Eloisa Guidarelli
A
modo tuo non sono io
Si
lo so mi vuoi bene a modo tuo, il problema è il modo tuo.
Ho aperto le braccia stanche ho respirato branchie, mi
muovo intrappolata nei tuoi ricordi a strascico, e non ho più un fondale
davvero mio, neppure per dirci addio, e piedi incapaci per desideri di
disadattati, sono caduta di faccia ho messo l’istinto davanti alle mani, le
dita stelle marine, macchie gettate aperte rosse come scoperte, a respirare
dalle ferite, come labbra sporche di sale, le succhio, sa di ferro e alghe questa
domanda che non mi esce dalla bocca ma sosta nel solco lacrimale di un oceano
trattenuto nell’eternità di un solo minuto, di questa favola oscena di sirena,
tu hai visto appena la mia schiena, che ti avvolga il mito antico perché io ti
ho già tradito. Cantavo canzoni oscene nel porto, e leggevo nomi di barche, di
donne, di sogni, proiezioni, viaggi, fughe, scoperte. Mi bastava annusarmi una
spalla che era restata al sole per ore e l’odore di erba di macchia e mare mi avvolgeva la faccia, bastava questo per
non avere più un nome, mi bastava per perdermi l’identità che finiva per
dissiparsi nel vento e io tornavo ad essere tutto, ad essere dentro. Durava
poco come è breve l’infinito ma poi potevo tornarci quando lo desideravo, era
un sentiero che conoscevo a memoria, la mia storia di strade di polvere e
cappelli di paglia, segni di passaggio lasciati da geometrie di pneumatici, la
sabbia sollevata dal vento che entra nelle narici insieme a quello che dici, e
io sono il resto, quello che avvolge, erba seccata da una giornata senz’acqua,
polvere di minerali sulla linfa assetata, salsedine nell’aria, dove sono
rimaste tracce di mare, posti segreti, traiettorie più note ai piedi scalzi che
agli sguardi. Tu sei apparso questa
notte in un sogno zoppo, che non ho compreso affatto, eri in un angolo, sarai
stato di certo vestito di blu, come vesti sempre tu e mi guardavi, guardavi
mentre mi avvicinavo a lui, e mentre poi gli rivolgevo qualche parola, e mi ero
chinata, perché era seduto, forse mi ero appoggiata con delicatezza a una sua
spalla, ma sono dettagli, anche se per te tutto conta, non consideravo troppo
nessuno, erano parole vaghe di cortesia, avevano senso di vento, qualcosa che
ti sfiora le orecchie o la guancia, come un saluto, una cortesia, un bacio ma
di circostanza, parole vuote, senza suono, senza ricordo e senza meta alcuna,
gettate solo come una carta di qualcosa, una caramella, una gomma da masticare
o un biglietto dell’autobus, parole scadute dopo un’ora di viaggio, parole
obliterate e inutilizzate ora, parole come una mano sulla spalla, per passare
oltre, con delicatezza, parole biglietto, parole parchimetro, parole per
sostare altrove il tempo che mi sarebbe servito, parole che sono come
precedenze, come l’ordine da tenere, parole insincere, parole convenzione,
parole che sono già atti, forse neppure quelli nostri, abitudine,
parole-abitudine, come buongiorno, buonasera ma poi chi se ne frega, parole per lasciarti alle spalle, leggere
come passi di danza, come foglie cadute, stagioni nuove davanti a stagioni
perdute, un ex compagno… Ma tu sei sempre stato geloso anche della mia vita
passata e io l’ho sempre pensata una grande cazzata, ora so che, non eri
neppure geloso di me, ma di quello spazio, di quel sacco amniotico che
conteneva ogni mio desiderio prima che divenisse atto, eri geloso di quel mio
essere sospesa nelle possibilità di dividere quel tempo, quei minuti, quei
brandelli di vita, quella complicità, eri geloso della mia attenzione, tu amavi
la mia attenzione non me, tu amavi la mia attenzione su di te. Poi non credo di
essere mai stata amata, solo desiderata, e qualche vita di proiezione ha fatto
insieme a me confusione, un film con un finale lasciato sospeso, siamo usciti
dal cinema delle nostre vite senza averle capite e soprattutto ci sfugge il
finale. Anche gli uomini che ho avuto occupavano ricordi, pensieri, spazi,
qualcosa che ti veniva tolto, qualcosa che io ti avevo tolto per paradosso
anche quando non ti conoscevo affatto, come osavo avere avuto un passato che
non comprendesse te e perché. Se non
avessi avuto quei tuoi occhi incollati alla schiena, tu che stavi là a gambe
aperte, bello come sempre, vestito di blu, perché il blu eri tu. Ma io ora
dovevo calarmi in quel tombino, che mi prendeva le esatte misure e scendere in
verticale, per quel pozzo stretto di pietra viva, quasi privo di scale, dovevo
scendere appoggiando i piedi su sporgenze naturali, lo facevo abitualmente,
abitualmente rischiavo, era una sorta di pausa da qualche cosa di teatrale,
perché se c’eravate tu e lui doveva essere così e anche perché indossavo
assurdi tacchi a spillo, doveva essere una parte da interpretare, per usare i
tacchi a spillo qualcuno mi deve obbligare, e con quelli scendevo nel pozzo
stretto, sembrava scavato sulle mie proporzioni esatte, era senza fine, buio,
non avevo paura, stavo solo attenta a
non inciampare. Se avessero potuto i tuoi occhi mi avrebbero seguito fin dentro
il pozzo ma il sogno ci aveva diviso, anche lui come la vita. Mi sto per calare
e poi grido che devo risalire, ci sono pantere nel fondo, che girano in
circolo, minacciose. Risalgo, non è il momento per il passaggio, per dove? Lui
poi l’ho censurato con il volto di un altro uomo ancora di minore significato,
insegnava ad allievi, teatro, immagino, mi abbracciava affettuosamente, mi
presentava, ma io ero assente, non me ne fregava niente, e sai come finisce ?
