giovedì 15 marzo 2018

L'impaginatrice

Eloisa Guidarelli - Foto
 
 
L’impaginatrice
 
 
Se avete un sogno, come quello di diventare scrittori, di pubblicare il vostro romanzo, il vostro segreto tenuto a lungo nel cassetto, che dico, in una chiavetta,  allora il mio consiglio è quello di non finire mai a  lavorare presso una casa editrice, soprattutto una piccola casa editrice, magari con traffici poco chiari da parte di un editore yuppie - rampante che divide il suo tempo tra viaggi all’estero dove i soldi vengono investiti in gioco d’azzardo, e  traffici inquietanti di mobili Ikea, che regolarmente vengono recapitati alla casa editrice e guardati con malinconia dalle ragazze che lavorano presso la stessa, non pagate da mesi e che non sanno come montare i mobili e soprattutto dove poterli ulteriormente nascondere. E’ così che, da potenziale scrittrice, non avendo né conoscenze, né spalle coperte, né un’idea geniale al momento, ma un affitto da pagare e il fiato sul collo dell’affittuario,  caddi nella trappola, e scoprendo che presso una casa editrice cercavano un’impaginatrice, con l’aiuto di una mia ex compagna di classe grafica pubblicitaria, imparai a impaginare libri in una notte, anche io ho una maturità in grafica pubblicitaria ma avevo rinunciato ancora giovanissima dibattendomi in una tesina dove spiegavo a severa e  integerrima commissione di grafici che fare la grafica pubblicitaria significava fondamentalmente lavare il cervello alle persone, e su questo adducevo tesi su tesi, scomodando Marcuse, Mc Luhan, e Freud, con la determinazione di Guevara ed il sincero disprezzo di Nietzsche, leggera al contempo come Epicuro, la commissione irrimediabilmente offesa a morte mi congedò non proprio con il massimo dei voti, ma io mi sentii una sorta di Giovanna d’Arco e seguii le voci, e così mi iscrissi all’Accademia d’Arte Drammatica, divenni attrice,  e quando hai scritto “attrice” sulla tua carta d’identità diventa un vero casino trovare qualsiasi lavoro, anche perché ai colloqui non ti credono, a prescindere da ogni tua possibile esperienza lavorativa, di contro, si innamorano, e le cose si complicano, quando il tuo ipotetico datore di lavoro passa a narrarti tutta la sua infanzia. Comunque in una notte sono diventata impaginatrice e la mattina dopo sono andata al colloquio di lavoro, dopo innumerevoli colloqui di lavoro, innumerevoli lavori differenti, a progetto, sostituzioni maternità, sostituzioni Avatar, di collaborazione, sotto ricatto,  dopo essere stata cameriera, avere censito per il comune di Bologna su foto aeree tutto il verde pubblico di Bologna, avere lavorato  come commessa in un negozio di ottica per un ottico frustrato che voleva solo sciare e andare in bike e della vista degli altri, come degli ultimi occhiali alla moda, non poteva fregargliene di meno, e poi negozi di abbigliamento con commesse strattonate obbligate a lavorare e piegare maglie già piegate in una sorta di catena montaggio-cinese, buttata da un teatro all’altro,  e ancora come Baby-Sitter, come bagnina, come insegnate di Acqua-Gym, come organizzatrice eventi culturali per un mafioso che contrabbandava in quadri falsi e opere moderne e al contempo apriva bordelli in Russia, (di questo mi resi conto quando vedevo sparire le segretarie giorno, dopo giorno, senza che se ne sapesse più un benemerito nulla), pulizie ai piani in un albergo, dove seppi poi, sarebbe stata gradita anche la prostituzione delle cameriere ai piani, e ogni sorta di diavoleria pur di partecipare a questa ignobile corsa per la sopravvivenza pura, una cosa l’avevo chiara, del tuo curriculum non gli frega nulla a nessuno o almeno non è quello che fa propendere per un assunzione, così avevo deciso di andare vestita da Catwoman. Il Dialogo fu più o meno questo :
 
- Così tu sei un impaginatrice?
 
-       
 
- Sei assunta.
 
