domenica 23 luglio 2017

Pressione

Eloisa Guidarelli foto-grafica



Pressione
 
Un brindisi alla vita e a chi ha avuto il potere di rovinarmela perché ha significato abbastanza. Un brindisi a ogni follia, oltraggio, sbaglio, azzardo, abbaglio, torto, che ho portato dentro in un alibi di vento.
 
Mi muovo in una Venezia nera, dove imbarcazioni strisciano sull’acqua, nel regno che il vetro e il fuoco dividono con la bruma, ho il cuore d’ossigeno, e maschere di carnevale a ubriacarmi la vista, assassini fuggono con cavalli di vetro e giostre ruotano sull’acqua sempre più alta della città sommersa, è una commedia dell’arte a parte, di pirati ospitali, seduti e ingrassati davanti alle porte, è un tesoro di pirite per turisti innamorati di sogni perduti con sandali infantili, decisi a spendere il loro stipendio per tornare indietro anche solo un momento e ritrovare se stessi dentro un cappello di paglia o in una sfera di neve, dove il futuro non si vede, ma almeno sembra di poterci stare a galla. Mani prensili tra ciondoli colorati, per trovare la meraviglia che ti rassomiglia, quel prisma di luce da portare sul petto per avere l’illusione puerile che lì le favole possono cominciare e non solo finire. Gli oggetti. L’immortalità degli oggetti, qualcosa che resti. Che si può trovare, passare di mano in mano, regalare, avere in mano la storia e toccarne la forma, potrebbe essere un pianeta che ti giri tra le dita, la biglia di vetro che ti lascia incantata. La sfera trasparente dell’estate sull’autostrada di sabbia, creata dal palmo della tua mano, gomme da masticare, palline colorate con dentro sorprese, una moneta per un tuo desiderio, una moneta per questa bugia di seta.
 
 
 
 
 
