lunedì 17 gennaio 2011

SENZA TITOLO III




Ho strappato un appuntamento col dirigente, l’ho bloccato nel cesso, unico luogo dove non è seguito da gente. Tutte le donne del dirigente… sembra un film. Ero contro la macchinetta che distribuisce caffè, avevo gli occhi catturati dalla voce “in funzione”, avevo un vestito rosso e seni traboccanti per via di un push up all’olio, ero la foto non espressa nel curriculum, il sesso sublimato nella pubblicità del biscotto, ero rossa e nuda nel corridoio del cesso a porgergli un sorriso come carta igienica che gli accarezza il culo, che schifo. Comunque chi se ne frega, devo lavorare, la mia strategia è solo farla immaginare, butto una corda è lui che ci sale o cade o si lacera le mani per raggiungere cose… E l’assenza di te mi sale alle gambe, come formiche distribuite in colonne che portano doni di pane, che colmano la fame, e la tua assenza non è vera mancanza, perché questo vento mi solleva i capelli e questo sole mi sfiora le spalle con labbra bollenti, e mi sento sospesa e sorpresa da mani che non vedo ma restano come sogni a dormire abbracciati, come quasi neonati che stringono la vita in pugni a cui non hanno mai contato le dita. E dopo questo atto di prostituzione burocratica, dove il burro fa da allusione in movimenti che si mangeranno lo spazio, guidati da un corpo dove se esisto mi sarò rifugiata a lato a prendere nota di come mi prostituisco. Conterò i soldi orgogliosa, lui avrà in mano la ricevuta di ogni cosa soltanto suggerita. E dopo l’aria, piena di condoglianze, mi si aggrapperà da sotto il vestito alle gambe, commossa. Dovere. Riuscirò a mettere un neurone avanti all’altro e a cavarmi un discorso compiuto che non sappia di tappo? Vedremo. Quanto vuoi per non abbatterti, quanto vuoi per dipingere, quanto vuoi per scrivere, quanto vuoi per gli organi vitali, quanto vuoi per la tua indipendenza, quanto devi guadagnarci sopra, quanto agile devi essere a scavalcare sputi che ti lastricano la strada. Siamo tutti lì a venderci, siamo come dietro sbarre di canili, orecchie basse a supplicare di essere notati… da noi stessi, di essere speciali per noi stessi? Di commuovere da spezzare le ossa, di un gesto che apra la gabbia e quanto ci costa, siamo a scodinzolare, e siamo sempre noi ai bordi delle strade a lanciarci con movimento di fianchi e seni a vetri neri che ci corrono ai lati, a sospirare di essere scelti, di fare parte di un sogno sessuale, di suscitare su tutte un prurito speciale… ogni giorno. Ogni giorno. Ogni cibo. Ogni cosa. Ogni volta. Ogni sorriso. Nessuna spontaneità, nessuna sincerità, abbiamo la vita divisa in spot e consigli per gli acquisti, consigli subumani, e la violenza ci scappa improvvisa come draghi che vomitano fuoco e fino a un attimo prima non lo sanno, pensavano si trattasse di un semplice rutto. E diventiamo feroci senza coscienza, quasi senza colpa per conseguenza. Apriamo gli occhi e ci sono interi popoli con i capelli bruciati e lo sguardo stupito nei bulbi oculari sporgenti, come a chiedere “che è stato?” Niente, siamo draghi e quando ruttiamo va a fuoco tutto ma non lo sapevamo.. E ruttiamo su uomini, donne e bambini, cancelliamo nazioni quando digeriamo. Siamo distratti, ingombranti, non volevamo.
Scoreggiamo idee di scudi a proteggerci la testa da probabili missili che anzitempo abbiamo poggiato in culo a chi ora, giustamente, ci detesta. Ma cosa ne sappiamo. Ogni giorno, ogni cosa, ogni volta che ci prostituiamo e con le schede andiamo a votare chi, cosa? Ci sono cabine predisposte alla posizione prona, fossimo come l’ape che succhia e ci fa il miele sarebbe un’altra cosa, con noi a mala pena si fa fuori un presidente, se va bene. Rimangono angoli per seghe al cervello, seghe sociali, ambientali, contro la vivisezione dei diritti o progetti ad ampio raggio per ridurci a una massificazione, a una particella di sodio che fa monologhi nel nostro cervello. Ho visto le immagini di Genova tirate fuori come carte sbagliate in televisione, mi si è spremuto il cuore a sentire la voce di un ragazzo gridare basta! E basta gridavano tutti gli altri attorno, mentre il suo corpo era lì, tra calci e colpi di manganello, e quella voce di pianto e stupore “basta”, mi si è bloccato il respiro. Basta un secondo per percepire lo schifo e un altro secondo per fuggire in apnea, per evitare che il sangue d’altri come onda più lunga ci macchi le scarpe. Basta, gridavano tutti. Ma solo uno al centro era zittito a calci e pugni. Quando la finiremo di sentirci liberi, quando li vedremo i guinzagli a strangolo che tirano all’improvviso mentre tu vuoi solo andare dove stai esattamente andando. Il peggio è che la polizia ce l’abbiamo dentro. Ecco questo silenzio. Siamo i primi a manganellarci il cuore, a renderci inermi e vestiti di terrore, bloccati come insetti che conoscono l’unica strategia per sopravvivere a un nemico più grande di loro, fingere di essere già morti.

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