domenica 5 luglio 2015

Se fossi

Eloisa Guidarelli Foto M.M
 
Se fossi

Catapultata in un’estate Corsa, avvolta dall’erba di macchia, con il frinire delle cicale, che vorrei mi riempisse anche il cuore e che l’anima diventasse un suono ripetitivo e uguale, dove potere dormire, dove potere restare. Stavo così, dietro un vestito da sera che mi superava di dieci dita l’ombelico, per il resto passavo la giornata nel campo nudista, distesa come offesa a una morale che si allontanava come spettro nel mare, quella morale piatta come le onde, dove la gente si confonde, che ha una piega rassicurante, cade elegante e composta, cade austera, rigida e risoluta. Priva di carne e di ossa.

Io ero tra tante senza costume a godermi un’abbronzatura di sguardi ruminanti, occhieggiare pigri, nulla di erotico, quando sei nuda sotto il sole a tutte le ore, circondata da gente nuda, nuda a scrivere, nuda a leggere, nuda a parlare, quando volevo provocare mi andavo a vestire, così potevano di nuovo guardarmi male. Tanto per non stare alle regole. Il giorno tutti nudi distesi, la sera tutti vestiti e segreti, la gente si lancia occhiate lascive, immagina con quell’erotismo pigro e limitato, sguardo in tralice, tangente a pezzi di nudo, a tracce di pelle, trasparenze, un capezzolo duro, ma sono brani di luce raccolti senza eccessivi sforzi, dopo il bar, dopo un gelato, con tutto questo caldo! Una masturbazione light, senza pretese, si cerca di intravedere quello che hai sotto il vestito, avuto sotto gli occhi per l’intero pomeriggio, pomeriggio finito. L’uomo ha bisogno di non vedere per desiderare, perché vedere non è immaginare, serviva la notte per trasformare animali al pascolo in bestie disposte a sbranare, per vedere la trasformazione sotto la luna di una persona, e si liberavano desideri. Tanti tavolini bianchi, vestiti da sera, scarpe, tacchi, musica e profumi, i corpi vestiti a dissipare bugie lente che ti avvolgevano dalle gambe alla mente. Strane notti artefatte, dalle quali volevi prendere distanza, o attraversarle in fretta, con la sensazione che occhi fossero mani aggrappate ai vestiti, con la netta sensazione di essere preda e parte di una enorme bolla di sapone, di un teatro sul mare dove non si è, dove si appare. Ero quello che non ti seduce, il cappello di paglia sul pube, ero l’ironia del sesso, e non ero innamorata, ero un panorama d’insieme guardato senza catene, ero la libertà additata come strega, quando questa se ne frega, ero l’albicocca che la tartaruga ti strappava a morsi dalle mani, e poi ero il suo collo antico che deglutiva, e poi ero la tua schiena nuda, mentre mi davi le spalle, le mani dell’alba che ti poteva toccare, l’odore di rosmarino, e poi ero sandali pieni di polvere che disegnavano semicerchi, mondi aperti e sepolti, insenature, golfi, soste nei porti, dove le partenze sono i ritorni, e poi ero disperazione sopra ogni ragione e dettaglio perché non ero io, ero sempre l’altro. Posavo lo sguardo che volava da una parte all’altra come farfalla seguendo i tuoi gesti, con distacco. E devo averti detto in un inglese indeciso, che il mondo stava soffrendo e stavo soffrendo anch’io. Mi scendevano lacrime, che tagliavano le guance cotte da giornate di sole, attraversavano lentiggini scomposte, come un fiume che scorre su ombre di sassi, come ricci la notte, percorrevano veloci tratti, non privi di rischi, code di pesci erano pensieri che correvano a nascondersi nel fondo fangoso, sotto pietre rotonde, avevo sponde per arginarli, e guidare gocce parallele come binari a sfiorare labbra offese e ferme, bagnarsi agli angoli. Lo sguardo al soffitto, la disperazione totale, piena, pesante, caduta addosso senza