Dobbiamo avere ereditato la morte perché potessimo renderci conto della vita, non l’avremmo mai apprezzata altrimenti, siamo sinceri, non l’avremmo neppure capita, non siamo nati per l’immortalità, non ne abbiamo le qualità, la nostra anima è tagliata male e chi la spaccia non va troppo per il sottile, ho ancora angoli bui e vita negli scorci di luce dove un’idea si riduce alla perfezione del minuto e il pulviscolo che ci galleggia dentro fa parte di quello che sento, ho sempre brividi alati, incubi, vertigini  e sogni portati da pipistrelli Re Magi al dio dei lampioni notturni, mappe degli ubriachi, orme fisse di luce per i perduti, prigioni e illusioni per falene con ali di polvere, ho ancora sete e fame ed espedienti, giocarmi una danza dei sette veli con falsi preti, passi furtivi nei vicoli del pesce e dei mercati delle ossa esposte e delle anime fresche con le coscienze tagliate da consumare in giornata. Si vendono passere di mare e la fantasia comincia a navigare. Il male è questa moralità serpeggiante che avanza, è ai fianchi, sibilante sopra la testa, ti segue saltellando sui tendoni delle fiere, nel piazzale assolato, negli androni deserti, nelle finestre arrese, scivola sopra gli ombrelli, posa labbra sui tuoi tacchi alti, sulle tue trasparenze, è lo sguardo tangente alla tua scollatura che ha mani per sollevare lembi immaginari, la moralità è un guardone che spia ogni tuo movimento e se lo mena in silenzio, additandoti “strega” , responsabile diabolica del suo stato attuale, tu sei per la morale sempre e comunque da condannare, tu sei la libertà, il pericolo, l’autenticità, lo schiaffo in piena faccia e sei la minaccia, il nemico per la disonestà altrui, attentato alla bucolica pace, la morale è come il catrame sulla spiaggia, l’umidità troppo alta che richiama zanzare e ti fa respirare acqua, la moralità bava aderente, si indossa e non si sente, si avverte un disagio, un senso di costrizione, un urgenza di evasione e la percezione che se fuggirai ti spareranno alle spalle. Gli amici, solitamente lo fanno.  E’ questo il male. Tutto.  Il vostro giudizio aguzzo, l’abito austero nero, il vostro potere viola, l’ipocrisia alla base del vostro pensiero, le vostre dita censure, il vostro sguardo basso, come se un desiderio sporco potesse svignarsela inosservato, il vostro buco della serratura, la vostra paura di essere scoperti, le mani sudate anche quando non è estate, la vostra indecenza in quell’invidia molle e pigra che vi porta alla deriva, falliti senza averlo capito di un traguardo concesso a tavolino, portate corone di cartapesta e sopra di voi sciacalli ridono della vostra fantasia morta di fame tempo fa, le vostre labbra accuse,  i vostri denti cancelli automatici, di giardini privati su privati accordi, salotti e tragedie, aperitivi e guerre, che la digestione vi sia lieve, quando è una cena a stabilire chi vive e chi muore, perché lo sappiamo da sempre che la guerra ad alcuni arricchisce soltanto, che c’è chi ingoia un’ostrica con lo spumante e chi muore con armi chimiche, e tutto quel popolo che si inchina beato mostrando al sole il culo che vi ha appena dato, per la tranquillità. C’è troppo oro indossato per la vostra credibilità, le vostre dita preghiere sono anemoni urticanti e se ci fosse  Cristo,  oggi starebbe con i migranti, starebbe in mezzo al mare, non morirebbe sulla vostra croce, ma potrebbe annegare, sarebbe figlio non di un Dio implacabile ma della speranza, di ogni madre stanca che aspetta con il cuore in esilio di sapere se è arrivato quel figlio. E un Nettuno affranto lo porterebbe tra le mani come un padre impotente, come un padre gigante, una scultura vivente di conchiglie e coralli, ferite e cicatrici, pelle dura di balena sfuggita ad arpioni mercenari, un enorme bronzo di Riace possente abituato a comunicare con delfini e orche e a scatenare la sua rabbia sulle barche, lo poserebbe quel figlio ereditato senza passaporto proprio sotto le vostre colpe, all’ombra del vostro sguardo. Lo farebbe con delicatezza, come fosse di vetro, un vetro di Murano, nato dal soffio e dalla fantasia di chi per pietà se l’è portato via, come un padre con il proprio erede, sfiorerebbe quasi con imbarazzo e paura quel volto sfinito, finalmente arreso, con maniere così trattenute, come assorte, che a volte si ha come il timore di fare male alla morte. Poi si girerebbe e tornerebbe negli abissi per cercare tutti i nomi appartenuti a ognuno di quegli uomini , occupato a creare  la sua Atlantide priva di filo spinato e confini, dove abbracciarsi e salvarsi la vita non saranno considerati reati. Si terrà la testa e piangerà tempesta sulla vostra coscienza e indifferenza, si terrà la testa e canterà i loro nomi come di figli sui cavalloni. E lancerà sguardi furtivi e complici agli squali, che porteranno fieri le taglie tra i denti dei veri delinquenti da sbranare, quelli che non vogliono aiutare.
 
Siamo tutti qui con occhi bovini di incredulità ed orrore a fare appello a una sentenza che ci porterà al macello, e le sentenze sono sempre dittature oliate dove il boia sacrifica le sue anime migliori per conservare il museo degli orrori attuale, e poi soldatini a sfilare nel silenzio dell’ordine e della stabilità per la massificazione e il livellamento della società e bandite per sempre le parole verità e libertà, bandita la cultura, l’arte e ogni forma di ribellione che potrebbe destabilizzare questa oliata bugia sociale,  questo nuovo ordine cosciente, se io ho tutto è perché tu non hai niente.
 
Si ripete la storia e la sua follia, la sua banalità e vigliaccheria, e non mancheranno eroi vicini e lontani che moriranno senza diventare anziani, che saranno bandiere, chimere, ideali, poesie, dipinti, canzoni e anniversari, commemorazioni, ma tutto si ripeterà, giorno dopo giorno, come autismo.
 