In prova ricevetti qualche volume di qualche esordiente scrittore, parte di cartaceo, parte in CD, numeri di telefono di scrittori che attendevano una risposta da sei, dieci anni, dovevo contattarli e dire che avrei preso io in mano il loro “sogno”, cominciai a contattare qualche scrittore, archiviati i morti, che erano il numero maggiore,  e i cui parenti, generalmente, mi rispondevano garbatamente che non sapevano neppure che il defunto avesse mai tentato di pubblicare qualcosa e anche chi lo sapeva schivava il discorso, discretamente glissava nell’indifferenza più assoluta, facendo intuire che potevo cestinare il tutto, in genere dovevo dare la precedenza a quelli a cui rimaneva poco da vivere, avevo questa prerogativa, l’editore mi chiamava anche la domenica se si trattava di fare un contratto e di impaginare in tutta velocità, in corsa con la vita, e consegnare appena in tempo il libro, probabilmente primo e ultimo libro, peccato che io in qualità di essere umano, mi legavo ovviamente agli scrittori, alcuni li odiavo sinceramente,  ma con altri mi perdevo in chiacchierate al bar dell’ATC tra camionisti e tranvieri e fumo, mi offrivano un succo in bicchieri annebbiati da una lavastoviglie che non lavava e caffè pomeridiani, mentre parlavano, parlavano, parlavano, alla loro impaginatrice, alla loro amante, alla loro madre, alla loro amica, alla loro musa, e io tornavo a casa e mi mettevo al computer a leggere, impaginare, a seconda del carattere che volevano, delle foto che sceglievano, a seconda che volessero solo  una correttrice di bozze o solo una madre, che ne so io, o solo una scusa, nel frattempo l’editore aveva stabilito che io ero l’impaginatrice di punta e che avevo uno studio esterno, casa mia, e questo studio esterno costava, e quindi a chi lavorava con me, lui chiedeva molti più soldi, “l’impaginatrice esterna, certo è veloce, però io devo mandare il lavoro fuori questo alza un po’ i costi…” io non lo sapevo, ero all’oscuro delle sue macchinazioni, me lo disse più tardi, un giorno, strattonandomi quasi, perché sentiva il rischio che lo sputtanassi ingenuamente, che nulla trapelasse! Io poi lo feci trapelare nell’immediato… ma questo avvenne un po’ dopo, quando appunto capii quello che stava  accadendo agli scrittori e a me che naturalmente lavoravo di più, costavo agli scrittori di più, lui guadagnava di più, ma a me non cambiava nulla, io ero sempre pagata uguale, sottopagata uguale, comunque io a lui costavo, a quello che diceva, e gli scrittori pagavano e da me pretendevano, mi chiamavano a tutte le ore e non sapevano certo che l’impaginatrice di punta prendesse 40 euro a libro, per lavorare in nero in casa sua, un buco di 40mq dall’affitto in nero, 40 euro a libro, sia che si trattasse di un volume di 400 pagine, di un’enciclopedia medica con innumerevoli foto da impaginare e magari pure correggere, rielaborare con Photoshop, oppure banalmente di un raccontino di appena 15 pagine, sempre e soli 40 euro. Gli scrittori a cui finivo per raccontarlo per coscienza e sincerità, spesso oltre ad essere stati già derubati da lui, sapendo che quei soldi che credevano per me non arrivavano a me, si tiravano fuori altri soldi e me li mettevano in mano, per la strada, a un bar, pregandomi di accettarli perché non ce la facevano a pensare che il loro libro nascesse da tale sfruttamento. In compagnia di quattro gatti, uno tra i quali Marcos da poco entrato in famiglia, salvato da una guerriglia con i cinghiali e che marcava il territorio pisciando un po’ ovunque per casa e ricordandomi  a tratti il mio ex compagno che a modo suo aveva marcato il territorio anche lui, prima che lo cacciassi e lui come atto estremo di disprezzo nei miei confronti si portasse via il televisore.  Tra lavatrici e letture di ogni tipo finivo spesso quasi accasciata, stremata, addormentata con cartelle in mano, con scadenze, appuntamenti in bar fumosi, richieste di cambiare tutto il lavoro appena finito anche all’ultimo minuto dall’andare in stampa. Sognando di diventare pittrice. Non c’era una vera  e propria selezione, non c’è alcuna selezione in una piccola casa editrice, semplicemente perché chiunque si rivolga alla casa editrice che abbia scritto un capolavoro o una cagata immensa, porta denaro, e quindi è il sognatore, lo pseudo o reale scrittore che tiene a galla la baracca, così capitava di rendersi conto di impaginare libri davvero validi e mi veniva da piangere, e libri illeggibili dai quali in genere mi usciva una risatina isterica che somigliava al preludio di pazzia di Jack Nicholson nel film Shining, e infatti il mattino aveva l’oro in bocca e gli scrittori chiamavano:
 