preavviso, come cala di colpo una zanzariera in estate. Forse il giorno dopo sarei stata estremamente felice, perché è naturale, spesso la gioia più forte è disperazione totale. E’ la capacità di toccare le sponde opposte, cercare le stesse risposte. E tu che non conoscevi bene l’italiano mi hai risposto nello stesso inglese strano: “Dovresti leggere Sartre” Non ho mai desiderato tanto parlare in francese come in quel momento, non per poterti davvero capire, per poterti mandare a cagare, perché odiavo litigare in inglese, io stessa non ne capivo le offese. Ma Sartre, consigliarmi Sartre in quel momento, era la spinta che occorreva a un suicida che contemplava il vuoto, come un volo nuovo, e cosa avremmo potuto fare io e Sartre se non volare abbracciati volteggiando in sensazioni uguali separate da generazioni, ricongiunte per sprofondare nello stesso abisso. Nelle stesse domande umane, volte ad arrovellarsi la coscienza fino a sminuzzarla come scienza, senza trovare antidoto migliore, al tempo, alle ore, al sano disprezzo umano, a osservare un sogno che quando muore non fa rumore, come il dolore. Cosa poteva dirmi Sartre? Che già non mi scivolasse davanti allo sguardo, lentamente, come molliche di pane gettate nel fondo del mare,  luci fioche e bianche che lente finisce per inglobare, cosa sarebbe cambiato del fatto che bocche di pesce avrebbero chiuso di scatto quel gesto in un atto, e avrei dovuto trovare altro per anestetizzare lo sguardo, dopo il sipario. Fare scorrere i pensieri, e trovarmi daccapo in percorsi inesplorati, dove avrei camminato con certezza ma senza direzioni, per muovere le gambe, strusciare i talloni, quali intenzioni avevo verso quella giornata, di incontrarti per caso, di fuggire da ogni casa, di entrarci solo come una ladra, e cosa poteva dirmi di questo tempo dilatato, di queste immagini in dissolvenza, lenta e logorante come la speranza, come una preghiera atea e sincera, per un Dio fuori da una chiesa, per un Dio in esilio, offeso e perso nel deserto del suo abbaglio. Per un Dio in punizione umiliato dietro a una lavagna, perché questa vergogna non è intelligenza. Per un Dio venduto ai mercenari, per un Dio clandestino, arrivato a piedi sull’acqua, superato il confino. E perché me lo avevi proposto come si dà un’aspirina a una che ha la febbre: “sto male”, “leggi Sartre!” Ti avrei forse risposto, quando avevi voglia di fare l’amore, leggi Catullo? Avrei potuto farmi scivolare la scrittura in gola, con tutta quella paura, ingoiarmi la vita di uno scrittore e aspettare il tempo esatto, che mi facesse effetto. Anche se è educativo non conoscere le lingue, si torna animali, si parla attraverso i gesti e si traducono istinti in personalissimi atti verbali. Potevo semplicemente appoggiare la testa sopra il tuo petto ed era perfetto che tu non capissi un cazzo.  Assolutamente perfetto. La tua intelligenza non mi avrebbe riguardato affatto, come donna poi il fatto che non parlassi era l’incarnazione del sogno del maschio. Ma sì, sono certa che l’uomo alla donna è inferiore, lo vorrei dire senza offesa, senza sessuale competizione, solo per prenderne atto, come che oggi è caldo, come che governano sempre teste di cazzo, è il vostro sesso, che vi ha ubriacato di potere, vi appanna lo sguardo, un ego stracolmo, la vostra mente non formula ragione, formula erezione. Potevo fare l’amore solo cominciando, e capire miliardi di cose non dette molto più precise e perfette, intuire intenzioni, e piccoli gesti, atti, sguardi, come tante costellazioni, osservarti come si osserva un cielo nero, con diamanti gettati a caso. Traiettorie di stelle cadenti. Senti. Se potessimo parlarci con facilità saremmo qui a scegliere le