 
Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà o farà potrà e sarà usata contro di lei in tribunale.
 
Ma non è sempre così? Qualsiasi cosa che dirai o farai potrà essere usata contro di te.
E tribunali ce ne sono sempre, tribunali di famiglia, di amici e parenti.
 
 
I tuoi occhi deserti di neve
 
parole arrestate in gola come elemosina sorda
 
mani contro il muro gambe divaricate
 
pregiudizio che scende tra le scapole
 
 
l’arte è un messaggero che può attraversare secoli
 
e viaggia sopra ogni condanna
 
perciò mentre sei qui a perquisire ogni millimetro del mio corpo
 
per avere le prove della mia colpevolezza
 
non troverai mai l’arma del mio malcontento, e tutte le impronte digitali sui miei ideali.
 
 
 
 
Ho ancora vita e destrezza per bilanciarmi con rinnovata coscienza in questa vita, privata di proteine nobili, che nobili non erano, un po’  come il tuo stato ora, nel salone sbagliato, ad attendere ospiti che non hai mai invitato, però guarda posso lanciarmi veloce “senza mani, senza piedi, senza nome e senza croce”
 
Pensi che non possa muovermi di qui, perché il tuo sguardo mi ha inchiodata, perché il tuo confine mi ha esclusa? Ho scimmie alate dentro i miei muscoli, posso fuggire rimanendo a fissarti gli occhi, senza muovermi, ho risate oscene di iene e percepisco il tuo desiderio avanzato sotto il sole e avrò coda di sirena per una virata d’effetto nell’attimo giusto.
 
 
 
Se non fosse che ho il senso del peccato sospeso sulla schiena, e se lo schiudo appena posso librarmi in alto, e soffioni, altalene di capelli , mulinelli di foglie, di prigione in prigione ho occhi sbarrati per sottrarne illusioni e miraggi, siamo sempre prigionieri di qualcuno o qualcosa, quando non è una passione, un ideale o un’idea da realizzare, una chimera, un sogno, un bisogno. Collezioniamo dipendenze.
 
Soltanto,
ogni tanto,
dalle sbarre,
entra odore di rosmarino o di erba di macchia, e allora percepiamo la libertà.
 
 
Varcare un cimitero in un pensiero privato,
passare in mezzo a quello che è stato,
chiedere aiuto a tutti i morti, scambiare fendenti nei passi raccolti con angeli e diavoli purché mi si ascolti.
Vengo con rami di cotone nelle mani, ma tu rimani.
Vengo con ali alle caviglie, per voli corti tra sabbia di conchiglie e foglie secche, vengo in pace, porto una bandiera bianca su un ramo di balsa, porto negli occhi le meraviglie, le lacrime sono scese compite come spose, sconvolte come streghe, per la scala a chiocciola della conchiglia rosa, un ombelico fossile, dove posare le tue labbra per intercettare l’idea del mare, l’orgasmo del sole, ho un velo sospeso nello sguardo, che si alza con il respiro caldo, restano scogli con fessure oscene dove cantano sirene e duemila leghe sotto i mari di pensieri censurati
 
 
 
