giovedì 3 marzo 2011

2010 – Ho perso la casa 

Volevo aggiungere parole rosse, ma avevo labbra di sabbia e polvere da sparo, volevo aggiungere un sogno ma avevo il sangue sospeso nella spuma bianca della birra e credevo fosse un onda, volevo dire due parole sul mio dolore, ma era talmente grande, che ho pensato forse è gioia, poi volevo chiamarmi per nome ma avevo le mie opinioni di spalle e il suono delle lettere mi creava piccoli tagli sulle labbra, credevo fosse il freddo, poi avrei voluto leggessi tu nel mio sguardo che sul mio corpo era in ritardo, ti avrei pregato di sputare un giudizio, anche una condanna, di lanciarmi una spada, una canzone, di aprire una finestra a lato di ciò che non vedo, alla sinistra di quello che dico, al di là del pensiero come del sesso, dammi un ideale, una pistola e nessun nome che ora che non sono niente potrei condurre battaglie oneste e lanciami un sogno che ricambierò con un sorriso distante e dimmi le tue ragioni le avvolgerò nel mio sguardo assente, come uno straccio sul pane, e dimmi cose che non dicono niente, io ti scaverò il cuore fino a bere tutte le tue censure, fino a danzare con piedi nudi sulle paure, e ci sporgeremo fino alla pancia da una macchina di nebbia intravista da una stanza e urleremo tutta la rabbia, ci sarà il cielo limpido e avremo un dolore acuto a guardarlo, ci sarà il vento a sfiorarci il mento, poche parole urlate, nessun senso, ci sarà vita come non c’è mai stata, ci saranno orizzonti dentro la stessa stanza, ci sarà l’infinito e il grano sul sangue, ci saranno sorrisi gridati e lanciati, come palloncini pieni d’acqua d’estate, come sanpietrini contro pregiudizi e ordine, ci saranno le nostre budella stese, le nostre braccia allungate l’uno verso l’altro e niente scuse e se dovremo toglierci le reti dalle gambe, vorrà dire che percorreremo con più rabbia l’asfalto bollente, avrei voluto aggiungere parole ma al momento ho petrolio sulle labbra, avrei voluto amarti con urgenza ma la gioia immensa metteva spilli tutto intorno alla mia aorta e deglutendo sentivo male, credevo fosse un ideale, avrei voluto portarti dentro, avevo il petto squarciato ma il sorriso sincero, la morte mi leccava dalla guancia all’orecchio e io volevo dirti che non c’è paura in questo, che una volta che ti hanno passato la spada da parte a parte quello che resta è arte, odore di rosmarino, dolore che ti può solo ubriacare, passione travolgente, gioia impellente, mancanza di paura e di rabbia, ora che ho il foro nel petto, che tutto il sangue è uscito, il sorriso perfetto, la giusta distanza, il distacco dalle tue spalle, ora che non ho senso di colpa e colpe a milioni, ora che non sento né le tue, né le mie ragioni, ora che c’è questa incapacità ad amare al momento, dal foro del mio corpo mi arriva all’orecchio il rumore del vento. Soltanto. Chi ero, chi sono, un concetto sospeso, credevo fosse un aquilone, nell’idea di qualcun altro. Fa niente, si può essere assassini educatamente, martiri ipocriti, dittatori coerenti, eroi assenti, si possono spegnere ideali come fiamme traballanti e precarie sospese su dame bianche che li portano sul capo come donne Africane vestite di lino sotto la luna nei loro corpi di cera. Si può essere cenere bianca e può fare molta più paura l’assenza di dolore, il chiedere scusa senza sentirne ragione, il partire con una preghiera in testa e rimanere smarriti e senza richieste di fronte a una croce, dove mai ho appoggiato la testa su lama e snobbato la ghigliottina, dove mai ho bruciato sospesa su legna senza sentire la mia carne viva, cosa c’è dopo tutto questo nulla dentro me, cammino nel mio stesso corpo, cercando vetri rotti, corrosi dai succhi gastrici e conchiglie da portare a casa in ricordo di me, in ricordo di una casa.

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