-        Ciao come stai, posso darti del tu? Diamoci del tu… l’hai letto, secondo te, cosa te ne sembra… voglio dire fai con calma l’impaginazione, tutto, però posso sapere cosa ne pensi ecco…
 
-        Si, ho letto, ecco penso che la storia sia originale,  però c’è un problema, visto che mi hai detto di non limitarmi all’impaginazione, ma ecco di farti l’Editing del libro, ecco… insomma…non si può scrivere un romanzo tutto in gerundio.
 
-        SILENZIO-
 
-        Pronto, mi sente? Scusa, mi senti? Ci sei?
 
 
 
-        Si, me lo hanno detto altri, questa storia del gerundio, ma ecco il fatto è che a me il gerundio piace e così lo metto.
 
-        Si, il problema è che mancano gli altri verbi, ora in un certo senso io non so neppure come tu abbia fatto a scriverlo, perché scrivere un intero libro in gerundio sia chiaro è davvero un fatto eccezionale, però ecco io dovrei sostituire qualche gerundio, sai necessariamente per la comprensione.
 
-        Capisco, se tu dici così…pochi però…Ah, scusa un’altra cosa, io non ho registrato alla S.I.A.E questo lavoro e vedi, questo è un ambiente dove poi le idee le rubano, quindi io dovrei assolutamente registrarlo prima…
 
-        Prima di cosa?
 
-        Prima che lo rubino, l’idea.
 
-        Di un libro in gerundio?
 
-        No, della trama, la storia è molto originale e voglio dire…
 
-        Si, ma ecco, non lo rubano, dentro di me pensavo “ ma vogliamo scherzare chi cazzo se lo ruba, leggerlo è stato un’impresa titanica e ora devo anche tradurlo…” In effetti la storia che emerge da questi gerundi è…sì… originale. Ma non è così facile che rubino, nel senso, ora verrà stampato e a suo nome, a tuo nome, all’interno della casa editrice nessuno ruba testi o idee, non tra noi impaginatori, io poi da quando lavoro qui voglio fare la pittrice.
 
-        Ah, io voglio fare lo scrittore.
 
Si insinua un pensiero, furtivo, subacqueo “Forse capisce solo se lo mando a cagare in gerundio”.
 
