sabato 12 novembre 2011

Meglio così...

Che i tuoi occhi stavano lì per caso come confetti in un vaso, lontano il tempo altrove dove sanguinavano le orecchie a udire il tuo nome… e il piacere, deriso, un attimo dopo ti era in mezzo ai denti come verdura masticata di fretta o parole che non senti, eppure c’era il sole sulla pelle abbronzata, il collo gettato indietro in una risata, un sorriso che si sdraiava sornione sulle guance, sapermi vicina quanto distante. Mi pesa la testa ora, gettata  in un teatro prestato, mi trovo con i miei ideali alla porta, anche stavolta. Ho tante idee in un cesto e sono mature, le sento marcire, non ho altro da dire, permesso. Suore guardano in silenzio, scuotono la testa all’unisono, e io mi sono ubriacata insieme al mondo a parte che è quello dell’arte e la burocrazia mi addita l’uscita posteriore, c’è bisogno di praticità, di gente concreta, di persone votate al dovere, di velocità, masticavo riflessi lenti, mi sembrava impossibile tendere l’angolo di un sorriso, un passo all’esterno. Fatto. Non ne faccio più parte… non ci sono mai stata dall’altra parte della scrivania, e i miei sogni erano sempre al muro, per un conto alla rovescia, un’esecuzione veloce, sommario processo dei senza più voce, e i miei sogni avevano i polsi legati, labbra serrate e occhi beffardi che davano i nervi. Le mie domande erano lente, e le risposte in un tremore di voci confuse e sommesse di donne benedette nell’ora di andare. Ero immobile come ora, con la speranza che tutto potesse ruotarmi attorno che tanto non mi poteva passare attraverso, perverso pensiero di poterci camminare a fianco, il mondo s’è preso a braccetto il mio sguardo soltanto, mi porta veloce a vedere vetrine, mi deprime come la religione, come le ricorrenze, come udire troppe volte il mio nome. E la pioggia scendeva indecente come lingua ingorda e col mio cuore assente, e scendeva e colava dalla punta dei capelli, sui capezzoli gemelli, sulle labbra. La cercavo con la lingua. Dove mi sono spinta? C’è un limite del mondo, al di la’ del fatto che sia tondo o piatto, c’è un limite di fatto e di tatto… ho osato troppo, interrompo ogni progetto adesso, aspetto, che passi tutto, un giorno a lutto, mi afferro la carne, non sento più niente, la morte indecente di vite rapite, di perdute ricette, di gioie perfette, di angoli di nulla, di sigarette poggiate sulle tue labbra, quando soffi il fumo dalla bocca, mi cullo nel disincanto astratto di quell’automatismo che in un attimo distratto di te mi ha concesso la verità su tutto, una manciata di secondi in cui non eri del mondo, e non c’erano bugie, e neppure seduzione, solo il fumo che usciva dalla tua bocca, la tua mano sulla mia coscia, ma solo distrattamente, un sorriso leggero di passaggio, come il mio viso fosse solo un paesaggio dal finestrino e ti sentivo vicino, poi la mano sul volante ed eri perso nella tua vita, nel tuo respiro, nella tua prospettiva, io ti sospiravo a fianco e sorridevo leggera, avrei voluto appoggiarmi sulle tue gambe dormire con te ogni possibile sera, tu che ami in modo perfetto quando sei distratto da te stesso, tu che ami in modo così sensuale, tu che distruggi tutto con poche parole e non senti quello che dentro mi accade, tu che mi chiedi che ho fatto durante la giornata, e ogni mattina, ogni notte di questa vita, eppure fino a poco fa io non c’ero, l’abitudine si apposta come una domestica dietro la porta, è pronta a spazzarti vicino ai piedi, a inchinarsi per quello che chiedi, ha ogni faccia di circostanza, forse io non ho pazienza, e tante sono le cose che non ho, ad esempio ora la fantasia mi scende dalle natiche ai piedi come slip che non vedi che hanno perso l’elastico, meglio muoversi senza, meglio non fare rumore, meglio fare passare al buio le ore, uscire con la faccia giusta e che nessuno capisca che sei diversa, che la sorte ti è avversa, che non sei del gruppo, che non ti adegui a tutto, meglio scivolare nei vicoli del mercato, con passo veloce e lo sguardo basso, meglio sentire sulla pelle e dentro le ossa la paura di essere trovata, la paura di essere spiata, la paura di essere come gli altri, la paura che sia troppo tardi. Batti cuore veloce, batti cuore veloce, non ti accomodare sulla voce di chi ti vuole modellare, e si arrotano i coltelli e c’è odore di pesce a volte di caldarroste, il mondo continua con la sua orchestra di odori e rumori anche se vivi anche se muori, e piccoli piedi bagnati a correre per le vie, e occhi fuggiaschi da sotto il cappuccio, so sentire la festa in un giorno di lutto, so sentire la morte a una cena di Natale, dove il nulla ti assale. Meglio essere nudi e togliersi d’impaccio, bello correre e rovesciare tutto, bello essere soltanto di se stessi, dare del tu ai propri difetti, istruirli per ore nelle giornate a festa, avere la rugiada negli occhi, lavarsi la faccia con la brina, jeans bucati sopra i ginocchi, guance rosse di giochi e di spazi, occhi larghi e di colori cangianti, disposti a imbrogliare amanti e passanti, disposti a rendere la bugia la cosa più esaltante e sensuale che ci sia, la cosa più giusta e persino più vera, perché lanciata a caso e senza pensare, perché buttata non per farti male, ma per farti sorridere ancora e berti tutto quello che ho in gola e vorrei dirti se non fossi distante, è una bugia come tante, caduta dal mio sorriso, scivolata sulla mia spalla, precipitata dalla mia schiena, sospesa sulla mia natica, rotolata nell’interno coscia, quasi asciugata sul mio tallone, raccolta dal tuo sguardo distratto bevuta dai tuoi occhi d’un fiato, è che ho buttato la faccia sotto la luna, per questo sono più pallida di prima…ho tagliato le labbra con il succo di mirtillo, ho buttato un sogno dentro il cappello, come elemosina e gesto di grazia, ho portato la mia faccia nuova col vento, verso una casa che non sento e mi sono persa l’indirizzo che avevo in tasca, ho contato le intenzioni dei sorrisi che mi sono passati a fianco e non bastano a comprarmi un panino, ho usato le dita e steso il colore come si appoggia il capo su un lastricato freddo e buio e ci si sente al sicuro, ho le tempie rinfrescate e il centro della terra è distante, ho i seni schiacciati al suolo come il pube, le cosce e le punte dei piedi fanno leva, resto a galla sulla zattera e sento tutto il silenzio che sono, mi percorre da dentro come la spinta dell’acqua alla cascata, come i nostri giochi, la tua risata, non posso fare a meno di questo scontento, respiro e mi sento. Dentro.

2 commenti:

  1. Apperò.....
    ....l' inizio mi piace molto...
    poi come al solito affogo nella miriade di parole
    che mi distraggono dal senso di ciò che esprimi ed
    arrivo in fondo che già non ricordo come tutto fosse cominciato. Forse è la mia scarsa capacità di concentrazione!?

    RispondiElimina
  2. No, no è proprio la mia scrittura che vuole questo stato di cose! ;-)

    RispondiElimina