Tu che sei avido della mia attenzione come l’affamato di un boccone, sai come
finisce questa storia onirica fatta di pozzi scoscesi bui stretti e neri come
uteri pericolosi, e dove alla base pantere si muovono in una visione dall’alto
come squali in attesa, mi sposto a mio agio nel mio inconscio, solo sto attenta
ai due enormi gatti neri di guardia… e se è il caso risalgo. Finisce in una
passeggiata, con un’amica, al buio, in un bosco, un sentiero polveroso che
conosciamo, alberi tutto attorno, parliamo, è una compagna evidentemente non
importante al ricordo o forse tanto da censurarla totalmente perché non saprei
dire chi era, non ricordo niente, solo che eravamo amiche e stavamo parlando,
inoltrandoci in questo bosco, non si vedeva alla distanza di pochi metri, poi
mi blocco e vedo una di quelle enormi pantere che stavano in fondo al pozzo,
che gira su se stessa lentamente, con una eleganza spropositata per una morte annunciata,
un’altra le è a fianco e al rallentatore ci vengono incontro, io dico alla mia
amica di voltarci e tornare indietro con calma, di non correre, altrimenti ci
attaccheranno, e così, lentamente giriamo le spalle e le pantere camminano
dietro e sento a ogni passo che non c’è nulla da fare, solo camminare piano e
attendere, la loro voglia di attaccare o sperare che siano sazie, niente dipende più da noi, la nostra
vita è sospesa, siamo solo ombre nere
davanti a due grossi felini che lenti ci seguono senza fretta tenendo la giusta
distanza. Ci lasciano per gioco il vantaggio di qualche metro. E si va a passi
lenti con confidenze rarefatte dall’ansia e il sudore congelato alla pelle, con
pantere dal pelo lucido uscito da una notte d’olio per sbranare.
Poi è suonata la sveglia le pantere mi avevano lasciata
viva per un’altra giornata di merda!
E adesso devo uscire da questa pioggia sottile, dal tuo
passato, varcando il confine, e devo nuotare più che camminare in questa
umidità, mi viene da boccheggiare come un pesce pescato, se penso al teatro e
alle maschere che ancora dovrò incontrare. Ai passi, ai miei passi commoventi a
trainare un corpo che rifiuta eventi, sorrisi, un corpo che finirà come sempre
per cavarsela benissimo senza me. Io sono sempre stata a parte, a contorcermi
nell’attesa di uscire da tutto, di sbattere porte, scavalcare balle e fuggire
con il vento che mi tocca le spalle, come un amico che si affretta con te “hai
fatto bene perché…” Perché non fai parte di niente. Di sorrisi panoramiche,
della competizione che attende il colpo di pistola, mentre fasci di muscoli
sono una sola cosa, delle medaglie, dell’egocentrismo e dell’inno nazionale che
ti sale dallo stomaco alla gola, questo minuto dura un’ora, ho sete di cause
perse, di occasioni diverse, ho provato cosa significa sentirsi soli e anche
rimanerci quando credi in qualche cosa, e sei il solo a crederci, e ti dici che la
maggioranza sembra stia tutta di là, sempre dove non sei tu, persino le persone
di cui ti fidavi, pensavi. Fa male. Si ma poi si sale e si capisce che essere
soli può essere qualcosa di esaltante, rimanerci, sentirsi, e capire quanti,
quanti sono rimasti soli con quelle tue sensazioni orribili, tangibili. Siamo rimasti soli in tanti, non lo sapevo davvero
cosa si provava, voglio dire, quando tu sei lì che lotti e ti voltano la
schiena, abbozzano un sorriso, uno sguardo condiscendente che sa ridurti in un
attimo in mutande, di quelle che cascano lente. Umiliante. Già è così. E io non
c’entro niente qui, non c’entri niente nella società quando davanti a un gruppo
e distese di vino finisci per non ascoltare più i discorsi, ma ti soffermi sui
denti, su movimenti lenti e tutti sembrano in un acquario, persino un po’
sfuocati e l’unica cosa che cattura definitivamente la tua attenzione e con
sincera costrizione e preoccupazione è quel dannato moscerino che annaspa nel
vino. L’unica cosa che avrebbe senso nella serata, toglierlo da lì, asciugargli
le ali soffiando delicatamente, lasciarlo in un angolo di tovagliolo di carta,
vicino alle frasi scritte sulle tovaglie delle osterie, in questa biblioteca di
fumo e cibo, salutare e andarsene via, con un dio di riserva, quello che puoi
tirare fuori quando il primo ha bucato e tu non sei più in grado di andare
avanti da solo. Da solo. Ah vento sei l’unica cosa che sento, l’umidità ora è un bacio sulla faccia, posso
tornare a me stessa senza fretta, sentendomi tutta, ossa per ossa, cartilagine
per cartilagine, mi sembra di distendermi dentro il mio stesso corpo, di
stirarmi come un gatto, di avere lasciato fuori quella minaccia ordinaria.
