martedì 4 aprile 2017

Amazzone sbagliata

 
Amazzone sbagliata.
 
Stavo lì sdraiata quale amazzone sbagliata
seno apparecchiato su cui banchettare,
lo fanno i granchi con le alghe,
avvolti da un fascino teatrale,
e i chirurghi con lentezza e precisione,
prima che arrivi l’onda che li fa solo leggermente spostare.
Alla loro maniera laterale.
 
Sguardi colgono corridoi bianchi
piedi sospesi inforcano porte
mascherine sul volto
quello sfiorarmi il polso
poiché lì è finito il cuore
e il battito cardiaco è sotto le palpebre
chiuse
 
Per la vostra necessità
Vestita di un velo d’acqua verde
Sottile e trasparente come bava di lumaca
E seni ostriche
Dove affondare le mani
Le vene invase da acqua fredda, come bocche che non hanno sete
Obbligate a bere
E questa sala operatoria è gelida
Le parole sono distanti
Sembrano dovere superare una barriera del suono
La paura è l’unica cosa reale che immobilizza i muscoli.
 
Fasci di nervi,
Effetto paradosso,
perché lo accetto?
Se fossi un animale sarei fuggita adesso e loro a inseguirmi
ma siamo esseri umani
abbiamo quella che chiamano ragione
che non ci fa muovere
non ci fa muovere neppure durante un’esecuzione
il panico ora è passato dalla mente al corpo che non smette di tremare
Non voglio più provare questa paura
Farei qualsiasi cosa
 
Non sarebbe nulla la morte senza la paura, è la paura della morte, la paura della paura.
L’anestesista mi dice che non posso farci niente, con la paura intende, come non era l’esperto delle droghe? Però l’esperimento è andato male, e dire che mi aveva promesso un mix speciale, per il quale lo sarei andato persino a cercare, però non ha funzionato, e l’unico modo è passare all’anestesia generale, che mi sembra di supplicare, il filo di non so quale liquido che mi invade ora le vene, si è incastrato nel mio  camice sottile come ragnatela, e sento il primario armeggiare, incazzarsi con l’infermiere e l’infermiere dare la colpa all’anestesista, che bofonchia e rimbrotta, stanno lì con le loro facce e le loro chele, il loro avvicendarsi, e le loro scuse. Tanto non ricorderò un cazzo di quello che mi hanno fatto. A parte questo.
 
Si desidera essere niente, essere come all’origine, non nati
il battito cardiaco è fitta pioggia di tamburi
questa sala operatoria sembra un’officina
un intervento dei tanti nella catena di montaggio quotidiana,
 
una cartella,
una zona da operare,
un file in qualche memoria.
Un corpo a digiuno.
Accuratamente preparato,
esaminato
per la tavola
operatoria
idonea per sopportare un taglio dal capezzolo all’anima
 
L’ultimo gesto è quello dell’aiuto chirurgo che con i guanti infilati, mentre l’anestesista mi chiede gentilmente se sono pronta a contare le pecore, mi saluta. Il primario che già vedo sfuocato, stento a riconoscerlo, pare trasfigurato, mi prende la mano, “Come sta?” “Male” e il mio viso ha ruotato come un pianeta indifferente sull’altro lato.  Non voglio più spiegare, non serve a niente, mi pare di avere messo in questa arresa senza sosta anche ogni risposta…  “Lo so”- dice  - “Lo so”. “Non lo sai, non lo sai, non sei tu di qua, come io non lo so come si sta di là tra voi, cosa vi passa per la testa, io sono una zona e basta, un taglio preciso da fare, concentrazione, manuale, magari bollette da pagare, o  forse già pensate a dove andare tra poco, subito dopo. Che ne so non esisto da un po’. Magari questo intervento è il prossimo dipinto che sarà appeso al tuo studio di primario.
 