Il lutto non è nel colore
Ma in quello che manca, in un condizionale che stanca, nello sfibrare lento delle ossa, non sono mai le condoglianze, neppure le frasi di circostanza, è il tuo odore che inseguo perso nell’aria che manca.
Non ho una preghiera particolare perché non ho un Dio da adorare
Non ho una preghiera speciale come se questa morte fosse meno naturale
Non posso passare avanti agli altri come chi fa il furbo in coda, come se il mio dolore fosse più urgente
Ma il male si sente
Non ho fiori finti per incantare un’idea, per incartare la mia cortesia,
non ho fiori veri recisi, né rivoluzioni francesi per corolle innocenti, a capo sciolto, nel vento, perché mozzare loro il capo non cambierebbe il fato e questa realtà.
Ho occhi pieni di nubi, ho sguardi di rabbia, dovrei arrendermi ma se lo facessi mi sembrerebbe di mettere una taglia sul nostro amore perfetto.
Ho lacrime in incubatrice e da fuori chi vede mi pensa anche felice
Se Lucifero  potesse dare alla tua malattia il foglio di via cenerei con lui alla prima osteria.
Intanto il cinismo costruisce intorno al mio dolore una gabbia, lentamente come edera mi sale dalle cosce, accarezza la corteccia a cascate interrotte, sotto un cuore che non avverte dolore, mi ciba, mi alimenta di quieta indifferenza, perché aprire gli occhi ora significherebbe sanguinare per ogni minuto del tuo male.
Preferisco il peso dell’acqua sul collo arreso a un massaggio costante per alienare la mente e portarla distante.
 
Che il vento mi spieghi daccapo qui come ci sei arrivato, quale angelo, quale incanto ha portato il tuo cuore a battere nel mio inverno in eterno.
Il dolore brucia più del fuoco ma il mio sguardo è solo cenere da spargere al vento, purché sia il più tardi possibile e mi ingoio l’idea.
Ma che tu un giorno possa essere sassi, acqua di mare, polvere, sabbia, sale non mi serve per dio a meno che non lo diventi anch’io.
Ora pipistrelli e gufi corteggiano pavoni e la notte vuole amare il giorno fino in fondo, la morte pretende e in questo tiro alla fune bestiale, lei ha la forza di cento braccia e io lacrime al posto delle dita mentre stringo la tua vita. Se potessi distrarla con qualsiasi cosa, se potessi comprarla, vendermi anche ora. Se potessi come d’incanto armarmi di ogni sopruso e pianto, se di questa tortura mi tornasse l’armatura e mettermi al centro del pozzo nero, e trasformare il destino in un brutto pensiero. Se nelle foglie d’autunno potessi fare scorrere linfa, se fossi eretica e fiera e abiurassi questa sentenza senza appello, se mi facessi ammazzare in questo duello, se potessi distrarre il tuo acerbo male facendomi correre dietro in modo che tu possa scappare.
In modo che tu possa scappare.
Se la morte si potesse sedurre.
O si accontentasse di nomi fatti, glieli darei tutti,
che la corte marziale è l’assenza di te
Ma non servirà che io urli fino a lacerare il mondo, che mi offra come preda e chi se ne frega se non ci invecchio qui, meglio così.
Non posso neppure collaborare con il nemico, essere la spia all’interno della dittatura, vendermi alla polizia, prostituirmi, inventarmi mille e una notte favole concesse per evitare la ghigliottina, e non avrei abbastanza purezza per un sacrificio agli dei, ma è  con i caduti che scambio confessioni, è con loro che cerco la fuga da una sacralità di facciata, perché anche la bestemmia che arranca si veste d’acqua santa.
 
 
Se mancherai tu nessuna notte sarà più perfetta.
Persino la luna  sarà diversa, non può essere la stessa,
dove vanno le pantere con il cuore colmo di dolore, a fare le fusa  a querce testimoni di orrori quotidiani, quante vite ti possono strappare dal cuore senza apparentemente lacerarti la carne, quante volte si muore con il profumo di limoni, tante volte quanto i minuti stanno nelle ore, tante volte quanti secondi in un solo minuto, e mi avvolge, mi avvolge, e mi cammina a fianco. Odio l’eternità di questo dolore. Se è vero che esistono patti col diavolo, questo diavolo dov’è? Dov’è quando serve, quando… va bene mi arrendo, contrattiamo, cosa cambia è una vita che lo facciamo. Tutta la vita si vende l’anima bene o male, ma ci sono funerali impossibili da concepire, figuriamoci da assecondare, dove restare è peggio che andare, e te ne stai lì come davanti alla statua della Pietà, e sulle ginocchia hai tutti quei corpi, in anni, in momenti diversi, le stesse gambe, la stessa testa reclinata, la stessa arresa, la stessa coscienza, non la stessa santità, ma in questa cappella d’orrore e incenso è lo stesso momento, non c’è la distanza del racconto, manca il lutto elaborato, il distacco della scultura, della pittura, dell’arte, fanculo questo è un male a parte, vorrei fosse un affresco, vorrei poterne prendere atto, ma non ce la faccio, non ce la faccio. Tu morte, sai come colpire alla gola. Mi sembra di avere brace nelle vene, il mio sorriso che vive di briciole concesse, di momenti ideali, morte lo sai io so fare di un minuto l’eternità.
 
