorato.
 
Guardando dal buco della serratura, perché non visti il mondo fa meno paura, attaccare alle spalle, attendere prede incoscienti, coi vostri occhi spalancati e senza ciglia dove da tempo è scivolata la meraviglia, grondaie secche e bucate le braccia perse nelle vostre giornate, con dita inadatte  a esprimere sentimenti, contatti umani non previsti, mani che non sanno accarezzare  abili a digitare.  E fuoriescono parole silenziose, che veloci come pesci a branco, come piranha allenati a sbranare, guidati da onde sonore, dal pulsare di arterie, attaccano e spolpano, e l’ingenuità è poltiglia rossa.
E' una pista di atletica,
attendi lo sparo,
ti colpisce alla partenza,
inglobi il respiro e la spinta
e poi corri…
fino a quando
ti si possa
consumare fino le ossa,
mangiarti le intenzioni,
hai sostituito l’azione con la ragione,
e sei così oliato,
sei pieno di vitamine e proteine,
inquinamento e anfetamine,
sei quello perfetto su cui hanno scommesso.
Hai dimenticato te stesso, ti è scivolato il tuo stato di dosso, adesso non posso, ma poi mi cercherò, è che non ricordo esattamente chi sono stato, quale parte di me non ho digerito, quale invece ho accettato di fare passare, perché raccomandata da una crisi interiore, sono troppe ore, troppo tempo, che mi addentro in labbra cucite nel silenzio.
 
Una terapia d’urto come svegliarsi alle 5.00 del mattino, si tratta di ideali, di politica, di troppa nausea di certa politica, di tentazione, che la politica possa tornare a essere passione?
Di voglia di impossibile, di credere nell’improbabile, di credere, di credere. Perché fa troppo male vivere senza un ideale.
Devo incontrarmi a Roma. Lasciare le coperte dove io e la mia cagnolina stavamo al caldo, per avventurarsi fuori al buio, un quartiere alla periferia di Bologna e scrivere su un autobus vuoto che sa di benzina, siamo solo io e il conducente. Per le strade non ho incontrato nessuno, sembrava di aggirarsi in un set cinematografico, strano che un ambiente senza persone risulti così improbabile da sembrare “finto”, per la città, investita da una micro-pioggia sottile e inquinata, io un gatto e una donna che fa jogging , siamo le sole presenze, se quella donna si sta allenando da sola con questo buio, può significare soltanto una cosa, penso mentre la osservo, “la pericolosa è lei” . Soltanto chi è il pericolo non si cura del pericolo. L'autobus fantasma parte in orario con la voce metallica e precisa che puntualizza ogni fermata a passeggeri inesistenti, tutto è oliato e predisposto nell’attesa della luce, nell'attesa della luce c'è un teatro che fa le prove per la grande messa in scena in pubblico. Io sto scrivendo in autobus per sentirmi presente, il caffè non mi basta. Sto scrivendo con una penna su un quaderno, mi manca tutto, mi mancano le cabine telefoniche a gettoni, questo pensavo di non dirlo mai, di non arrivarci mai, è come dire che ti manca un momento privato in un pisciatoio pubblico, ma almeno chiamare qualcuno lo dovevi volere veramente, anche l’amore era messo a dura prova, per non parlare degli amori a distanza, mi manca il callo dello scrittore, esiste il callo del digitatore? Il tempo delle lettere, che quando ti arrivavano notizie a causa dei ritardi postali, erano già cambiate anche le mode, mi manca la lentezza, l’attesa e, di conseguenza, quello che manca è aspettativa e speranza, persino la gioia, dove ci ha portato questo progresso, sorrido amaramente, un cellulare equivale a un braccialetto che un sorvegliato speciale deve portare in modo da essere rintracciabile ovunque. Ci siamo resi volontari ai microchip, siamo microspie con le gambe, portatori sani di microspie, ma pensiamo di avere un sacco di amici sui social network,  l’hanno pensata bene, è la dittatura più geniale mai orchestrata nella storia, ci siamo auto-consegnati, non hanno mai neppure dovuto fare la fatica di cercarci o di convincerci. Ci hanno in pugno, sempre e comunque, da quando si sono presi tutto il nostro ego e la nostra solitudine. Hanno servito una droga che tutti potessero assumere, noi siamo il guadagno, la nostra dipendenza, la nostra assuefazione e la nostra depressione, siamo disoccupati che creano continua occupazione. Siamo merce umana per statistiche, studi politici, economici, siamo le fondamenta dei poteri forti, poggiano i loro stivali, quotidianamente, sulla nostra mente, siamo esperimenti viventi e consenzienti. Sale un altro passeggero, galleggio ancora nei miei incubi recenti, le facce che incontri alle 6.00 del mattino hanno una rassegnazione totale. Il caffè che è uscito dalla mia moka potrebbe tenermi sveglia dall’alba al tramonto, eppure… Il buio fa paura, qualcosa di arcaico e istintivo, le insegne al neon di un bar un pugno in pieno stomaco, uno stupro di luce artificiale invasivo e ancora più drammatico e inquietante del buio stesso, nel buio sei fatta di pioggia sottile e sangue, persino i miei pensieri sanno di ferro. La metropolitana è diversa dall’autobus, la metropolitana a Roma è un mondo a parte, hai l'impressione che extraterrestri abitino corpi, e che ci sia una esteriorità che non ha nulla a che vedere con ciò che si agita dentro. Dentro ogni persona. Nell’immobilità di ogni persona, i loro occhi, scrutano attenti a non tradirsi, abitati da tutti quei pensieri che si agitano dentro ognuna di quelle presenze, come soldati che svolgono compiti silenziosi nei sommergibili dei loro stessi corpi. Scale mobili fitte di persone e suonatori in galleria, passi, quanti passi, mani, orari, appuntamenti, a Roma non è mai notte neppure di notte e non è mai sera, non c’è alba, nelle grandi stazioni non c’è il tempo, ci sono luci artificiali e movimento costante, un flusso senza fine, un acquario circolare. I miei pensieri non prendono bene, troppe compagnie telefoniche affollano la metropolitana e hanno tutte due gambe, troppi corridoi, gallerie che hanno cucito fuori il cielo. Una intermittenza continua di volti che si scompongono in pixel e non restano nella memoria, sono come onde che infrangono scogli, ti aggirano, ti accerchiano, ti superano, ti urtano.
 
