sabato 3 marzo 2012

Giovanna d'Arco nell'anno dei Maya

Foto di  Andrea Moretti
Giovanna d’Arco nell’anno dei Maya

Ci sono giornate che le tue ossa sono cave, tu sei leggera, tu potresti volare, che di niente ti frega, che niente non hai, che senti l’odore forte di qualcosa di vero, che neppure il cimitero è un brutto posto per camminare.
C’è un lungo corridoio di cipressi, un lungo corridoio di paletti, dei ragazzi del 15-18, di vent’anni neppure, di un sogno interrotto, c’è un lungo corridoio di fiori finti, e fagiani che volano a pelo dei tuoi istinti, non c’è nulla di spaventoso nel cielo e tu oggi ti senti e finalmente ti somigli. C’è un lungo corridoio di ragazzi, uno per cipresso, uno per stelo concesso, uno per manciata di terra, uno per l’idea della guerra, che forse non è mai di chi la combatte e neppure di chi muore, ma il mercato nero ha un sorriso marcio, il potere ne ha un altro, non sarà la prima ne’ l’ultima volta, che l’essere umano si conceda questa vergogna, come un ballo fuori luogo, un invito disgustoso, qualcosa che non si rifiuta, e ci si lascia alla paura, alla congiura, all’ingiustizia, al valore, alla patria di tutti, alla morte dei soli. Ci penso sempre a tutti quei ragazzi mentre con l’aria nei piedi percorro i miei passi, avevo un ramo di cotone tra le dita fredde e c’era la neve, avevo fiori secchi e c’era il sole, varcato il confine dei verdi cipressi, si vendono fiori, si ammassano le corone, si fanno marmi bianchi, si fanno belle tombe, se paghi. Non c’erano privilegi e neppure errori, c’era un silenzio pieno, che gustavi come la luna di sera, come una guancia rotonda e bianca, e l’aria ti bacia il collo, la vita ti affianca. E le labbra contro una fotografia, fredda di inverno  e le labbra contro una fotografia che te le brucia in estate e uccellini di paglia in un paradiso calmo, di un sorriso posato dove hai immaginato sorridere l’altro. Confini. E’ come allungare la mano sullo specchio d’acqua. Ora sento l’odore del motore, dell’olio che si allarga nel mare, ora torno bambina, sul porto pirata di una barca a vela, la fantasia è naufragata, si è infranta sul seno di un giorno sereno nella grassa risata, qui allarghi le braccia e i piedi sono scalzi, qui cammini lenta e non ci sono orari, qui non sei disoccupata, qui non manca la casa, qui sei cenere o terra, quasi l’aria è più bella, qui non ti mancano i soldi per avere un bambino, qui non ti mancano i ricordi, qui almeno se ti manca il futuro non ti senti in colpa e porti meglio quel lutto, qui posso urlare che t’amo che tanto non senti, qui posso urlare che t’odio e tu non ti spaventi, qui posso entrare, il cancello è aperto, non c’è un biglietto d’ingresso, anche se tassano anche voi morti… Dov’è Robin Hood cazzo! Poi qui c’è sempre poca gente…. Che parla con i morti… che si ferma un momento, che tenta di capire cosa ha importanza. Davvero. Io vengo qui e come un pavone faccio la ruota, io vengo qui con la mia intimità, con questo schiaffo di serenità, ma io vi porgo il groviglio profondo delle budella di questo mondo, della paura di addormentarmi la sera, manca il lavoro e ogni certezza, in questa vita manca la carezza, così per quanto strano, qui la pace mi prende per mano e io ritrovo stabilità, come fossi morta tempo fa e avessi capito tutto d’un fiato, che sono disposta a buttare nel lago questo collare che porto al collo, questo pesante collare di ferro, questa fottuta società, questa paura, questa viltà, questa voglia di dire la mia e poi liberarmi da questa follia, da questi inchini al servizio del nulla, voglio che il cuore mio mi appartenga, voglio che le lacrime non mi siano rubate, voglio che i sorrisi non mi siano rubati, voglio che la vita tutta si ribalti che siano i morti a portare fiori ai vivi, che siano loro con i loro sorrisi a spiegarci gli errori di cui siamo intrisi, voglio che tutti i ragazzi di questi cipressi portino al parlamento i sogni rubati, li stendano tutti vicini, allineati, che si squarcino il petto e urlino sempre “puttana nel mondo non cambia mai niente!” e tutte le donne da quel profondo, che mi sospingano la schiena, che portino i miei occhi in faccia ai tuoi, che mi facciano gridare perché di certo non sei più importante di me, che sono stanca che il sesso maschile non debba spiegare, non debba capire, che anche l’ultima amazzone concessa, arrischi il suo collo e perda la testa, per l’ultima battaglia onesta, stesso stipendio, stesso tradimento, stessa voglia di scoparsi il mondo, è una vita che attendo… questo momento, nessuna donna che si debba agghindare, nessuna donna che si debba prostituire, stessa gioia, stessa paura, nessuna libertà concessa. Repressa. Prenditela, come si taglia una testa! La rivoluzione nasca sotto le palpebre, e nasca sotto le labbra, quando baciano la tua foto ora che sei nel mondo che più non si meraviglia, la  Rivoluzione nasca adesso dall’acqua salata chiusa tra le mie ciglia, la rivoluzione nasca nel letto e nell’orgasmo che ti rassomiglia, nasca sotto le tue dita, nasca sotto le sue dita quando ti prende il seno, nasca nell’amore  quando appoggio il viso sereno e l’aria è soltanto il nostro odore.

Ti respirerei per ore.