Ma il fatto è che poi al di là di tutto erano sogni, erano persone che stavano bene con i loro sogni, e io chi ero per distruggere sogni, chi ero per decretare che in quella storia, in quel pozzo di gerundi, non ci fosse in effetti un’idea importante,  c’era una storia persino commovente, di una tale pura ingenuità, magari a parte la forma era geniale, o forse io volevo pure salvarli tutti, ma tutti no, non era possibile, decisi che l’ideale era impaginare solo, non leggere nulla, e non prestarmi a dare giudizi seppure me li chiedessero sempre, se il libro era buono avrei voluto dare tutto allo scrittore e gridargli “fuggi via!” E se il libro era un completo schifo, mi deprimevo, e mi deprimeva il fatto che non ci fosse alcuna selezione, perché qualsiasi libro avrebbe avuto un certo numero di copie stabilite da contratto, una misera inaugurazione personale, ospite Eva Robbins, amica dell’editore, qualche coglione della Bologna bene, due finocchi di antipasto in pinzimonio, un vino in cartone, un trombettista preso all’angolo per strimpellare qualche nota, in caso di crisi addirittura un triste cd registrato e cantante neomelodico esibirsi in playback, comunque sarebbe andata così.  Sarebbe andata così talento o meno. Quelli che avevano talento erano nel posto sbagliato, quelli che non lo avevano erano illusi di avercelo, perché i loro soldi erano sempre soldi, i contratti sempre contratti e il denaro non è di talento o no è denaro entrante, e questo mi avviliva, mi avviliva perché il lavoro era uno dei lavori più belli che ti possano capitare, perché nel mucchio di scrittori folli c’era anche tanta bellezza e umanità e anche molte storie tragiche dietro, a volte un libro era più che un sogno, a volte era ciò che sosteneva un essere umano dal crollare quando tutto intorno la sua vita era un incubo, quindi gerundio o meno a me dispiaceva sinceramente per tutti, me compresa, sottopagata e sfruttata, colleghe comprese, sottopagate e sfruttate. Eravamo tutti in mezzo a una farsa. Quando consegnai il primo lavoro di impaginazione all’editore, feci conoscenza anche del suo socio amministratore, l’editore era un uomo giovane, belloccio, superficiale, controllava il lavoro ma non gliene fregava nulla, voleva fare soldi e bella figura,  ti rifilava immediatamente altri lavori, altre scadenze veloci, ti spogliava con lo sguardo ma era persino troppo pigro per spogliarti del tutto : “Ah, bene, tu vorresti essere pagata, ah questo non io, abbiamo l’amministrazione”. Peccato che vedevo solo lui e nessun ufficio amministrativo, lo osservavo perplessa, a quel punto gli si affiancò un uomo giovane, che mi sorrise compiaciuto, si sfilò il portafoglio dalla tasca e mettendomi i soldi nelle mani : “Sono l’amministratore, ecco”. Fumo negli occhi, erano fumo negli occhi, un’apparenza di burocrazia ridicola, in quanto in un lavoro in nero in effetti c’è poca burocrazia da svolgere. I miei guadagni erano soldi messi nelle mie mani, contanti che mi infilavo in tasca, io ero un fantasma e loro pure, solo che avevano tutta una maschera di facciata e la casa editrice esisteva, esiste tutt’ora.
 
Editore – Eloisa, fatti dare un libro da Sonia, Sonia ha materiale per te, ho detto di mettertelo da parte è da fare con urgenza, ma dov’è Sonia?
 
Sonia aveva una pessima aria dopo una nottata nella quale era stata svegliata nel cuore della notte perché doveva aiutare l’editore a fare non si sa cosa, Sonia si faceva le canne per affrontare le giornate, era una brava impaginatrice e aveva la sfortuna di dovere coordinare tutte e soprattutto di fare anche da segretaria all’editore per pochi soldi, quando c’erano. A Sonia un giorno portai un sacco pieno di vestiti, ero lì per ritirare il solito lavoro, la guardai sorridendo, era esile, capelli corti neri alla maschietto, erre moscia, scarpe basse da uomo, inesorabilmente stanca, dark nell’anima.
 
-        Hai lavoro per me? Che roba è, chi sono? Dimmi che non c’è qualche maniaco di mezzo e neppure qualcuno che sta morendo? Senti un poco in questo sacco c’è roba che io non utilizzo più, è mia, se non ti offende, io mi scambio sempre vestiti con chi mi pare, te li regalo, mentre parlavo le tiravo fuori un chiodo in pelle, con bottoni con delfini, e vedevo il suo viso illuminarsi, non era offesa, anzi gradiva il pensiero, è che preferisco sapere che l’indossi qualcuno a cui piace, mi sto disfando delle cose in pelle, da animalista non riesco più a portarle, e anche altre cose - le tiro fuori un top viola, completamente nudo sulla schiena, una roba un po’ tipo cinquanta sfumature di viola, Sonia rideva e si illuminava, andavamo tutte d’accordo. Il suo Harem di donne in nero e sottopagate andava incredibilmente d’accordo. Era assurdo farci la guerra tra noi si era troppo impegnate a farla a lui.
 
L’amministratore invece era un uomo politicamente a destra che mi sfotteva perché io ero politicamente a sinistra e portavo Guevara al collo.
 
-        Ciao comunista!
-        Ciao Fascio, hai lavoro per me?
 
- Ehi c’è un lavoro che fa proprio al caso tuo, abbiamo già il contratto, ma è malato gravemente, bisogna che gli dai la precedenza subito.
 
- Senti, io non ho più voglia di incontrarmi con persone che stanno male, non ce la faccio, fallo fare a qualcun’altra…
 
- E’ un libro che parla del periodo storico della Resistenza, ma se non ti interessa c’è sempre una cosa sul sesso…
 
-        Della resistenza?  Ok, lo prendo io.
 