Poi il mio corpo sarà spostato, tagliato, cucito, disinfettato, pulito come i ricordi, ti svegli solo fasciata con un dolore forte e ogni esperienza è personale. Ma ogni seno è uguale, una scatola da aprire, togliere quello che non deve contenere e richiudere.
Siamo scatole da aprire e questa sensazione non se ne vuole andare.
Portantini, dietro a portantini, una catena di montaggio, un formicaio preciso visto dall’alto, api operose, ma siamo a digiuno di miele, non c’è dolcezza qui.
 
Che cos’ ha?
Quanto dolore ha da 1 a 10?
Perché non contemplate fino a cento? Dieci, dieci.
Antidolorifici, lenti, troppo lenti, una canzone diceva per il dolore è abbastanza un minuto.
 
Ma nella cartella clinica poi avete scritto dolore uguale a 6.
 
E siamo animali nati in cattività abbiamo perso gli istinti nell’allevamento intensivo dei nostri giorni quadrati e ordinati, l’importante è calcolare esattamente la superficie, che tornino conti e numeri, ma ci siamo persi appetiti più urgenti, annusiamo l’aria circospetti e non sappiamo più cosa sia sbranare spazi, amiamo i recinti e sbarre ci deresponsabilizzano esattamente come le preghiere e un Dio molle che esiste perché funzionale a ogni giorno da capire, l’ordine rassicurante, e l’abitudine una medicina amara da prendere, l’abitudine visionaria.
 
E attendevo un autostop nel deserto per destinazione altrove
 
Forse è l’umanità che sta subendo l’ anestesia generale poiché non sente il dolore, un giorno si alzerà con forte nausea per ciò che vedrà.
 
Al momento sono talmente dimagrita che dentro le mie mutande ci ballo e penso soltanto che si nasce e si muore in un solo giorno. E penso all’anomalia del tempo, un’operazione di una trentina di minuti, con l’autobus arrivo da casa mia al centro, nello stesso tempo mi aprono e chiudono il seno e mi tolgono quello che devono, cos’altro succede in trenta minuti nel mondo? Trenta minuti sono più di quello che penso.
 
 
E confondo il drammatico con l’erotico in questa visione dal basso all’alto con occhi proiettati per errore alla cappella più vasta che è quella dipinta dal cielo delle intenzioni sospese come nuvole scese e poggiate su labbra aperte da un filo di spazio, un filo spinato di censura che ho appena scavalcato, distratta, a torto senza passaporto, priva di identità al ricordo, e la rabbia sembra acqua sporca dopo un temporale, rassegnata e raccolta in pozzanghere, specchi testimoni dei passi, come degli atti. I volti sono distorti e sono ricordi, avvolti e arrotolati come serpenti in pozzi profondi, hanno lingue biforcute che vibrano nell’umidità buia senza luce, sono radar quelle lingue e si conquistano spazi saettando verso l’alto, come le bolle liberate dalle bocche dei pesci, risalgo, sfruttando la spinta, è il tocco di un’infermiera alla spalla, “abbiamo finito”. Se non l’avesse detto, se non mi avesse toccato sarei rimasta indietro, mi serviva quella sensazione tattile che ha fatto aprire un portale tra l’esistenza e il resto. Dall’altra parte si stava bene a non esistere. Adesso è diverso e tutto  mi si riversa addosso come un’onda che porta avanzi che il mare non si vuole ingoiare. E neppure io. Mi pesa il nome, la coscienza, l’esistenza e questo dolore.
 
E voi che fate figli per riempirvi la pancia dei loro futuri sogni
 
E i figli non sono altro che diavoli equilibristi costretti su dirupi scoscesi dai quali non sarebbero mai scesi
 
E i figli non sono altro che angeli dannati che siedono su nuvole in cemento, dondolando le gambe, nella noia di un paradiso previsto, da dove si possono osservare quelle passeggiate sul lungomare, per confondere una leggerezza illusoria che potrebbe appartenere solo a chi è privo di storia.
 