 
Lo spazio bianco è quello che non posso scrivere
La censura
La loro è discutibile
È la mia che temo
La mia che combatto
La mia che mi rende colpevole
La mia che mi paralizza
La mia che mi evita la loro
Lo spazio bianco è il silenzio
E’ il muro
E’ la copertura
E’ l’alibi
E’ che vi sto tirando per il culo
E’ che mi sto tirando per il culo
Lo spazio bianco nel quale sono restata
Tanto tempo senza scrivere
In un traffico incessante di pensieri
Nella paura
E di conseguenza
Nel coraggio
Aggrappandomi
A quello che non so
A frammenti
Per trovare
Quel tutto
Che sta nei frammenti
 
 
 Una bimba legge sul treno, nel viaggio di ritorno verso Bologna, legge a voce alta a sua madre: "…la signora magra, era sempre vestita elegante, con i capelli pettinatissimi, uno fuori posto..."
La madre interviene e corregge “con i capelli pettinatissimi nessuno fuori posto", io però seguivo il racconto della bimba e la donna pettinatissima con un capello fuori posto aveva assunto un significato importante, era una immagine fortissima, ecco cosa non va nella nostra vita, possiamo accettare una guerra ma non un capello fuori posto, possiamo essere indifferenti a  stragi, ma temiamo la fantasia.
 
Anche le dittature temono i capelli fuori posto…
 
Siamo fottuti fin da bambini
 
Sono scesa dal treno, avevo i capelli raccolti, tutti indietro in una coda, per comodità, ho preso una sottile ciocca e l’ho sfilata dall’elastico.
 
 
 
 
Forse non esiste un solo viaggio che non sia anche un viaggio dentro di noi o almeno lo spero.