parole, a tentare di passare una qualche censura, a mentirci per paura, ad essere scaltri, poi essere altri. Invece a cosa serve. Quando abbiamo questo unico linguaggio universale, che sa cosa dire  e cosa tacere, cos’è naturale. Trovarsi senza appuntamenti, trascinarsi lenti, uscire da una porta senza salutare, rientrare senza appuntamento, avrei un calendario perfetto dentro, delle giornate spese, in fughe dai miei appuntamenti, amo non essere presente a me stessa, stupirmi  a fare del caso un qualcosa di ordinario a cui si fa caso per sbaglio. Se divento solo odore, se divento solo rumore,  versi, corteccia e polvere e sassi e vento, il mondo non mi può toccare, il dolore non mi può arrivare, come passa sulla terra quando l’attraversa. Che mi spalanchi come una finestra aperta, che  danzi come il vento con le pieghe di una gonna, che si gonfia, che si apre, che sale, come medusa dal mare, dove si esce e dove si entra, che sia mare mosso tra gli scogli, acqua implacabile sotto i ponti. Tanto sarei pura assenza, che mi sbatta come una porta, da dove si fugge o da dove si origlia, che mi trattenga come un segreto o che mi sputtani ridendomi dietro, che mi sospenda in alto come un mulino di foglie, che mi trattenga sulle labbra, esitante come le voglie, se fossi solo il frinire delle cicale non sentirei il male. Se fossi qualcosa di ripetitivo e di costante, un rumore rassicurante a uguali cadenze, se potessi con questo invadere la mente. Lasciare un biglietto al dolore di turno “Torno subito” , il tempo di prepararmi al male, di indossare l’armatura, di fare della paura un fatto d’orgoglio, il tempo di deglutire, di un amore sepolto e mai dimenticato che si porta come il fato nello sguardo. “Questa malinconia che hai negli occhi la sento” “E’ il cuore spezzato che ci galleggia dentro” Se fossi un metronomo nuovo sull’orrore che provo. Ritmo e nient’altro. Tempo e vuoto. E così mettermi a guardare. E’ liberatorio non capire, ancora di più non impegnarsi a farlo, traduzione simultanea dallo sguardo, e tradurre malamente un inglese a nostro desiderio e vantaggio, comprendo di te esattamente l’idea che voglio farmi, ti impongo proiezioni, e sì forse volevi dire così, che rassicurazione, la comunicazione al di là della comprensione è sempre stata a una via, la tua o la mia. Si parla al proprio specchio, l’occhio ci aggiusta per difetto, anche mancasse una parte del tuo viso, una linea del profilo, nella mia mente sta l’immagine capovolta e risolta. Non c’è un cazzo da fare siamo sempre noi quelli da amare, cerchiamo nell’altro una sorta di “viaggio”, qualcosa che faccia funzionare bene il nostro meccanismo interiore. Forse ci dobbiamo solo sintonizzare, forse ci manca campo e ci accostiamo ad un altro, “scusa non prendo bene me stesso, devo capire se con te ci riesco” “E’ perfetto accanto a lui vedo la mia pornografia” Pensare che da solo non ci potevo arrivare, devo regolare l’antenna e captare. Riesco a rintracciare le mie reti proibite, che vanno a rincorrersi nelle tarde ore, le cose di me vietate ai maggiorenni, quelle censurate ai mondi interiori, quelle nel fondo nero che intravedo, più nero del vestito che di dieci dita supera il mio ombelico, più nero degli occhi di Al Pacino, della paura di un bambino, più nero della fine di un amore, del dolore al petto che porta un odore, più nero del desiderio che si espone beffardo allo sguardo di un altro, più nero di questa giornata, più nero di una notte priva di stelle, più nero di una donna che cavalca la faccia della luna a gambe aperte, più nero delle tua barba, più nero dell’impotenza, più nero del desiderio sospeso all’attesa, più nero dell’inconsistenza della resa, più