Non ho figli meno male, non si sono mai svegliati e mai si dovranno addormentare per una mia decisione, per una mia proiezione, per quell’atto di crudeltà che cela persino la maternità, questa moneta a due facce, dove ci ostiniamo a vederne soltanto una, quella dell’amore, della fortuna, della prosperità, andiamo tutti ad ingrassare questo mondo fecondo, con la falsa allegria di qualcuno che non potrà salvare nessuno.
 
E dire che è bastato un nome per buttarci nel mondo, tutti, a turno.
 
E dire che è bastato avere un nome per digerire un giorno un addio, perché ci appuntassero un lutto come medaglia al petto, come prova da superare, come una cicatrice da accarezzare e mostrare in ogni giorno perfetto.
 
E pensare che quel nome è un peso, un ingombro, un dolore, un frammento di quello che ho dentro e sento.
 
Una nuvola di capelli al vento disperdersi come nido di rovi immobili, persino nel giorno dell’addio, dalle gambe nude sotto il vestito le mani del vento, saliranno delicate, e saranno percepite come giornate disperate, disposte  a scongiurare le tue gambe, per suggerire senza parole, che persino la felicità si detesta perché può prenderti di sorpresa, quando ti eri arresa. Quella brezza distratta e costante come una mano poco elegante a cercare sotto il tavolo un angolo di inguine, come un padrone, senza interessarsi dei tuoi sguardi, della tua volontà e delle tue rondini pensieri a pelo d’acqua, della tua sete e dei tuoi labirinti dove ancora rincorri istinti che hai perso di vista. La giornata di lutto anticipata, e sei una scultura bloccata dove il tempo ti ha baciata le labbra con pensieri amari e rugiada e tu rimani fino a quando gli uccelli più belli faranno nidi nei tuoi capelli e bevendo lacrime salate, condurranno proteste oscene su code di sirene a un Nettuno coperto di conchiglie e ferite sulla pelle indurita dalle maree come pelle di balene costrette a morire insieme, giungerà la tua missiva  dalla sabbia del fondale marino, mentre valuterà con gli occhi di pietra di un Michelangelo perduto ogni tuo assassino, masticando frutti di mare e sorseggiando vino pregiato da qualche relitto sfondato, dove con fare elegante, code di pescecani valuteranno le stanze, come maggiordomi adeguati, scenderà nell’abisso e alla prossima onda perfetta cavalcherà la tua protesta.
 
Ma questo mondo non ha mai imposto il vostro massaggio cardiaco come accanimento sulle nostre vite tradite, questo mondo ci ha dato un momento da gestire dove confondere la gioia con squarci di puro orrore, perché è in quella corsa veloce di traiettoria il senso di tutta una storia. Non è pioggia e né temporale è quell’odore di terra bagnata che raggiunge il tuo inconscio da un punto profondo che avevi lasciato dimenticare. Ah, quindi esisto, mi riferisco.
 
Ed è per questo che angeli di pietra hanno voltato la schiena alla città, e hanno il volto invaso da burrasche e acqua salmastra, mani dentro le cosce e sono senza risposte, da tempo iridi di selce hanno rifiutato di concedere soste di preghiera, sono solo state scolpite nel vento per guardare lontano, di spalle al faro con occhi quadrati come acquari, dove pesci si agitano perché sentono la corrente delle tue idee, e vene attraverso la roccia della scultura immortalata e tesa si agitano come tentacoli di polipo, si allungano come tendini, si fanno strada nel marmo rosa, divengono sottili come un foglio, qualsiasi cosa pur di raggiungere un oceano eterno e sentire la rabbia del fulmine sull’acqua. Niente oasi di pace per gli incapaci ad affrontare burrasche, stanno fermi lì, sopra ogni destino, e non decretano la fortuna, solo tutti i giorni uguali con lo stesso sole, la stessa luna e cicli ripetitivi e mai interrotti dentro i tuoi increduli occhi.
 