Cazzo sono asociale. Poi devo piantarla di considerare tutti gli oggetti
portali. Anche se sono più in orario dei treni, e non ci sono controllori, solo
ricordi, odori. Tento di dormire, è sempre un metodo valido per attenuare
paranoie, ci riesco, non sono nulla adesso, solo quello che decide il mio
inconscio, suona il cellulare, contratto telefonico, chiudo il telefono in
faccia alla persona che ha chiamato, mi riaddormento, suona il telefono, e non
posso più dormire ci sono troppe persone da mandare a cagare. Anche questo è
lavorare, qualcuno lo deve pure fare. Quindi scrivo per vedere se sopravvivo,
prima abbozzo l’idea di un dipinto che sento dentro e anche questo mi
innervosisce, se non mi ci metterò presto mi batterà contro la cassa toracica,
insistente, peggio delle compagnie telefoniche, anche l’arte manda i suoi, a
bussarti nel cervello, le idee le hai che fai? Siamo tutti qui come cristi ad
aspettare, come in ospedale con i codici di urgenza, si ho un dipinto con un
codice rosso che deve uscire adesso. Altrimenti sarà morto per colpa mia, sento
già la polizia nella mia testa. Un dipinto non nato sei accusata di omicidio
premeditato. Cerca ordine nel delirio, chiamalo figlio. Si anche l’arte ti
entra dentro con i suoi cavalli di Troia, tu li fai entrare e allora è
l’invasione totale.
Camminando con te,
ti direi cose che si finiscono per dire a un’amica, ovvero una verità
censurata, e sfiorerei con le dita i lembi della ferita aperta e pulsante, ogni
sorriso nato per rassicurarti provocherebbe un’altra emorragia, così prima di
dissanguarmi me ne andrei via, congedandomi con una scusa, tenterei di stare
molto dritta solo perché dentro sono piegata e azzarderei disinvoltura contro
la mia anima impacciata, perché dentro sarei attanagliata dalla paura, e tu
penserai di conoscermi un giorno perché non avrai mai avuto neppure
lontanamente idea di quali orchi mi divorano da dentro. Ogni momento.
E comunque sento arrivare le sirene della polizia, ero
all’angolo e spacciavo verità, ma è vietata in questa società, ha pesanti
effetti collaterali, come gli ideali, e si finisce per morire, sempre. Una vita
da tossicodipendente, dammi un po’ di verità, quanto te la devo pagare? Dove la
posso trovare? La verità uccide. La verità é perseguibile per legge, la verità non
ti protegge, ti espone a ogni rischio, ti annusano a distanza, come se la
portassi a tracolla, ti perquisiscono verità, le mani addosso, ho verità che
non posso… ho verità in manette, che poi è così che siamo cresciuti “non
accettare verità dagli sconosciuti”, la verità è sotto tortura, braccata da
sempre, la verità è una donna a gambe aperte dove l’ordine si diverte. La
verità è qualcosa che si paga salato, è il peggiore reato, la verità va
nascosta, portata via, imparata a memoria, tramandata di generazione in
generazione, deve sfuggire alla dittatura, la verità fa troppa paura. Per
questo smetto qua, non posso dire la verità. La devo portare lontano, in un
mondo diverso e più umano, la devo portare in un posto migliore per liberarla e
farla volare. Altrove.
Agli angoli delle città spacciatori di verità rischiavano
la pelle. Oggi confessioni virtuali che vagano nell’etere, sembrano corpi
abbandonati nell’universo costretti a girare all’infinito come tombe sospese
tra comete, stelle cadenti, desideri inespressi e inferno.
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in effetti a pensarci bene la sveglia ci salva la vita un sacco di volte,da due pantere nere dietro le spalle poi (pantere nere, quelle della polizia?).
RispondiEliminaperò dai, salvare un moscerino ubriaco e metterlo ad asciugare su una salvietta d'osteria è quasi più crudele che vederlo affogare incosciente tra le braccia di bacco.