Ma lei o lui ride già, come solo sa farlo un’entità e io bilancio un ridicolo fioretto tra le dita delle mani e la lama si sospende ripetutamente come farebbe un tuffatore prima di saltare.
 
Conosco il vuoto e tutti i suoi secondi elastici
 
Ed è in uno spazio temporale astratto, che lei vestita di rosso corallo ha tagliato la piazza, seguendo una diagonale perfetta, nell’afa della stazione calda, si muoveva sospinta come una visione, quella macchia rossa si gonfiava e sgonfiava nel vento, era una medusa nell’acqua immobile e io il racconto.
 
Era il carosello di intervallo in una fila di pensieri a briglie sciolte, era il fischio del treno, era la rottura di qualsiasi linea retta, era perfetta per quell’istante, era il tempo, solo tempo, e come tale poteva decidere quando passare.
 
 
 
e mi stringo al collo come un nodo scorsoio questa follia, quando lo sguardo è nascosto da palpebre rubate al mare ed è per questo che le lacrime sanno di sale
 
 
 
 
 
c’ è stato un inverno perfetto,  così quando mi hanno detto che non ti saresti salvato, quando questi geni mi hanno confessato che la vita ha un tempo e il tuo sarebbe stato limitato, però l’unica differenza che sento è che a me non hanno dato un appuntamento, ho pensato così, che c’era stato un inverno perfetto che l’uno ha salvato l’altro, che nessuno potrà mai rubarci questa eternità, che non avrà fine né il nostro amore e né la nostra felicità, perché quando dal male sai setacciare gioia, come un cercatore d’oro, ostinato, mentre singhiozzi e soffochi, ma le tue mani non si arrendono, hai la ricchezza più grande che è sempre stata la sola con la quale non si può comprare niente.
 
 
 
 
 
Niente.
 
Per questo sono ricca,
 
perché non ho niente.
 
Niente.
 
E adesso sul serio, sento tutta la pressione inespressa del tuo desiderio.
 
 
C’è stato un inverno perfetto e questo è tutto.
 
E io e te ora siamo occhi negli occhi in un’eternità speculare senza male.
 
Se giochi a pallavolo con il filo spinato come rete,
 
se come i bambini riesci a ridere anche sotto le bombe,
 
se gli angoli del tuo sorriso assaggiano il pianto, curvandosi ostinatamente verso l’alto, e le tue sopracciglia aggrottate nella rabbia si sollevano in un movimento alato di meraviglia, se dalle tue ciglia bagnate fai filtrare raggi di sole sulle guance assetate
 
se nel dolore
 
 
atroce
 
insegui
 
la felicità come un borseggiatore  che si muove nell’orrore a lei noto e in ogni suo vicolo buio
 
e l’ilarità che agile scavalca i cancelli dei tuoi sensi di colpa
 
e allunghi il braccio per afferrare la gioia come si afferra una pistola,
 
e fai  documenti falsi per fare fuggire la tua ironia dalla malinconia
 
come si cerca l’aria in apnea
 
se buchi lo spazio di ghiaccio che rimane,
 
artigliando l’aria
 
come lo stomaco la fame,
 
e se gridi anche con un filo di voce
 
 
 
 
 
sei un vincitore.
 
Un vincitore.

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