Non racconterò fatti e antefatti, era l’uomo più gentile che avessi mai incontrato in vita mia, tutt’ora uno dei miei più grandi amici, e cosa fondamentale pur dovendo affrontare in quel periodo della nostra conoscenza e del nostro lavoro in comune un male oscuro di cui mai mi parlò e mai mi dimostrò di dargli minimamente peso, in qualche modo mi piace pensare che gli portai fortuna, intanto non morì, e sul suo volto magro e provato ma pieno di gioia e di energie vitali per il progetto di scrittura, capii che questa morte vagheggiava più nella testa degli altri che ti vedono sempre morto prima che accada, e che chi è malato ha spesso dentro di sé più vita di chiunque altro, sorpresa da questo atteggiamento, mai vittimistico, mai depresso, ma propositivo, ottimista, mi entusiasmai e dimenticandoci entrambi della malattia, collaborammo molto bene, gli raccontai ogni cosa della casa editrice, ci misi tutta me stessa per il suo libro, e ne uscì uno splendido romanzo su quel periodo storico, ma cosa più importante, nacque un’amicizia profonda e tutt’oggi debbo a lui la conoscenza di due uomini, suoi amici, che divennero poi anche grandi amici miei, che nella mia vita, insieme a lui, sono stati fondamentali nell’aiutarmi, sostenermi ad avverare il mio di sogno, quello di pittrice,  ma questa è un’altra storia. Noi ogni tanto ci troviamo a bere e a raccontarci la vita, a parlare di politica, resistenza, amore.
 
 Gli altri scrittori con cui lavoravo erano: un uomo che scriveva libri in bolognese stretto, e raccontava tutte le storie più esilaranti di via del Pratello,   e le storie erano davvero incredibilmente belle, ma anche lui aveva qualche problema con i verbi e l’esposizione, difficile però addentrarsi nel dialetto con licenza e poi li ritenevo tali capolavori che gli avevo applicato licenza poetica e ammetto in cartaceo, con il suo permesso, me li sono pure tenuti, per rileggermeli. Lui mi offriva sempre pistacchi e succo di frutta allo squallido bar-scommesse dei tranvieri, e mi suggeriva se volevo fare la pittrice di dipingere donne grasse, perché nessuno lo aveva mai fatto. Certo, a parte Botero… voleva solo me per impaginare i suoi libri, altrimenti non impaginava, non pubblicava con questa casa editrice, l’editore con lui era sotto ricatto, mi accompagnava rigorosamente all’autobus e non mi rompeva mai le palle telefonandomi ogni ora della giornata, si fidava ciecamente, avevo anch’io licenza di impaginatrice e carta bianca. Ma non erano tutti così, altra cosa che prediligeva il mio editore, era non solo passarmi scrittori in punto di morte ma anche erotomani, mi appioppò un libro sul sesso, di non so quante pagine, su un coglione che raccontava bieche avventure erotiche, dove la donna aveva la stessa funzione di una bambola gonfiabile ma se possibile con meno dignità, e dove il sesso descritto veniva tranquillamente applicato nelle situazioni più inusuali, in tram, sulla torre Eiffel, per le strade, senza limiti d’età, d’incesto e dignità, ci teneva a livello maniacale all’impaginazione e telefonava da qualche isola, o dicendo che era sul bordo di qualche piscina a bersi cocktail e a ispirare il suo genio, il suo libro era un volume incredibilmente enorme, di stupido sesso, la trama era inesistente, accoppiamenti su accoppiamenti, un film porno a confronto era un opera dalla trama intensa, così quando si impuntava sul capolettera avrei voluto gridargli in faccia: “Avrai un capolettera stupendo, una consonante o vocale iniziale della prima parola della prima riga di testo degna degli antichi monaci amanuensi ma ciò non cambierà l’autentica merda che hai scritto!” “Maschilista del cazzo!” Ma deglutivo, per il capolettera di questo sfigato chiederò di più di 40 euro. Me la gioco sul tempo, lui ha fretta  e dove la trova un’altra impaginatrice che lavora alla paga di una cinese, me la gioco con calma e poi chiedo di più all’editore. Con l’editore erano scenate alla “mezzogiorno di fuoco”, in mezzo la sua scrivania, io con il libro nella chiavetta e lui con la mano sul portafoglio.
 