nero dell’odio, più nero della rabbia, più nero della ribellione, di un pipistrello, più nero di un pendolo davanti al tuo sguardo catturato in ritardo, più nero dello smalto alle dita dei piedi, di un tatuaggio sul finire della schiena, come una porta oscena, più nero di quello che vedi, più nero del segreto, più nero del rimorso, più nero della tua ragione quando per il mondo è torto, più nero di una condanna, di una confessione, più nero di un affitto, più nero di un lutto, più nero della vertigine di un orgasmo, più nero di questa morte e assoluzione in ritardo, più nero della morale…che male. Più nero del ricatto, di un pignoramento, di uno sbarco, di un solo momento, di un tradimento, della pena di morte, dei perduti diritti, di quelli che stanno zitti. Più nero dell’omertà, più nero di ogni età.  La tua lingua francese e il suo suono sulla pelle sono quello che occorre per il presente. E la vita non è altro che questo, qualcosa che comincia e finisce da adesso. Se capissi il tuo francese non sarebbe così affascinante starti accanto, si ama davvero solo chi ci è il più possibile sconosciuto, si ama la possibilità, non la realtà, e poi è la solita storia si ama soltanto noi, e solo per una volta, del resto presto ci stanchiamo, appena ci riconosciamo. Nell’altro. A volte l’amore mi sembra un granchio senza sosta di quelli che cercano la conchiglia giusta, ma non per capirla, per abitarla. Noi l’altro non lo capiamo, ci abitiamo e ci abituiamo, gli entriamo dentro poggiando le chiavi dove d’abitudine lo facciamo, ci accomodiamo. E’ nostro, e ci stupiamo quando qualcosa non va per il verso giusto, la nostra casa ci ha sbattuto fuori, privi di tutto. E dire che noi non facevamo che entrare, buttarci sul divano, lanciare via le scarpe.  Merda, tutto quello che ero l’ho lasciato chiuso là. Riapri la porta rivoglio me stesso, in mano ad avvocati quello che siamo stati, fogli, conti in banca, siamo stati tutto quello che manca. La mia immagine della vita è un cinema all’aperto su sedie scomode, una condivisione totale  senza che nessuno si possa ferire, ma potersi sentire. L’amore finito in una birra raccontato a un sordo una sera come un’altra, senza troppa meraviglia. Abbiamo fatto di noi stessi una proprietà, e abbiamo amato per incapacità, per incapacità di vederci davvero chiaro in quello che siamo. Non è cinismo, sono pratica, tangibile, sono dentro quello che sento, una volta tanto senza danno. Chi cazzo l’ha chiesto di nascere, non è che quando sei un embrione ti fanno sedere e ti fanno sapere una serie di cose, ma poi qualcuno di noi, ricorda il momento esatto nel quale ha compreso la grande fregatura, ovvero che poi arriva la morte, e quella è niente, è il vivere con quella paura. Lo si sa da bambini, vero, ma a quale età? Vorrei sentire tutte le risposte, le vostre. Come ve lo hanno spiegato la prima volta, come lo avete capito? E come ci siete rimasti, rimasti davvero in quello che dico. Certo per i credenti ci sono gli appetizzanti della vita, si fa schifo l’idea, ma te la rendo più saporita, se ti spiego che in realtà c’è un’altra possibilità, siamo di passaggio soltanto, e dovrebbe rassicurarmi questa passeggiata del cazzo? In cui ho il tempo di inglobarmi di merda, di vivermi ogni tipo di lutto, prima di lasciare tutto. Anche la reincarnazione, spiegata per sommi capi, può lasciare obiezioni, perché fondamentalmente la qualità della tua vita dipende da quanto sei stato coglione in quella precedente… Non so se sia peggio immaginare una vita davvero finita, che tante vite da cui ricominciare, in un eterno soffrire, senza memoria di un infinito morire. Le religioni superano ogni lettura fantasy. Aggiungerei