Prenditi il piacere, l’istinto, il diritto a godere, e poi… Prenditi ogni ottima ragione per gridare il tuo nome, non perchè rispondi a un appello, non perché compilano uno schedario, non perché deglutisci quando ti iscrivono alle liste di mobilità… Incazzati per l’immobilità loro! Incazzati per questo mondo immobile, incazzati perché per sentire qualcosa di vero, porca troia, devi entrare in un cimitero! Incazzati perché questa vità è una bugia, e tu sei la più grande ipocrisia, incazzati perché le donne stanno tornando indietro… non se ne fanno nulla dei diritti, ci sono vie più brevi… più facilmente conquistabili e poi si entra anche in politica e poi si fanno soldi facili…
Ahhhhhhhh!
 le mani alle orecchie, il vestito a fiori, le spalle scoperte,  le cosce di fuori, stavo seduta, la testa caduta tra le ginocchia di una vita vissuta di fretta, concessa, come una scossa elettrica, e voi a bisbigliarmi alle orecchie… cose quasi perfette… non mi suiciderò come Giovanna D’Arco…
Alzati, lotta, datti una mossa! Fatti una doccia, togliti il suo odore, indossa l’armatura migliore, tagliati i capelli, prendi la spada, muori nel sole non nelle tue scuse, e risparmiaci le preghiere, mostraci un po’ di azione dannazione!!
-         Ma perché? Me ne sto qui a galleggiare sul mio orgasmo, mi si sdraia il sorriso da guancia a guancia, il mondo sta vorticando nel cesso, ho tirato giù l’acqua, qualche genio troverà la pozione, la ragione, la tua rivoluzione… Ho deciso di godere, di farne un mestiere, vuoi vedere?
-         Guarda che hanno tassato anche le puttane!
-         Si ma non quelle che la danno per fame spero? Che porcheria tassano pure te fica mia…Che devo fare?
E tutti i morti del cimitero in un accorato profondo pensiero come un rutto a lungo trattenuto urlarono in faccia a quell’anima innocente “Niente” Come niente?      Le dissero che non ce la poteva fare, che in fondo stava a frignare, che non aveva neppure l’aria adatta per partire così alla riscossa, che di certo le avrebbero spezzato tutte le ossa… Allora lei si offese, pretese le ragioni, volarono foglie bagnate, le tornarono in mente sere d’estate quando lui, quell’uomo importante, le sussurrava alle gambe, l’uomo che sussurrava alle passere… Accidenti che cavolo di eroina posso diventare! Ogni scusa è buona per ansimare e neppure di dolore! Allora si tatuò il cuore, cancellò di lui l’odore, si fece una striscia di fiori secchi sulla tomba e giurò alla sua vita una guerra immonda, feconda, rotonda. Uscì dal cancello del cimitero nero, nella testa alcun pensiero, andò a casa dal suo uomo lo violentò, non gli chiese perdono, ma gli uomini non si possono violentare…Chi lo ha detto?  Lo farò eccitare… E così fece ma non lo fece finire, lo lasciò lì duro a tentare di capire, e questo è niente confronto a partorire! Poi con l’amaro in bocca ma a livello di ovaie l’eterna riscossa, andò dal suo datore di lavoro, era un tipo strano, mano morta che la sfiorava, ma lei era in prova… pensò al mobbing di tutti i giorni, a quel viso scemo per caso che si trovava davanti al suo sguardo, quell’enorme assurdo naso come un grosso cazzo gettato tra gli occhi, ma poi si riprese, divenne cortese. Una notte la passò a raccogliere una carriola di merda, dedizione eterna, quasi un giardino zen, gliela portavano pure gli amici, lei per tutti aveva sguardi felici,  fece l’alba e in luce gialla, ai confini di un giorno perfetto, gli rovesciò tutto il contenuto davanti alla vetrina allestita per Natale.  Compiaciuta.
La merda sale, tutta la merda di tutti i giorni, la merda torna, la merda si sa, la merda prende, la merda da’. Poi andò da quell’uomo sincero, quello che le affittava la casa in nero, fece una spiata a uno della finanza,  lui tentennava, incerto sui fatti… e sulla testimonianza, lei tagliò corto e disse : “se va gliela do a oltranza” E lui  che era un tipo essenziale, corse nella sua veste ufficiale, e lei si leccò le labbra… Dove si estendeva questa vendetta, un piatto freddo non ha alcuna fretta, la prode Giovanna d’Arco dell’anno dei Maya non aveva un lavoro, non aveva una casa, se ne fotteva della fine del mondo e la morale di questo pezzo rimato è che prenderla in quel posto non è reato, soprattutto se tu sei chi lo prende e chi lo mette è il governo o lo stato, ma ribellarti è una cosa seria, cambiare anche un giorno della tua vita, sentire l’intensa gioia infinita di chi del suo corpo non fa cibo per sciacalli, di chi è disposto a dare l’esistenza, perché finiscano gli ingranaggi oliati per l’assenza, l’assenza di voci, l’assenza di anime, l’assenza di diritti, l’assenza di gioia, l’assenza di amore, e poi l’assenza di stupore e di rancore e persino di paura. Qualcuno può lottare, perché il niente non diventi una realtà, grande, immensa, un cancro della coscienza con metastasi ovunque, metastasi di indifferenza. Avevo fiori secchi, un vestito leggero, li posavo fuori dal cimitero, lì vedevo la morte peggiore, lì sentivo un disagio costante, umiliante, mi saliva con la lingua le gambe, l’indifferenza tagliava le guance più del freddo, più del diamante.
 “Qui riposa la mia società senza palle, senza dignità, senza un futuro ne’ di qua ne' di la’”.
- Ma davvero  vuole scrivere questo e come lo vuole il suo nome?
E possibile al sapore di lampone? Il suo di cosa sa?


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