-        Ti pagherei Eloisa ma…non ho soldi, ho lasciato il portaf…
 
Quella del portafoglio a casa era una costante quando si trattava di pagarmi
 
-        Niente soldi, niente libro.
 
-        Ma il libro sul sesso  deve essere pronto immediatamente, devo averlo oggi, altrimenti salta tutto.
 
 
-        Il libro è qui nella chiavetta, tu posi i soldi al centro della scrivania e io la chiavetta, non fare scherzi questa volta sono 100 e me li sono guadagnati tutti, un gesto sbagliato e butto la chiavetta nel cesso, e addio sesso a New York o come cazzo si chiama! Tutte le sue capolettera nella fogna, non so se mi spiego!
 
Generalmente me ne uscivo con i soldi e il compito di comprargli due pacchetti di sigarette dal tabaccaio. Lui aveva solo impaginatrici donne, due cose gli interessavano i soldi e le donne, era un uomo semplice, prevedibile non c’è che dire, tutto poteva essere ridotto a facile compromesso con pelo e soldi. Quindi il classico berlusconiano, immagino. Ma la casa editrice cominciava ad affondare, si stava su sabbie mobili, le ragazze preventivamente nascondevano i soldi che arrivavano, era l’unico modo per avere lo stipendio, oltre a un soddisfacente numero di canne per affrontare ogni sorta di colloquio con scrittori e soprattutto con lo stesso editore. Per fortuna io lavoravo in esterno e avevo libri ostaggio nella mia chiavetta che tenevo in tasca come una Colt. Mi capitò tra le scrittrici esordienti una ragazza, ci scrivevamo via mail, aveva scritto questo libro, una sorta di storia di incesto ma non solo, la sua scrittura era erotica, sensuale, non banale, la sua scrittura era una bomba, “Cazzo, ho pensato, cosa ci fa una scrittrice qui, devo avvisarla!”
 
 
Via mail:
 
 
-        Il tuo libro è davvero interessante, coinvolgente, affascinante e indecente, scrivi molto bene,  l’ho impaginato, ti invio un pdf , per qualsiasi cosa sono qui, credi nei tuoi sogni.
 
Eloisa
 
Ps- Nel senso credici anche dopo averlo pubblicato con questa casa editrice, insomma credici sempre!
 
La risposta fu esplosiva mi ringraziò entusiasta dicendomi quanto fosse importante per lei.
 
Io, la testa tra le mani, ora di fronte avevo un libro di uno scrittore che ci teneva davvero che io in prima pagina mettessi il suo stemma di famiglia, ero bloccata sullo stemma di famiglia, lo sguardo vacuo come chi non riesce a staccare le pupille da una lavatrice in funzione, ero a un punto di non ritorno, avevo un altro libro sugli extraterrestri, avevo un libro ambientato nella Toscana che narrava di storie tra Re, Duchesse e Regine in versi, che si accoppiavano tra loro in una sorta di epopea d’altri tempi e da spazi lontani e distanti,  decisi che questa pila sarebbe rimasta lì, avrei riportato tutto all’editore, dicendogli che per 40 euro a libro se li impaginasse lui, che me ne andavo senza rancore ma avevo bisogno di pagarmi l’affitto e anche di un lavoro, che mi dispiaceva perché quel lavoro lo amavo, non amavo lui ma il lavoro sì, e non ci vivevo.
 
Poteva fare due cose, aumentarmi lo stipendio, ma sapevo che avrebbe più facilmente trovato un’altra me disposta a lavorare per quei soldi senza aggiungerne altri, lo avevo fatto anch’io dimostrandogli che era possibile, o sorprendermi, ma la gente ti sorprende raramente, per lo più ti dà conferme, e infatti, disse semplicemente:
 
Certo, ti capisco, hai ragione, ma io non posso dare di più, ciao.
 
Il risultato furono aspiranti scrittori delusi, Sonia con una pila di libri da farsi tutta da sola, altri scrittori che sarebbero inevitabilmente deceduti nell’attesa, cuori infranti, tentativi di cercarmi, ma non rispondevo più a mail, quando una storia è chiusa è chiusa e gli scrittori dovrebbero capire, cazzo, la parola :
 
 
FINE.