anche ogni film dell’orrore, il fatto che poi ci siano servite e ancora ci servano per fare ogni sorta di strage, deve essere che non siamo delle cime nella traduzione, o il male che possono fare libri di un certo spessore anche letterario nelle mani sbagliate. E se invece non si vuole cadere in queste ingenuità, si sa, uccidere nel nome di un altro fa una certa comodità. Se poi questo è Dio, chi paga al posto suo? Come lo possiamo sbattere dentro, non è bastato neppure crocifiggere il figlio, anche la vendetta trasversale è andata male. Ma quale mente di lucida perversità umana ha creato le religioni, chi si è messo lì a spiegarci che è così, esattamente così. Oh beh le trascrizioni, i monaci amanuensi, e questo è un logico motivo per credere vero tutto quello che scrivo? Perché è passato nel tempo? Una bugia a fuoco lento. Si apre un campo pericoloso e qui apro e qui chiudo. Passo. E comunque se poi siete atei la vita è dura, per gli atei non c’è censura alla morte, per gli atei si aprono le porte e neppure quelle di confessioni segrete, a noi non ci resuscita il prete, noi con i peccati “mai guai”, non ce ne liberiamo mai, noi siamo tanti Don Chisciotte dalle ginocchia rotte, nella testa ci ha invaso il vento turbinando dentro da tempo, noi ce la viviamo da eroi, un’altra vita? Giammai! Ma quando muori dove vai? Polvere, cenere, memoria, prodezze, passare d’orgoglio alla storia, diventare immortali nei fatti, altro che c…i!

Ma tornando alla prima domanda, io non me lo ricordo quando e a quale età l’ho compreso che c’è una fine per tutto, e la cosa più sconvolgente è che la tua maglietta sopravviverà  a te stesso, che le cose, gli oggetti, le case e i sassi che getti, quasi tutto quello che tocchi, ti batte nel tempo. Non lo so cosa sento. Cos’è una voce in segreteria, quando siamo morti, per chi la sente, “al momento sono assente” per sempre? Perché se faccio il tuo numero non mi rispondi? E questo, solo questo, può portare alla pazzia, non quello che se ne è andato via, ma la sua voce che puoi risentire per ore, il respiro, le pause, il fatto che dice che ritorna più tardi. E vestiti e scarpe, tracce di guerre, di passi, di voli bassi. Cos’è l’odore che rimane, quale stregoneria ci appare, un filmato, una fotografia, il non esistere più, il non potermi sentire, quali occhi guarderanno il mondo se non lo guardo io a modo mio, io che da sempre vedo da qua dentro e osservo, registro, sento. Questa mia vita che può andarsene dal corpo dopo avere tanto esplorato, ventimila leghe sotto i mari distante da me, dopo tutti questi abissi svelati. Impossibile concepirci come nulla. Dovremmo essere tutti in manicomio per questa aberrazione, non c’è tortura studiata con più attenzione, eppure riusciamo persino ad essere felici, felici!! Euforici, riusciamo a sentire l’eternità in un minuto, in un odore, in un sapore, perché ce ne dimentichiamo… No, forse non è così, non si dimentica davvero una condanna tale, poi ci aiuta vedere la morte come persona e nemica, è una sciocchezza, il dolore non è nella morte è nella vita. La morte è quell’antica presenza di quando noi eravamo assenza, quando non avevamo nome e neppure un’idea, o un progetto di vita o anche una sfiga, non mi sento il proseguimento di mia madre o di mio padre, ma piuttosto un povero individuo nato da mancanza di preservativo, o qualcosa di andato storto in un rapporto che comunque valeva la pena l’orgasmo, se c’è stato, perché in caso contrario, già la vedrei più dura, intendo una bella fregatura. Non so se sono figlia del piacere, o della noia da morire, non cambia nulla, sono qui, per vivere e morire. Non mi fa più romantica la vita se mi dicono “sei stata desiderata”. Non