Le tue censure hanno un percorso subacqueo fatto di ventose, dove arrischi prese, per spostarti da scoglio a scoglio, da parete a parete, da fondale a fondale e getti inchiostro nero sulle risposte da dare, le tue dita stelle marine hanno scritto una biografia di rabbia, che sapevi immediatamente leccata via dalla sabbia, tutto si muove costante e lento per cancellare quello che hai dentro. Arrischi a strisciare a quella maniera sinusoidale, vivi il tuo mondo irrisolto e capovolto, ti sposti leggero nel buio del tuo inconscio dove hai percorso da esperto dune di sale, la tua pelle sa gestirsi gli sbalzi di temperatura, ha squame ora la tua paura. Ci sono pesci come te che hanno luci per gli abissi e pelle fluorescente, c’è gente che vive al buio perché ha la luce dentro di sé .
 
 
La mia cartella clinica prenotata e pagata è una grassa bugia burocratica, non c’è scritto dentro né quello che mi avete fatto né quello che sento, avete fatto risultare una locale con sedazione, perché questo vi avrebbe permesso senz’altro di omettere altro. Ora che le tue mani che non operano si trovano in uno spazio di pelle sbagliato, ora che c’è un conflitto d’interesse perché improvvisamente hai trovato che sono un numero attraente, un codice a barre che ha un nome e quando lo pronunci incredibilmente ti dà una sensazione, preferivo rimanere il braccialetto al mio braccio, nome-codice fiscale – data di nascita e un chirurgo a cui appartenere meno di 24 ore, per dovere. Della tua tracotanza e poi imponenza, della tua seduzione e della tua attenzione, della tua protezione, del tuo doppio gioco, del tuo amore dato negli angoli come uno spacciatore, del tuo fare quadrato con gli stessi colleghi traditi per un momento privato, del mio intuire lo sporco dietro senza per questo cambiare sentiero, perché mi serviva un “come stai” quotidiano, un rito da piegare e riporre nel cassetto ogni sera, un taglio da osservare allo specchio e che tu o qualcuno mi volesse bene lo stesso. E oggi, adesso, sempre e domani “ti voglio bene” è pronunciato da squali, dietro quelle parole ci sono occhi ciechi neri come pozzi pronti a rivoltarsi verso l’alto mostrando il bianco e a divorarti, vampiri hanno sorrisi fieri, appuntamenti in agenda e telefonate da fare per rassicurare, non ti accorgi che ti vogliono sbranare, indossano cortesia e simpatia, se ora non sapessi che dietro quei camici bianchi aperti che prendono vento e si allargano come ali  per decolli improbabili nei corridoi bianchi che sanno di disinfettante e paura, si nasconde la fregatura. Sto qui all’angolo dei perché con le tue parole tagliate male per l’occasione, che invece che rendere l’effetto speciale mi lasciano lì a morire.
 
 
Ora so che c’è uno spazio di nulla dove si resta come a galleggiare e non è la cosa peggiore che ci possa accadere, ora so che quello spazio è stato l’inizio come sarà la fine dove non c’è un nome e un corpo da portare, ma questo non è male. Lasciare la propria storia sulla soglia, come le scarpe in una casa giapponese, entrare scalzi e nudi  daccapo in quello che in  fondo è già stato prima di prendere coscienza quando si era solo assenza. Farlo con educazione proprio perché non abbiamo più nome. Cosa ero davvero di là? Senza ricordi, senza abitudini e memoria. Perché ho pianto e mi sono avvilita quando è da questa parte che sono tornata. Guardato il mio recente taglio, come per accertarmi del passaggio.
 
Al mio risveglio l’anestesista era fuggito. Mi hanno congedato su mio esplicito immenso desiderio, preferivo continuare a sentire la nausea a casa mia, il loro brodo vegetale non mi poteva aiutare.
 
Come vedi non ho mandato la polizia nei tuoi nascondigli segreti, perché penso che la polizia sia dentro di te.
 
 
Mentre ti illudi con me che le tue parole scaldino ancora ma hai neve dentro la gola.
 
 

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