mi hanno comunque interpellata, nasci come desiderio altrui. Prima di essere solo l’invito in uno sguardo, e forse più consistenti e duraturi, come gli oggetti, come i muri. E’ un peccato che ci siamo evoluti, allo stato di scimmie eravamo perfette, di questo mondo salverei ogni forma di vita esclusa la nostra, questo in tutta sincera risposta, alle qui sopra elucubrazioni, poi ci ritroviamo questo sentimento “l’amore”, l’unico aspetto immortale, e infatti non lo sappiamo gestire, noi stessi siamo vuoti a rendere, iniziati a finire… Come si può capire l’amore, questa astrazione come la passione, che rivoluziona dalle viscere al cervello, che quello che hai intorno rende magico e bello, questa stupidità alata, questo sentire irriverente che riduce la tua razionalità a niente. Che gioca a ruba bandiera  con il “Non qui e adesso” perché non è una nostra decisione, e voglio controllare tutto! Ne parlano di una malattia, dalla durata differente, a seconda di come ci si sente, giorno per giorno fino a guarirne, la sua guarigione spesso è quasi un decesso, anch’io sono guarita dall’amore ma prima si muore. L’amore se è amore finisce con una morte, con un dolore, non c’è pacca sulla spalla, condiscendenza, non esiste “rimaniamo amici”. Ti amavo, che cazzo dici? Sono cose diametralmente differenti! E non credo che con il tempo però… Il tempo non c’entra con l’amore. Non c’entra  neppure col dolore, mette distanze, veramente?  L’amore non si muove attraverso un tempo, non è tempo, non dà tempo, non ha tempo, non si conta, non passa, non resta, è dentro e poi non c’è più. Forse sei solo tu. Ma è davvero questa fregatura infinita tutto questo senso della vita? Siamo noi stessi circondati da noi stessi, siamo solo selfie? Che Dio fosse un sadico umorista? Oppure dopo avere creato un mondo perfetto, si è detto adesso provo una cazzata, e per puro hobby è nato l’uomo. E certo deve avere pensato “Minchia e adesso?” “Il danno è fatto, lo metto a tempo, lo faccio finire, tutto sommato presto, e per esserne certo, non fisso solo una data che sia, relativa all’anzianità, ci metto l’incidente, la malattia, la catastrofe naturale, insomma più eventualità!” E  che abbia poi aggiunto: “metto un ateo di mezzo, ho bisogno di uno che mi remi contro, per par condicio, metto quest’uomo senza dio, a rendere difficili le cose, qui come altrove e in lotta perenne con se stesso, uno che finalmente non mi scongiura e mi prega, uno per dio che se ne frega anche della maiuscola nel nome mio, di quello che sarà, uno che si  tormenterà però, nel dubbio che non ci sia altro, anzi in questa certezza, sappia godersi la bellezza del presente e mi renda orgoglioso di questa vita, che in fondo gli ho regalata, esattamente come di una giornata iniziata e finita e mai garantita. Certo che scompiglio fosse stato ateo mio figlio, diceva dio tra sé.  E tu con quale religione addormenti le tue paure?

L’amore, l’amore si serve di minuti dilatati che diventano ali, l’amore non ha paura della morte, forse ci assomiglia, l’amore tutto si piglia e certo ci fa paura. Non ha alcuna premura di noi, di come ci lascerà poi, l’amore, invade e attraversa. Neppure è eterno, neppure è per sempre ma ha il potere che così ci si sente. E questo basta, anche solo nel ricordo di avere percepito l’infinito nel tempo di un sorso. Che niente è davvero legato al tempo, così relativo, su quello che sento e quello che scrivo. E oggi ci hanno creato “Diari” i Social Network, e funzionano alla perfezione, hanno un grande successo, lo hanno perché l’uomo ha bisogno di un anestetico profondo, per muoversi nel mondo.
 
Eloisa Guidarelli
 

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